giovedì 30 novembre 2017

"MANEGGIARE CON CURA" DI JOE R. LANSDALE

Scena tratta da "La notte dei morti viventi" di Romero
«Passarono accanto alla folla sul lato della strada, una station wagon avana e un catorcio di Ford tirata su col cric. S'accorsero subito che c'era un negro in mezzo ad una folla e non stava certo predicando Gesù Cristo»
(da "La notte che si persero il film dell'orrore")

Joe R. Lansdale è uno dei più prolifici autori contemporanei; all'attivo ha un'infinità di racconti di cui si fa difficoltà a tenere il conto, una 40ina di romanzi, una manciata di strip/graphic novel, nonché qualche sceneggiatura cinematografica.
Lo scrittore texano incuriosisce e sfugge da ogni etichetta, è una vera e propria bestia della narrativa di genere che, con disarmante agevolezza ed una sapiente commistione tra classico e moderno, ha saputo passare dalla fantascienza al noir, dal giallo al pulp, dall'horror al western.
Il filo conduttore che unisce il tutto è il suo Texas, quell'America profonda intrisa di ideali conservatori, dove il forte sentimento religioso viene fatto convivere con razzismo, violenza e cinismo; e partendo dalla sua terra mette in scena una spietata satira sociale che si declina attraverso lo humor nero e l'accavallarsi di personaggi putridi, una lettura resa incessante da brutali ed irresistibili accelerazioni narrative.
Lansdale diverte, intriga e sopratutto disgusta.
Le sue sono opere non lasciano indifferente e danno vita ad un inconciliabile binomio attrazione/repulsione. Ed anche in "Maneggiare con cura", edito da Fanucci, le cose non cambiano, una raccolta magnifica ed allo stesso tempo non per per tutti.
Mi spiego brevemente.
Ogni persona ha una propria idea di limite, un confine etico/morale oltre il quale ogni strada è preclusa. Il buon Lansdale nello scrivere questo limite non ce l'ha, o per lo meno il confine di ciò che può o non può essere detto, pensato, immaginato è ben più ampio rispetto al comune sentire.
Qualche esempio? In rapida successione troviamo teste infilzate nei pali, cani che si sbranano, un'occhio a penzoloni che si tiene solo grazie ai tendini, un feto utilizzato come randello e dei simpatici necrofili. A questo va aggiunto un linguaggio basso e triviale, mai gratuito va detto, che può turbare il lettore più sensibile.
Lansdale non sarà per tutti i palati, ma il risultato che si raggiunge con "Maneggiare con cura" è eccellente, una raccolta che manda un brodo di giuggiole gli amanti del genere e che, in alcuni passaggi, spinge a gridare al capolavoro.
Lansdale, libero da ogni legaccio, si muove con grande libertà, mescola i generi e ci propina serial Killer, animali mutanti in futuri post-apocalittici, perfidi bifolchi, scontri razziali e drive-in che nascondono i segreti più inconfessabili.
Dei 15 racconti molti fanno gridare al capolavoro, quasi tutti costringono una lettura a ritmi forzati: non si vede l'ora di vedere come andrà a finire e una volta concluso un racconto, con rinnovate grandi aspettative, ci si lancia con divertimento e velocità nella storia successiva.
Abbiamo "L'arena" che apre la raccolta con i botti e ci porta tra terribili rednecks che catturano i forestieri e li allenano, massacrandoli di lavoro, per un sanguinolento sport a cui tengono tanto; "Piccole suture sulla schiena di un morto", ossia il diario redatto da uno dei responsabili della fine del mondo; ed ancora "Girovagando nell'estate del '68" sorprendente miscela tra il romanzo di formazione alla Twain e l'horror; c'è spazio per uno slasher ("Incidente su una strada di montagna") che ci fa correre a perdifiato all'interno di un bosco, sentire i rami che si spezzano sotto i piedi e vedere una luna splendente che illumina fronde e sentieri. Così come non mancano titoli scanzonati come "Godzilla in riabilitazione" o "La bambola gonfiabile:una favola" dove lo strumento sessuale in pvc ci regala prospettive inaspettate.
Potrei continuare a snocciolare titoli ed illustrare trame, ma questa sarebbe un'operazione tanto inutile quanto lesiva del piacere della scoperta. 
Un consiglio, spassionato: raccattatelo, maneggiatelo con cura e lanciatevi in questo esplosivo e pessimista pot pourri orrorifico.

