martedì 26 aprile 2011

CONFLITTO ISRAELO- PALESTINESE ( ATTO II ) : LEBANON

Quattro soldati all'interno di un carro armato. Fuori la guerra. Questa la trama di "Lebanon" film vincitore nel 2009 della Leone d'Oro come miglior film al Lido. 
Diretto da Samuel Maoz, ex-soldato israeliano, il film è ambientato interamente all'interno di quel carro. Così come per i soldati al suo interno, anche per lo spettatore la visuale delle vicende esterne è rappresentata dal mirino del mezzo, attraverso cui vediamo gli orrori di una guerra, quella del Libano, di recente tornata alla ribalta a causa delle vicende d'attualità che riguardano il conflitto fra palestinesi e israeliani , oggi nel pieno del suo sviluppo, sia perché il cinema, in questi ultimi anni, ne ha trattato il tematica. 
Il confronto con il suo precedente illustre, "Valzer con Bashir" (Link), sembra essere quasi inevitabile. Ma questo non può esserci visto che, per quanto entrambi perseguano lo scopo di mostrare gli orrori e l'irrazionalità della suddetta guerra, ciascuno per sé segue un percorso totalmente differente rispetto all'altro. 
Se il film di Folman presenta una visione onirica e allucinata, tipica della rielaborazione psicologica di un trauma, "Lebanon" sceglie la strada del realismo estremo, giocato su un'immedesimazione totale che va a discapito degli elementi stilistici. L'unica concessione drammatica che si concede Maoz è il voler insistere sul volto delle vittime, degli oppressi palestinesi, che nel guardare dritti verso il carro armato sembrano guardare chi vi è dentro e, di rimando, lo spettatore che può solo assistere al raccapricciante spettacolo; si elide in parte il realismo in favore dell'impatto emozionale.
"Lebanon" è una visione d'impatto, un modo nuovo di raccontare un qualcosa che il cinema cerca di rappresentare, sotto molteplici sfaccettature, da sempre.
Ma è la componente realistica ad essere vincente: ci fa sedere accanto ai soldati, ci fa annusare l'odore di sudore misto a carburante e ci fa perdere l'innocenza, tema portante di tutto il film. Alla fine i quattro protagonisti non sono altro che dei ragazzi usciti da poco dall'adolescenza, certamente non pronti a combattere e a uccidere vite innocenti. E quel guscio di lamiere che li protegge diventa una centrifuga di paure, timori, rabbia ed alienazione. In questo senso è eloquente la scena in cui uno dei quattro, dopo aver vissuto momenti di terrore ed aver rischiato di morire, inizia a radersi la barba come se si trovasse a casa sua in tutt'altro contesto, ipnotizzato e ormai assente rispetto alla realtà in cui si trova in quel momento.
L'abilità di Maoz è sopratutto qui, nel calarci in una dimensione bellica vista da soldati inesperti, ragazzi che si perdono nei discorsi tipici della loro età e reagiscono come potrebbe reagire qualsiasi persona di fronte a un qualcosa a cui non sono pronti. Lo fa senza retorica e lasciandoci, nel movimenti finale che cita "Apocalypse Now" (non posso dirvi altro), un residuo di umanità: la speranza.

Habemus Judicium:

Bob Harris

martedì 19 aprile 2011

SCREAM 4:NÈ UN REMAKE,NÈ UN SEQUEL, SEMPLICEMENTE BRUTTO

A volte andare al cinema significa andare a vedere un film tanto atteso o da cui si è incuriositi. 
Altre volte si va giusto per stare in compagnia e fare qualcosa di diverso. Quest'ultima è stata la mia motivazione quando ho deciso di andare a vedere "Scream 4" atteso quarto capitolo della saga slasher di Wes Craven, che, dal 1996 ad oggi, tanto successo ha riscosso (nonché innumerevoli e fiacche imitazioni). Comincio col dire che partivo prevenuto. 
Il trailer non mi aveva convinto e, memore del terzo capitolo, c'erano buone ragioni per pensare che questo quarto potesse essere, per dirla fantozzianamente , una cagata pazzesca.
Difatti è così. 
Così, tornato dal cinema, mi accingevo a scrivere il mio post di demolizione del film-cagata. Decidevo però di fare un giro sul web e leggere qualche recensione, cosa che non mi era sembrata necessaria prima della visione del film. Lo reputavo talmente un filmetto che mai avrei pensato di trovarmi di fronte a questa realtà: la critica apprezza largamente il lavoro di Craven.
Ciò che però mi ha sbalordito e infastidito dei giudizi sul film è il fatto che esaltano come pregi ciò che io considero come difetti cronici.
La critica esalta l'elemento meta-cinematografico presente in ogni "Scream": si citano continuamente gli stilemi dell'horror (soprattutto slasher), l'andamento degli eventi ricalcherà quello del film di genere ed i protagonisti, consapevoli di ciò, non mancheranno mai di prevederli. Sulla base di questo principio, i colpi di scena sono inseriti in modo tale da sorprendere e disorientare la logica del film dell'orrore di cui i personaggi si avvalgono; a ciò si alternano momenti in cui tale logica viene invece rispettata. Si ottiene così un'imprevedibilità delle scene di spavento che contribuisce in parte maggiore a tenere alta la tensione
Seguire un canovaccio di genere, permette anche di introdurre un elemento presente in tutti gli Scream: le regole. Se, come dicevo, i personaggi basano la loro logica sulle regole del cinema horror, l'elemento innovativo che funge anche da scaletta per lo spettatore, è l'enunciazione di queste che, di capitolo in capitolo, si rinnovano. Perciò se nel primo le regole venivano rispettate, nel secondo venivano infrante e nel terzo dimenticatevele come suggeriva lo slogan promozionale. 
Il quarto capitolo punta invece, sfruttando il vuoto temporale fra quest ultimo e il terzo capitolo, a introdurne di nuove, necessarie per poter sopravvivere nell'era digitale: "Scream 4" punta tutto su ciò, basando la sua innovatività sulla presenza di un Killer 2.0 che si adatta all'elemento tecnologico. 
Ma "Scream 4" non si pone come prosecuzione della saga. Così come ci dicono gli stessi protagonisti è un remake del primo Scream, anzi un reboot, un rifacimento che intende dare nuovamente vita ad una saga, ripartendo dalle origini aggiornate.  
Ma ditemi voi se è innovativo girare un film che è pedissequa imitazione del capostipite, seppur voluta. La consapevolezza e l'autocitazionismo non sono certo elementi lodevoli. Per quanto mi riguarda la differenza fra "Scream 4" e altri sequel che imitano gli originali sta tutta nel volersi sempre e comunque citare. Ma il risultato è lo stesso: film che sono l'ombra di illustri predecessori, pallide imitazioni che non sorprendono e annoiano, cosa assai grave in un film horror. 
Le situazioni divengono così rarefatte e stereotipate che più che a un horror ci si trova davanti ad un film comico. Questo è "Scream 4": un'imitazione di "Scream", da una parte, di "Scary Movie" dall'altra; peccato solo che oltre a non mettere paura non fa neanche ridere, se dovessi descriverlo in una parola lo definirei semplicemente irritante
E poi gli elementi meta-cinematografici e ironici hanno stufato. Un film che li sfruttava alla grande e, introducendoli, risultava essere geniale e innovativo era, manco a dirlo, il primo. Stessa cosa per la critica alla società figlia e schiava dei media, così osannata in questo film, già era stata affrontata dal capostipite. 
Ricapitolando: gli elementi di interesse riprendono a pieno, aggiornandoli, quelli tradizionali della serie. La sceneggiatura è quanto mai scontata con dialoghi ridicoli, i nuovi personaggi sono insulsi e persino le vecchie conoscenze qui perdono di spessore e recitano la parte di icone ambulanti (e, in quanto tali, intoccabili). Il realismo non c'è minimamente. Ok. Ma non c'è nemmeno intrattenimento di alcun tipo. Un contenitore vuoto che sfrutta un brand collaudato e che continuerà a farlo, dato che, con la storia del reboot, due produttori paraculi come Harvey e Bob Weinstein ne sforneranno altri. Purtroppo.