Habemus Judicium:
Ismail

lunedì 27 novembre 2017

"NEL NOME DEL MALE" (2009) DI ALEX INFASCELLI

Tra le prime produzioni Sky italiane si annovera questa mini-serie in due parti dal titolo "Nel Nome del Male". Ora dovessimo giudicare un' opera dal titolo la dovremmo cassare totalmente e irrimediabilmente. E invece il film di Alex Infascelli va considerato il capostipite (insieme a "Quovadis, Baby?", "Boris" e "Romanzo Criminale") delle produzioni nostrane televisive di qualità che hanno aperto la strada ai vari "Gomorra" e "Suburra". 
Siamo nel 2009 e l'emittente di Rupert Murdoch sforna questa mini-serie ambientata nella provincia triestina delle sette sataniche, ponendosi incredibilmente tra i primi ad affrontare direttamente questo tema, oggetto di tanto folclore e mistificazione, ma anche di una cronaca nera che è dietro l'angolo del nostro recente passato, oltre che realtà italiana (e non) tanto presente quanto occultata. 
Baldassi è un imprenditore di calzature del nord Italia come tanti. 
Vive una vita scandita dal quotidiano rituale borghese della famiglia, del lavoro e della socialità forzata della realtà provinciale. Suo figlio Matteo è un ragazzo di 16 anni da far invidia a ogni famiglia: educato, composto e poco pretenzioso. 
Un giorno Matteo scompare all'improvviso. Baldassi deciderà allora di mettersi personalmente sulle tracce del figlio e, nel suo percorso di ricerca, verrà a conoscenza di un mondo perverso e spietato, di cui, insospettabilmente, faceva parte Matteo. 
A voler fare i guastafeste, potremmo stare ore su ore a parlare dei difetti che si palesano lungo tutto l'arco del film. Tra l'altro sarebbe un giochino molto spontaneo, a giudicare della popolarità e della fiducia di cui gode il cinema nostrano, che ha come conseguenza un' ipercriticità delle opinioni medie rispetto a qualsiasi prodotto made in italy. 
E invece diamo ad Infascelli ciò che è di Infascelli, cioè il merito della riuscita del prodotto. 
Perché, fondamentalmente, non si parla di un regista improvvisato, come spesso si vede nel panorama cinematografico italiano, bensì di un appassionato conoscitore della settima arte in primis e del mezzo in secundis. Che poi, dopo il pregevole "Almost Blue", abbia diretto quello schifo del "Siero della Vanità" e "H2Odio", questa è un'altra storia. 
Partendo addirittura ad analizzare i titoli di testa, un mix tra voce femminile gutturale che sembra improvvisare rime a caso, montata su immagini tra il caricaturale e l'intrigante, li si potrebbe considerare tranquillamente una pacchianata esagerata ed è vero, ma è quel pacchiano che ha un retrogusto gradevole. Per quanto si faccia riferimento, nei titoli di coda, alla realtà delle sette sataniche, l'opera cerca, con tutta se stessa, di inquadrarsi nel genere thriller a tinte horror e lo fa nel modo più manieristico possibile, cosa che dà gioco facile ad eventuali detrattori ma che, nei fatti, si rivela una carta vincente. 
Infascelli è abilissimo nell'immergere lo spettatore nell'atmosfera dal gusto macabro ed evocativo dell'occulto, nel contesto della provincia paranoica, con i suoi misteri, le sue facciate e le sue penombre; in un gioco continuo di luci soffuse, chiaroscuri e fumi delle ambientazioni notturne, contrapposte ai freddi e composti colori dei paesaggi friulani diurni. 
Funzionano anche le prove attoriali, in modo inaspettatamente piacevole, risultando calibrate e mai troppo caricate, stante il rischio altissimo di scadere nel ridicolo. Questo è un punto fondamentale in un film che gioca costantemente sulle sfumature dei personaggi, sulle loro ambiguità e sulle loro maschere; purtroppo però Fabrizio Bentivoglio, che qui è l'attore di cartello, non regala un'interpretazione degna di nota, apparendo svogliato e limitando il suo personaggio a una dimensione piuttosto banale e piatta. 
Ciò stride clamorosamente con alcuni personaggi tratteggiati invece in modo più accattivante: il risultato è che, spesso, i loro dialoghi, metaforici ed enigmatici, interagendo col protagonista, si infrangono contro la sua scontatezza e il suo mollume. 
Come detto la trama è tutt'altro che esente da difetti: presenta diversi passaggi a vuoto, riempitivi fine a se stessi, per dare più colore e stile; non mancano poi incongruenze e piccole contraddizioni qua e là nelle soluzioni narrative, ma tutta roba che si perdona ampiamente. 
In conclusione siamo di fronte a un'opera costruita in stile polanskiano, giocata sulle ambiguità dei personaggi e sulla sensazione di complottismo, del trust no one, che non si tira indietro nel mostrare il marcio sotto il tappeto di una certa società votata al culto estremo del perbenismo, capace di coprire ogni efferatezza e di esaltare la sottomissione al proprio carnefice.

Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 20 novembre 2017

"SIGNORI BAMBINI" (1997) DI DANIEL PENNAC

Scena tratta da "Messieurs les enfants" di Pierre Boutron
« I bambini cominciano tutti con la metafisica, gli adolescenti continuano con la morale, e noi adulti finiamo con la logica e la contabilità »

Che Daniel Pennac sia un autore dalla grandissima creatività non è questa gran scoperta.
Il tratteggio comico e surreale attraverso cui costruisce le sue narrazioni sono un marchio di fabbrica che ha accompagnato tutta la sua produzione, un mondo immaginifico in cui tutto diviene possibile, ed ogni ruolo risulta essere scambiabile. Ed anche in questo caso il caro professore d'oltralpe non si smentisce.
Edito da Feltrinelli nel 1997, "Signori Bambini" è un piccolo romanzo di neanche 200 pagine pubblicato in contemporanea con "Messieurs les enfantes", film del regista e suo amico Pierre Boutron. All'origine di tutto ciò c'è una scommessa architettata dai due e della quale ci mette al corrente Pennac nella dedica iniziale del libro: partire da un soggetto comune e scrivere/girare la stessa storia senza leggere/visionare il lavoro dell'altro.
Ci troviamo così in una classe di II media ed il terribile Crastaing, un occhialuto professore che ha terrorizzato generazioni di mocciosetti, tiene la sua lezione di francese. Dall'altra parte della barricata sono assiepati gli alunni impauriti, tutti con la testa bassa incapaci di sostenere lo sguardo di quello che rappresenta il loro peggior incubo. Per Crastaing ogni giorno scorre alla stessa maniera, «una vita intera a passata a slittare su occhi che scivolano via».
La vita di tre di questi imberbi sta per essere sconvolta per sempre.
Nel bel mezzo della consegna dei compiti, Joseph Pritsky viene colto sul fatto. Dalle sue mani, il professore vede scivolare un foglio di carta dove compare una vignetta dal sapore «neo-post-sessantottino attardato» con su scritto «Crastaing farabutto, pagherai caro pagherai tutto»
Silenzio.
Joseph impaurito si trasforma nel peggiore delatore immaginabile, ammette che la vignetta non è opera sua e che glie l'ha passata il suo amico e compagno di banco Igor Laforgue. Da dietro un ragazzo di seconda generazione, Nourdine Kader, il quale teme di tenersi questa etichetta a vita e passarla per via ereditaria ai suoi posteri, per sentirsi un po' più integrato si lancia nel mucchio e si autoaccusa paventando una sua corresponsabilità nel fattaccio.
Il coraggio e la solidarietà porta sempre a delle conseguenze ed i tre, per punizione, si ritrovano sulle spalle un tedioso tema dalla curiosa traccia: una mattina ti svegli e ti accorgi che durante la notte sei stato trasformato in adulto ed i genitori in bambini.
Ed è così che in una manciata di pagine dallo scambio ipotetico si passa a quello reale; si apre un flusso narrativo fatto di (dis)avventure tinte di giallo, alle quali i tre giovinastri dovranno trovare una soluzione meno infantile possibile.
E' un romanzo dolce e favolistico che muove da un mondo dominato da stereotipi (il professore temuto e cattivo, il ragazzino straniero, la coppia di amici discoli) dai quali, almeno inizialmente, è lecito aspettarsi ben poco; ma Pennac non è un autore come gli altri, dà pieno sfogo alla sua creatività ed alla verve umoristica e, con improvvise virate, ci ribalta completamente la scena.
Per bocca di un narratore sui generis, un uomo in pigiama seduto su una tomba di Père-Lachaise, ci cala in una variopinta tribù di personaggi che, con lo scorrere delle pagine, acquistano una profondità inaspettata e portano nel romanzo temi seri ed amari; e Pennac, manco a dirlo, lo fa con una semplicità e capacità disarmante.
Lo stile è come sempre diretto ed immediato, un accavallarsi caotico di discorsi diretti, indiretti e soliloqui (messi rigorosamente tra parentesi), un ritmo trascinante che tiene incollati alle pagine.
"Signori bambini" è un piccolissimo e divertente romanzo di formazione consigliato ai giovani di tutte le età vogliosi di riscoprire che «immaginazione non significa menzogna».

Habemus Judicium:
Ismail

giovedì 16 novembre 2017

"MORITURIS" (2011): IL NON CINEMA DI RAFFAELE PICCHIO (PARTE II)

Papparappappapà! 
Si apre la seconda parte dello speciale sul cinema di Raffaele Picchio e abbiamo deciso di farlo con un bello squillo di trombe, proprio come si aprono i titoli di testa del suo lungometraggio di esordio: "Morituris". 
Davvero particolari come titoli di apertura, un misto tra musiche da sceneggiato peplum anni 70' della Rai e illustrazioni cruente di scenette con protagonisti i gladiatori; crea un effetto bizzarro, ma forse riuscito. Ma prima ancora dei titoli si assiste all'incipit in cui vediamo, tramite una ripresa in soggettiva con effetto sgranato da super 8 (perché poi? Non si tratta di un found footage), una famiglia che viene brutalmente sterminata da alcune presenze oscure. Il pallone, con il quale giocava il pargolo neo-trapassato, finisce davanti a un epigrafe, recante la scritta Hic Sunt Leones
E qui cominciamo già con le puttanate dal momento che, pare storicamente accertato, che tale espressione sia un falso storico attribuito alle cartografie romane e, tantomeno, venisse scolpita su pietra. Ma vabbe', una qualche licenza artistica la si deve riconoscere al cinema, specie quello di genere, che non ha, di norma, pretese di filologia storica. 
La trama del film vede tre ragazzi romani in macchina con due ragazze russe in viaggio verso un rave party, che si dovrebbe svolgere in una zona nei pressi di Roma. 
La prima, interminabile, fase del film si svolge dentro questa macchina. È un continuo profluvio di dialoghi plastificati e battute penose, recitate malamente dai tre allegri ragazzotti: c'è il coatto sottotono, poi c'è il logorroico brillante/pedante e un terzo qualsiasi. Poi ci sono le due ragazze russe, ovvero due ragazze italiane che recitano la parte di due russe trasgressive, o almeno così sembra. 
A un certo punto la trama viene incontro allo spettatore e lo solleva dalla straziante tortura: finalmente il gruppo arriva nella zona del rave. Un'altra secchiata di battute micidiali e, intanto, si è fatta notte. I tre italici, con una scusa, prendono i cellulari delle due ragazze russe. Poi il tipo anonimo si apparta con una delle due, mentre il coatto e il logorroico continuano a ridere e scherzare con l'altra. I due piccioncini appartati si abbracciano, frasi sussurrate e concupiscenti riempiono l'aria, sale la tensione sessuale, l'atmosfera si addensa di eros e...e...all'improvviso il maschio italico la chiama "puttana", la percuote e la costringe a un lavoretto di bocca. 
Cambio scena: il coatto e il brillante percepiscono il segnale e cominciano a picchiare e violentare l'altra povera sventurata. La scena di per sé è abbastanza esplicita (difatti sottoposta a pesante censura in alcune versioni del film) potrebbe essere disturbante, MA non lo è.
O meglio, non è così disturbante. 
Questo perché nel presentare allo spettatore i personaggi e portarli fino al momento X, Picchio non ha sparso alcun elemento che potesse accrescere un senso di inquietudine durante la visione, per poi esplodere nella violenza efferata: se non si costruisce un clima di sottile e impercettibile pericolo, il cambiamento folle e improvviso dei tre protagonisti maschi risulta, non solo privo di shock, ma anche abbastanza buffo. 
Vediamo tre ragazzotti, all'apparenza innocui e sfigatini, trasformarsi, in uno schiocco di dita, in spietati e risoluti sadici. Questa discrasia tra il prima e il dopo crea un contrasto totalmente innaturale. Poniamo che al posto dei tre ci fossero stati Topolino, Pippo e Paperino, cioè tre macchiette buffe e scanzonate. Il regista li riprende mentre danno vita alle loro classiche scenette comiche e, nel giro di un attimo, li vediamo esplodere nella violenza più cieca e brutale. 