Habemus Judicium:

Bob Harris

lunedì 18 aprile 2011

SOGNANDO IL MONDO DI PARRESIA

L'ottimista pensa che questo sia il migliore dei mondi possibili; il pessimista sa che e' vero. 
Questa illustre citazione appartiene al fisico statunitense Robert Oppenheimer e mi è balenata tra la mente riflettendo sulla possibilità di immaginare la costruzione di un mondo migliore, che disegnandosi tra i flash della mia mente ha assunto il nome di Parresia. 
Vi chiedete perché? Anzi per essere più precisi, cosa stia significare quel nome? 
Beh il termine “parresia” fu coniato dai filosofi della retorica nella polis greca repubblicana e significa letteralmente “dire tutto”, dunque per estensione “libertà di parola”, o meglio “libertà di dire tutta la verità”, allo scopo, come precisa Foucault, di perseguire l’interesse sociale. 
Da qui è facile evincere che nel mondo ideale sul quale fantasticavo, principio fondante ed inalienabile era la libertà d’espressione e d’informazione. 
Certo che è un bel volo pindarico per chi come me risiede in questo malsano paese chiamato Italia, dove la libertà del pensiero è compressa dentro la morsa della reazionaria paura dell’innovazione da una parte e dei loschi interessi dall’altra. 
Il leader stesso di Wikileaks, il sito/associazione d’informazione “fighting power” per eccellenza, l'australiano Julian Assange, ha affermato poco fa in un’intervista al mensile L’Espresso, che la situazione del nostro paese, per quanto concerne la completezza e libertà d’informazione, è seriamente preoccupante: se lo dice lui, ahimè, possiamo fidarci. 
Ma proviamo a mettere il naso fuori dai confini del Bel Paese: la situazione è decisamente migliore? E non dico di prendere in esame i regimi dittatoriali dell’Africa o del Medioriente, o la dispotica e temuta Cina, ma le cosiddette grandi democrazie occidentali. 
Anche lì, culla della civiltà moderna, secondo me la libertà d’espressione fa la fine dell’onestà di Giovenale: è lodata ma muore di freddo. 
Oltre all’incombente controllo del potere politico ed alle vincolanti macchinazioni di quello economico, che domina incontrastato il mondo del commercio e della diffusione mediatica, secondo me il limite più grande alla libertà rimane la diffidenza negli altri e la paura che la loro espressione cancelli la nostra, che le loro opinioni siano obnubilanti per le nostre: in sostanza che la loro libertà sia d’ostacolo alla nostra. 
Così imperversa dappertutto il mito della censura non solo nel campo dell’informazione ma anche in quello dell’arte! Io non ho mai creduto che “urlare” le proprie opinioni sia più efficace che spiegarle o porle per iscritto, il frastuono oscura i contenuti e li appiattisce nell’ombra della volgarità molto spesso. 
Ma alcune idee in un certo qual modo “urlano” da sole quando sono espresse, il rumore dirompente è connaturale alla forza dei loro contenuti: non si può costringere un boato in un sibilo! 
Ma dov’è il problema di esprimere idee, dov’è la pericolosità?! 
La comunicazione d’idee è l’unico modo sano che ha una società per crescere. La tecnologia moderna, da molti demonizzata come la causa del degrado del mondo contemporaneo (degrado rispetto a cosa poi, non si sa…) ci ha fornito gli strumenti giusti per ampliare il potenziale della libera comunicazione, dunque della diffusione della cultura internazionalmente intesa. 
Le recenti rivoluzioni contro i regimi dittatoriali dei paesi del nord-Africa sono state definite dagli stessi che e hanno combattute come le “Rivoluzioni dei social networks”. Sì perché comunicare su ampia scala, a velocità immediata,tramite Facebook, Twitter e blog vari è stato fondamentale per lacerare i veli di un potere autoritario che filtrava le informazioni secondo i suoi interessi ed opprimeva gli oppositori con la violenza. 
Non voglio certo dire che basti un tweet per animare una ribellione, ma l’importanza del comunicare non va sottovalutata. 
Nel mondo del quale vi dicevo, quello sul quale fantasticando ho iniziato a scrivere questo articolo, ognuno aveva la naturale predisposizione a dire ciò che pensava fosse giusto dire, esprimere ciò che credeva interessante, bello, degno di nota insomma. 
Nessuno aveva la presunzione di possedere l’unica verità, quella giusta ed indiscutibile, ma semplicemente di porre in evidenza la propria verità, la propria idea senza dover temere le ripercussioni di nessuno Stato, di nessun sacro-ordine, di nessun gruppo sociale. 
Non c’era spazio per l’autodafé imbastito dalla comunità in difesa dei dogmi di una morale dai fondamenti così fragili, da reggersi solo sui sottili pilastri dell’ipocrisia. Non c’era spazio per le ideologie imposte, inalterabili, ma solo per quelle create, in continua e mutevole evoluzione, che si nutrono di idee nuove e diverse, non ne sono spaventate e non tentano di sopprimerle. 
Quanto è bello fantasticare alcune volte… 
Quando si torna alla realtà purtroppo però si ha la sensazione di essersi appena svegliati da un magnifico sogno che si è dissolto per sempre. 
Ma no, non voglio arrendermi a questa idea, come ci ricorda il Robertone nazionale, l’unico modo per realizzare i sogni è svegliarsi. Allora avanti apriamo gli occhi e soprattutto la mente, prima che Morfeo richiuda le porte lasciare aperte dall’ombra di Pindaro…