Non sono credibili! 
Ma, se una regia attenta si fosse premurata di spargere, quà e là, piccoli indizi della loro follia, chessó un primo piano di Topolino con uno sguardo inquietante, allora quell'inconscio senso di disagio si sarebbe insinuato nello spettatore fino al climax esplosivo dell'aggressione.
Senza scomodare Hitchcock, un esempio calzante di abile costruzione della tensione, è il film "Invitation"[LINK]. Si prenda appunti.
Ma il film si chiama "Morituris" ed infatti, dopo tutta questa violenza appena descritta, arrivano i gladiatori. E questa si rivela essere un'idea interessante: tra i soliti mostri triti e ritriti, di cui abusa il genere horror (prassi sapientemente perculata in quella perla di "Quella Casa nel Bosco"), introdurre la violenza primordiale e senza volto di un manipolo di gladiatori morti è un esperimento apprezzabile.
Anche qui, però, siamo di fronte a un peccato che.
I gladiatori arrivano nel bel mezzo dell'esplosione di violenza di cui sopra; sono anche loro dei cattivoni che non provano pietà per nessuno dei protagonisti, tanto quanto i tre folli maschi italici. Perciò quale sarebbe di preciso la loro funzione? Aggiungere violenza alla violenza?
Lo spettatore in questo momento si sta, più o meno, identificando nelle due ragazze russe e perciò ha già identificato nei tre ragazzi la minaccia.
Che scossone emotivo provoca l'aggiungere un ulteriore minaccia? Nel raddoppiarla?
Nessuno, semplice!
Perciò c'è una svolta narrativa, ma la trama prosegue su una linea enfatica piatta e costante, nonostante l'introduzione dell'elemento paranormale.
Sarebbe stata cosa diversa se, ad esempio, uno degli stupratori fosse stato tratteggiato come personaggio complesso, umano, in cui lo spettatore si possa identificare e per il quale possa anche fare il tifo nel momento in cui si debba salvare la pellaccia dai gladiatori.
A fine film giunge una scena epocale: il brillantone sta scappando dai gladiatori, nel clima convulso successivo al loro ingresso, e legge l'epigrafe con la dicitura "Hic Sunt Leones". Questo particolare non è da poco, perché capisce che il gruppo di gladiatori assassini che lo insegue è in realtà... Un gruppo di gladiatori assassini (dell'antica Roma).
E questo lo capisce perché ha fatto il LICEO CLASSICO.
Ottima preparazione e 10 lode!
Purtroppo non potrà godere del meritato voto perché i gladiatore steccano tutti e li crocifiggono sulla statale. Arriva in soccorso degli stupratori Francesco Malcom e vede la scena.
Si Francesco Malcolm, il porno attore che qui ha la parte di un sadico erotomane che gioca a fare gerbilling con le donne solo per il gusto di.
Ovviamente recita da cani (nelle scene al telefono sta chiaramente leggendo il copione o almeno recita come se lo leggesse) roba che in confronto il suo monologo alla Lucarelli nel video "Blu Porno", dedicato a Forza Chiara da Perugia, merita un Oscar.
Picchio ci regala un omaggio al massacro del Circeo con un po' di fetish qua e là e riferimenti a pop a Britney Spears (sigh), che ha qualche potenzialità espressa ma molte ingenuità e voragini da prima opera.
Siamo sicuri che avrà modo di mostrare il suo talento con il prossimo film.
Ovviamente non è vero un cazzo, perché veniamo dal futuro e abbiamo già visto e recensito "Blind Kind" [LINK] (2016) eheheh.
Diciamo... Beh...Meglio "Morituris".