Adamantine Ego

sabato 16 aprile 2011

RICCO': LE STRAORDINARIE AVVENTURE DEL PICCOLO CHIMICO DI FORMIGINE

«Mi sento ancora un ciclista e voglio tornare a correre». Firmato Riccardo Riccò
Non sono dichiarazioni sconvolgenti, ovviamente a patto di isolarle dal contesto.
Brevemente: Riccò il 6 febbraio scorso era stato ricoverato in ospedale a causa di un blocco renale e poco ci mancava che stendesse le zampe. All'inizio non si riusciva a capire il perché del malore, salvo poi venire a sapere, tramite dichiarazione del medico che lo aveva soccorso, che il ciclista emiliano avrebbe confessato a questi di essersi fatto un'autoemotrasfusione. Il sangue in questione sarebbe risultato avariato, dal momento che era stato tenuto in frigorifero una ventina di giorni.  Mentre il malcapitato Riccò si trova in coma, si susseguono polemiche e accuse, che, nella sua sfortuna, ha avuto la fortuna di evitare in parte.
Ma vediamo brevemente di scoprire chi è Riccardo Riccò. 
Nasce a Formigine il primo settembre del 1983. Fin da giovanissimo si impone fra i dilettanti e, nel 2001, diventa campione italiano juniores di ciclocross. Arriva così la convocazione in nazionale per il mondiale imminente, salvo essere fermato per ematocrito alto. Nel 2004 è campione italiano in linea under 23 e l'anno successivo arrivano due vittorie di tappa e classifica generale alla Settimana Lombarda, oltre ad una tappa al Giro di Toscana. Viene nuovamente sospeso per 45 giorni per ematocrito alto. Passa ai pro con la Saunier-Duval Prodir ed ottiene dall' UCI il rilascio dell'attestato che dichiara la naturalità dei suoi valori di ematocrito pari al 51%
Siamo nel 2007 e Riccò diventa un volto noto. 
Al Giro d'Italia si impone nella tappa delle Tre Cime di Lavaredo e conclude la corsa al settimo posto generale (a 7 minuti da Danilo Di Luca, che vincerà quell'edizione). Ciò che più lo rende celebre, anzi celeberrimo, non sono solo i suoi risultati: Riccò è un personaggio mediatico, dà spettacolo in bici e davanti ai microfoni: innesca polemiche a catena con tutti i suoi avversari, ha sempre la battuta pronta e non manca di spavalderia. 
Colpisce anche lo stile del Cobra, soprannominato così perché prima di attaccare un avversario lo guarda dritto negli occhi per vedere se è in difficoltà.; Riccò attacca, scatta, e, come a Lavaredo, fugge, lontano ed imprendibile: roba da altri tempi si direbbe. Non gli mancano le ambizioni né il talento, a molti ricorda Marco Pantani, sia per l'abilità in salita, sia per il carattere da guascone. 
Nel 2008 arriva la consacrazione. Ed il tracollo.
Al Giro ottiene il secondo posto, dopo aver dominato le tappe montane e aver dato spettacolo. Spettacolo che, manco a dirlo, è proseguito davanti alle telecamere, grazie alle polemiche causate dalle sue accuse a Contador e Sella. Il Cobra decide di partecipare anche al Tour De France, dichiaratamente per vincere qualche tappa. 
Si impone a Aigurande Super-Besse ed a Toulouse Bagnères De Bigorre, rispettivamente sesta e nona. E già alcuni gridano al fenomeno e c'è chi è convinto che il Tour diverrà per lui non un piacevole passatempo, ma un obbiettivo realistico. Altri però gettano l'ombra del sospetto, non ci credono, non può andare così forte. Si deve dopare per forza. Ed hanno ragione. 