Habemus Judicium:
Bob Harris

martedì 14 novembre 2017

"AUGURI PER LA TUA MORTE-HAPPY DEATH DAY" (2017) DI CHRISTOPHER LANDON

«Enjoy today because ther's no tomorrow»

Lunga vita all'Horror, e che Iddio abbia cura dei b-movie!
Con entusiasmo mi reco al cinema per vedere "Auguri per la tua morte", giunto nelle nostre sale il 9 novembre. Girato da Christopher Landon, è l'ultima creatura a basso budget della Blumhouse Production, casa di produzione guidata da Jason Blum interamente votata ai film di genere.
Per Jason l'ultimo anno è stato un successo produttivo eccezionale: prima il godibile "Ouija-L'origine del male" prequel del tremebondo ed orripilante Ouija ebbasta, filmetto che, chissà per quale oscura ragione, di recente è stato spalmato in tutti i modi su un noto canale del digitale terrestre (che sia frutto di un programma voluto dal Ministero della Salute per risolvere la stipsi che attanaglia milioni di italiani?). E' giunto "Split" che ha segnato il felice ritorno di Shyamalan ed ha strappato tanti applausi. E poi il colpaccio. Jason prende il comico Jordan Peele, gli fa scrivere una sceneggiatura, gli dà la regia ed ecco "Scappa-Get Out" (2017), spietata satira alla Romero e tra le migliori produzioni di genere degli ultimi anni.
Il caro Jason ci ha snocciolato una lunga sequenza di filmetti, alcuni semplicemente carini, altri davvero validi, tutte basse produzioni pregne di idee e capaci di sbancare, a torto o a ragione, il botteghino. Le premesse per divertirsi ci son tutte.
Buio in sala, silenzio!
Siamo nel dorato mondo dei college americani, e Tree, una studentessa biondina interpretata da Jessica Rothe, si alza di colpo da un letto non suo. E' nella stanza di tale Carter (Israel Broussard), ragazzotto sfigatello con cui forse ha fatto sesso; può solo supporre la cosa, deve aver bevuto un po' troppo la sera prima .
Fugge bordo di scarpette rosse dal tacco vertiginoso, ancora truccata ed agghindata a festa e si mostra sin da subito per quel che è: una stronzetta che la dà a destra e a manca, amante della bella vita e gran beona.
Simpatica questa Tree...
La suddetta stronzetta è poi circondata dalle amiche della consorellanza, a quanto pare la più in di tutto il college, un bel coarcervo di carognette odiose.
Superando a piè pari alcune peripezie della giornata, si arriva a sera e troviamo la nostra ragazzotta da sola nei pressi di sotto passaggio, ed al centro di esso, un grazioso carillon che suona la celebre canzoncina dei tanti auguri (eh si, è il giorno del suo compleanno). Pensa ad uno scherzo. Poi però sbuca fuori una persona con il volto coperto da una maschera, un faccione paffutello di un bimbo con due guanciottone da pizzicare ed un con un bel dentino di cui andar orgogliosi.
Morale della favola, viene raggiunta e pugnalata a morte.
Cara Tree, «Today is the first day of the rest of your life».
Eccoci catapultati nel "Ricomincio da capo" in salsa slasher: ogni mattina si risveglia nel letto del ragazzotto ed ogni santa sera, qualsiasi cosa faccia, viene raggiunta dal killer ed uccisa.
Barricarsi in casa?
Non Serve a nulla, il persecutore, in uno slasher che si rispetti, riesce sempre ad entrare.
Fuggire?
E che ve lo dico a fare, ce lo ritroveremo sempre dietro le spalle.
Ci si ritrova a guardare un ensamble cinematografico che mescola i topoi anni '90 del cinema collegiale americano, un persecutore alla "Scream" per nulla infallibile e la giornata della marmotta che ricalca paro paro.
Signore e signori siamo dinnanzi ad una gran puttanata ammettiamolo, ma godibilissima.
"Auguri per la tua morte" è un film di rapido consumo, divertente e con la giusta tensione; merito dei ritmi serrati e dalle apprezzabili scelte di montaggio; della trama paraculetta; dell'azzeccata coppia di attori: Israel si lascia alle spalle la problematica adolescenza di "Bring Ring" e si dimostra un ometto speciale e tenero; la Roth saluta i pedanti balletti di "La La Land", calandosi nel ruolo di birbona dal viso angelico, buca lo schermo e riempie la scena. Oramai è amore.
A ciò si aggiunge il twistone finale che rivaluta tutte le menate che si incontrano nell'ora e mezza di visione, compreso, sintomo di un mio rincoglionimento precoce, uno strisciante buonismo made in U.S.A. con tanto di prevedibili risvolti sentimentali. 
Signore e signori, "Auguri per la tua morte" è una riconciliante scorpacciata di pop corn!

Habemus Judicium:
Ismail

lunedì 13 novembre 2017

"NEL GUSCIO" (2017) DI IAN MCEWAN

«Abbiamo costruito un mondo troppo pericoloso e complesso per poterlo governare con il nostro temperamento attaccabrighe. In simili condizioni disperate, cederemo alla deriva sovrannaturale.
Si fa sera in questa seconda Età della Ragione. Siamo stati magnifici, ma ormai è finita. Una ventina di minuti. Clic.
In preda all'ansia, giocherello col mio cordone ombelicale. Mi fa da scacciapensieri.»