Il 17 luglio Riccò viene prelevato dalla sua roulotte e portato via dalla gendarmeria francese, poco prima dell'inizio della dodicesima tappa. Viene trovato positivo alla CERA, l'epo di terza generazione. Sono 2 anni di squalifica. Il mondo del ciclismo è scosso dal caso Riccò, o meglio, fa finta di esserlo. Già perché se Riccardo era soprannominato il Piccolo Chimico e il suo cognome veniva storpiato in Cariccò fra i dilettanti un motivo ci doveva pur essere. 
Inoltre la moglie di Riccò è tale Vania Rossi, ciclista coinvolta anch'essa nello scandalo doping per uso di CERA e il cui fratello, Enrico Rossi, è stato, in passato, arrestato per spaccio di sostanze dopanti: come dire, un'azienda a conduzione familiare. Così come non è proprio un caso che sia stato fermato ripetutamente per valori anomali nel sangue. 
La verità è che nell'ambiente del ciclismo tutti sanno, ripeto tutti. 
C'è molta ipocrisia, anche se non ci sembrano possibili due cose in particolare: 1) che certa gente abbia una faccia da schiaffi tale da non avere rimorso di coscienza, né vergogna nel mentire e favorire così un cancro dilagante e inarrestabile; 2) che gli atleti stessi e i loro familiari non si preoccupino delle conseguenze dannose che causa il doping al proprio fisico. 
La risposta, così come scrissi recentemente riguardo al doping nel calcio (Link a "Il calcio Marcio: Nel fango del dio pallone"), è sotto i nostri occhi, salvo non accettarla. Il mondo del ciclismo è un ambiente malato, fatto in gran parte di squadre e team manager spietati che, se pur molto spesso, non direttamente obbligano i ciclisti a usare sostanze dopanti, pretendono prestazioni elevate, in un ambiente in cui la maggior parte dei corridori si dopa. Risultato: gli onesti sopravvivono qualche anno fra i dilettanti, dopodiché sono costretti o ad andarsene o ad adeguarsi alla "cura". Per stare al passo dei dopati bisogna doparsi. Difficile che fra i grandi ci sia qualche pulito. 
E le famiglie degli atleti? Se sono tutte come quella di Riccò è facile dedurre che non si facciano tanti scrupoli, accecate dalla sete di gloria e successo che desiderano per i propri figli, parenti, fratelli, nipoti, ecc. Dal canto loro i ciclisti vivono la loro carriera in una terribile condizione psico-fisica, fino al momento del ritiro, dopodiché passano all'interno di studi televisivi a testimoniare oscene falsità. 
E' un mondo fatto di omertà il ciclismo, in cui chi parla è un infame, che viene isolato e minacciato dal gruppo dei colleghi. Riccò è solo figlio di questo tipo di mentalità. Forse ha ragione lui, meriterebbe di correre, lui è nella norma, un dopato fra i dopati, solo più arrogante e indiscreto. E probabilmente questo lo ha condannato. Troppo rumoroso.
«Non ricordo nulla del mio ricovero, ero più morto che vivo. Mi hanno solo detto che si trattava di un virus, il medico risponderà di quanto ha detto»; se l'articolo è stato sufficientemente chiaro ed esauriente, anche chi, fin'ora, non avesse conosciuto il personaggio, non si dovrebbe stupire di queste dichiarazioni. 
Non so se Riccò tornerà a correre, difficile che le grandi squadre rischino la propria immagine pubblica con elementi come lui. Spero per lui di no, per la sua incolumità e per quel briciolo di dignità che gli rimane, anche se ce la sta mettendo tutta per perderla completamente.
Ritirati Cobra, sparisci per sempre, lontano dagli occhi degli appassionati di ciclismo, quello vero. Non devi illudere chi è sempre e comunque pronto a perdonarti. Eri una grande promessa, hai avuto molte occasioni, le hai sprecate tutte. 
Dedicati alla tua famiglia, sii uomo.
A noi rimarrà l'amaro in bocca per aver visto spegnersi la stella di un ragazzo destinato a grandi cose.

Bob Harris

giovedì 7 aprile 2011

TRAGEDIA IN DIRETTA: LA MORTE DI VIC MORROW

Vic Morrow era un caratterista. Nacque nel '29 a New York. Mascellone e sorriso rassicurante, occhi blu glaciali alla Paul Newman. Era sposato e aveva due figlie, una delle quali, Jennifer Jason Leigh (nome d'arte di Jennifer Lee Morrow), molti anni più tardi si farà strada nel mondo del cinema, anche grazie alla sua bellezza, i cui tratti ricordano il padre in modo impressionante.
Il curriculum di Vic lo rendeva un attore navigato e ricercato, anche se quasi mai per ruoli di spicco o comunque da protagonista. "The Twilight Zone", da noi conosciuto come "Ai confini della realtà", poteva essere la sua grande occasione per conquistarsi un posto al sole ad Hollywood.
Il film, diretto da John Landis e prodotto da Steven Spielberg, che riprende l'omonima serie tv degli  anni '60, si divide in 4 episodi, di cui tre sono remake del serial e uno, il primo, inedito.
Morrow era il protagonista proprio dell'episodio inedito. Impersonava Bill Connor, un razzista che viene teletrasportato in diverse realtà parallele, dove viene perseguitato prima dai nazisti, poi dagli americani in Vientnam ed, infine, dal Ku Klux Klan.
Era il 23 luglio del 1982 e si girava la scena ambientata in un villaggio vietnamita. Qui Vic doveva portare in salvo due bambini durante l'attacco di un elicottero americano.
La scena prevedeva che Morrow guadasse un fiume con in braccio i due bimbi vietnamiti, mentre sullo sfondo delle esplosioni pirotecniche simulavano le bombe che cadevano sul villaggio. Ma qualcosa andò storto.
Landis, noto nell'ambiente cinematografico per essere un regista senza scrupoli, sprezzante e arrogante (ebbe a definire gli attori dogs), pretese ed ottenne che l'elicottero di scena volasse basso (7 metri d'altezza) per agevolare il tipo di ripresa che intendeva fare. Fatto sta che l'elicottero subì i colpi delle esplosioni e i piloti ne persero il controllo.
L'elicottero si rovesciò sul fiume proprio mentre Vic lo attraversava con in braccio i due bambini. Fu una tragedia: le pale tranciarono la testa di Morrow e di uno dei bambini, mentre l'altro morì per le gravi ferite riportate. 
Landis e l'assistente alla regia si precipitarono sulla scena e quest'ultimo si trovò a tu per tu con il torso di Morrow nel fiume. Uno shock incredibile. I piloti dell'elicottero fortunatamente uscirono sani e salvi dall'incidente. Dopo la tragedia iniziò il processo che coinvolse Landis (il quale passò tutto il tempo della sua durata con la testa china sul tavolo) per la dinamica dell'evento certamente, ma anche per il fatto che i due bambini,  attori non professionisti, stavano girando la scena alle due del mattino, cosa vietata per attori così giovani.
La morte di Morrow indusse una profonda riflessione nei vertici dell'industria cinematografica e, di fatto, portò a una rivoluzione nel campo della sicurezza sui set e diede l'input per lo sviluppo e l'utilizzazione della CGI (computer grafica).

Posto qui il video della tragedia. Non vedrete nulla di esplicito, ma dato che la sequenza riprende completamente e chiaramente la scena fino al momento esatto della tragedia, potrebbe urtare la sensibilità di molti. A volte la realtà supera la finzione.


Bob Harris

martedì 5 aprile 2011

CONFLITTO ISRAELO- PALESTINESE ( ATTO I ): VALZER CON BASHIR


C'è una scena del film "Valzer con Bashir" che racchiude l'essenza del film: tre ragazzifanno il bagno nudi di notte. Sono trasportati dalle onde del mare, sotto il cielo di Beirut, illuminato da molte luci simili a piccoli fuochi nell'aria. La scena, di per sé, appare come una visione mistica ed il mare che culla i tre ragazzi rimanda a una dimensione onirica. Ma non è niente di tutto ciò. 
Quella scena rappresenta la realtà, o meglio, la realtà rielaborata e distorta dalla mente di un uomo, Ari Folman. E' lui, infatti, uno dei ragazzi. Gli altri due sono suoi compagni. Non compagni di giochi o di scuola, nonostante l'aspetto adolescenziale ed innocente. Sono suoi commilitoni
Ari, infatti, poco più che maggiorenne, fa parte dell'esercito israeliano, ed è stato catapultato nel conflitto libanese.
Siamo nel 1982 e Beirut è la bocca dell' inferno.
Palestinesi e Israeliani si fanno guerra e hanno scelto il Libano come campo di battaglia. Non è una guerra frutto di propaganda nazionalista, o per interessi economici o, ancora, figlia di fanatismi religiosi. E' una guerra politica e di mezzo c'è una terra promessa, ottenuta con la forza e il sangue.
Ma torniamo alla scena di cui sopra. Quelle luci, che accendono il cielo notturno di Beirut in realtà sono razzi al fosforo. Il loro scopo è semplice: devono illuminare il più possibile la città. 
E' importante che una parte di Beirut sia ben visibile: il campo nomadi palestinesi di Sabra e Shatila. E' stato dato ordine, dall'alto comando, ai soldati israeliani di lanciare i razzi  e lasciare che le milizie libanesi filo-israeliane e falangiste si dirigano al campo nomadi. Hanno in mente qualcosa, ma Ari, così come gran parte dei soldati israeliani, non può saperlo, si limita ad eseguire gli ordini. 
Il resto è storia di un massacro.
"Valzer con Bashir" è un film spiazza e dall'alto piacere estetico.
La colonna sonora, elemento essenziale del film, passa da sonorità pop, testimone di un decennio di cultura mediatica, ad altre, dominate da violini e pianoforti, emotivamente più coinvolgente.
La parte visiva è potente, persone e luoghi fatti rivivere attraverso l'animazione (la tecnica utilizzata in verità non è particolarmente complessa) capace di trasportarci in una dimensione onirica, ma che poi ci apparirà per quel che è: la trasfigurazione della realtà distorta dal tempo e dal dolore. E che con la realtà bisogna fare i conti ce lo ricordano le immagini finali, punto esclamativo e di rottura visiva rispetto al resto del film ed allo stesso tempo prosecuzione naturale di quanto visto prima.
"Valzer con Bashir" è la ricerca, da parte del regista-protagonista israeliano, dei ricordi sul suo passato in Libano come soldato. Un'indagine che avviene attraverso gli incontri e dialoghi con alcuni ex-commilitoni e amici (i quali, a parte uno, sono personaggi reali); "Valzer con Bashir" altro non è che una seduta psicanalitica che si avvale della tecnica maieutica per estrarre i frammenti dell'oscuro passato dalla psiche di Folman. In tutto ciò vi è spazio anche per citazioni (su tutte scena della spiaggia che omaggia "Apocalypse Now") e per scene bizzarre che ben si iscrivono nel clima surreale che si crea in guerra.
E' emotivamente destabilizzante, uno schiaffo in faccia che, se da una parte ci fa terribilmente male, dall'altra, grazie ala lettura in chiave pop, visionaria ed anti-documentaristica ci provoca un piacere masochistico.
Immenso!

Habemus Judicium:
Bob Harris



lunedì 4 aprile 2011

IL PATTO DEI LUPI...ANZI, NO FROZEN

La stagione sciistica è da poco terminata ed a riportarci sulle piste ci pensa un film horror low budget: "Frozen". Il film si propone di concentrare la tensione su una seggiovia, insospettabile e ristretto mezzo di spostamento montano; una bella sfida, che ha dalla sua precedenti vincenti come "Open Water", "Buried" ed il recente "127 Ore" (LINK)
Purtroppo, però, in questo caso, la scommessa è persa.
Non fraintendiamo. Il film ha come scopo incollare lo spettatore al seggiolino del cinema per più tempo possibile. E ci riesce alla grande. Ma se il mezzo per arrivare a ciò è dichiaratamente di matrice quotidiana, non ci si può avvalere all'improvviso di espedienti assolutamente irrealistici.
Mi spiego. 
Partiamo dalla trama: una coppia di fidanzati (Parker e Dan) ed un amico (Joe) trascorrono il weekend in montagna su un impianto sciistico; fra una sciata e una bravata da ragazzetti from college, commettono l'errore che costerà loro molto caro: decidono di prendere la seggiovia fuori dall'orario di chiusura giornaliero e settimanale, affidandosi a un addetto alla seggiovia corruttibile e sbadatello. 
Risultato: i tre rimangono bloccati nel mezzo del percorso a 30 metri d'altezza e, pensate un po', dovranno attendere la riapertura degli impianti, che avverrà 5 giorni dopo; ovviamente non avranno il tempo di aspettare, pena la certezza di morire congelati. 
Fin qui, a parte alcune forzature (quante coincidenze cosmiche, non ultima il fatto che nessuno dei tre ha cellulari appresso), tipizzazioni del caso da teen-movies americani, ed una recitazione irritante di Kevin Zegers (resa ancora più evidente dai continui primi piani) che sembra soffrire di miopia e iper-espressività, dicevo, a parte questi elementi, l'idea è piuttosto intrigante
Ed il regista Adam Green riesce a condurre egregiamente il film fino alla prima e straziante scena gore. Da lì in avanti "Frozen" diventa il festival del tragicomico: scene (quasi) esilaranti nella loro goffaggine e fatalità, che vanno ben oltre la realistica riproduzione degli atteggiamenti e delle azioni assumibili da persone qualsiasi in una situazione del genere; parte centrale ultra-introspettiva e psicologica, che riprende il trend di dialoghi da quattro soldi presente in tutto l'arco del survival horror; ed, infine, l'espediente accennato sopra, che rappresenta buona parte delle scene gore ed, a ragion veduta, motivo principale dell'andamento tragico degli eventi. Sto parlando dei lupi.
Si, perché quando andate al cinema a vedere un film dal titolo "Frozen", la cui locandina richiama la suggestiva ipotesi di trovarsi di notte bloccati su una seggiovia, l'ultima cosa che vi aspettereste è che, la risposta al quesito "come creare costante tensione per 90 minuti di film in un luogo così ristretto?", sia introdurre nella sceneggiatura un branco di lupi furbacchioni e particolarmente affamati. Non dirò altro per non rovinarvi il film. 
Di sicuro, però, "Frozen" perde molto in verosimiglianza e realismo, a discapito delle scene splatter, stavolta davvero ben girate e realistiche. Ciò rovina, purtroppo, anche il concetto che sta alla base del film e che pare essere una costante di molti horror di nuova generazione: la paura che una situazione di totale sicurezza e controllo precipiti in un incubo in cui ogni azione compiuta, a cui non diamo peso, possa trascinarci sempre di più verso una trappola mortale da cui ci è impossibile uscirne; in più beffati dal fatto che la salvezza sia lì a pochi metri da noi.
"Frozen" in parte trasmettere tale angoscia, seppur stemperata da un concatenarsi irrazionale, e molto rassicurante, degli eventi; non è un caso che in sala la tensione, molte volte, ha lasciato il posto a all'ironia del pubblico. 
"Frozen" merita (?) una visione, intrattiene con una discreta crescita della tensione e, chiudendo un occhio sugli aspetti di cui sopra, potrà scuotervi degnamente. Chissà, magari la prossima stagione invernale rabbrividirete al pensiero di prendere la seggiovia....

Habemus Judicium:

Bob Harris