E' il 2015 e siamo nella campagna del Gloucestershire.
Qui c'è un cottage dove, da qualche anno, si è trasferito Ian McEwan. La sua caotica ed amata Londra ha lasciato il posto a spazi sconfinati dominati da sinuose provinciali che tagliano campi e prati. Dentro la casa un soggiorno con un divano; Ian chiacchierava amabilmente con la nuora Rosie prossima al parto. Si parla del bambino in arrivo come ovvio che sia e McEwan percepisce la presenza di una terza persona.
Uno spunto interessante, deve aver pensato. Passano un paio di mesi e si lancia nella scrittura (1).
"Nel guscio" è un libro Shakesperiano dal linguaggio ricco e ricercato (un grazie a Susanna Basso per lo splendido lavoro di traduzione) costruito attraverso un lungo flusso di pensieri in cui si prendono e rimpastano gli schemi dell' "Amleto".
A far gola non c'è però il Regno di Danimarca, bensì una palazzina fatiscente dall'altissimo valore economico ereditata da un improvvido padre. Nessun trono quindi ma il marciume è tangibile come non mai: pavimenti collosi, corrimani che si staccano dalle pareti, una coltre polvere lungo le scale, piatti incrostati e sacchi della spazzatura che diventano giardini pensili per le mosche.
Ed inevitabilmente giunge il Dubbio: essere o non essere, amare o non amare, sentirsi o meno conniventi di ciò che accade.
L'azione narrativa viene portata avanti attraverso il solo senso dell'udito, un perenne origliare da parte del narratore, un feto immerso nel caldo liquido amniotico ma già pienamente cosciente. A testa in giù, in attesa del grande giorno, ascolta voci, dialoghi e podcast, degusta vini, immagazzina dati, ragiona, suppone trame e risvolti, immagina colori e fattezze di ciò che lo circonda.
Ben presto scoprirà che il suo futuro non sarà dei più tranquilli: l'anaffettiva madre Trudy ha intrapreso un rapporto fedifrago con lo zietto Claude e nel contempo, questi, si adoperano nella pianificazione dell' omicidio del suo paparino.
McEwan non si inventa nulla, segue itinerari già tracciati, eppure assembla una detective story fresca e cinica, che vive di contrapposizioni e non mostra mai il fianco ai nobili precedenti.
Poteva essere un gran bel buco dell'acqua, invece ci ritroviamo 173 pagine di distacco emotivo che imbriglia la ragione del lettore.
L'audacia paga.

Habemus Judicium:
Ismail




d
Note:
(1) Cfr. Paola Zanuttini, "Ian McEwan, 'Il guscio' e il suo amletico protagonista", in "Il Venerdi"(Link)

mercoledì 8 novembre 2017

"OTTOBRE" (1927) DI SERGEJ EISENSTEIN: I DIECI GIORNI CHE SCONVOLSERO IL MONDO

« ...e un film di Eisenstein sulla rivoluzione »

Sono trascorsi quasi dieci anni da quella notte d'ottobre. Il governo provvisorio post-zarista veniva rovesciato ed i Soviet di contadini ed operai prendevano tutto il potere. 
L'URSS si prepara ad una celebrazione in pompa magna da suggellare con l'opera popolare per l'eccellenza: il cinema.
Le alte sfere del partito scelgono Eisenstein, è lui l'uomo giusto.
Sergej è giovane, ha solo 29 anni, ma è già la figura di spicco del movimento russo: innovatore teorico della settima arte, alle sue spalle ha un capolavoro come "La Corazzata Potemkin" (1925). Gli commissionano il film, garantendogli un'ampia libertà artistica e la messa a disposizione di tutti i mezzi necessari per una grande produzione.
Il risultato: 3800 metri di pellicola che fanno però storcere il naso ai committenti.
"Ottobre" è troppo sperimentale, ha un'esagerata vocazione estetica. Non è nulla di ciò che avevano immaginato dai pragmatici vertici; operosi ometti, questo non lo si può negare, ma dal dubbio gusto cinematografico.
A ciò si aggiunge un altro elemento disdicevole
Eisenstein ha buttato nella mischia gente indesiderata come Trotsky e Zinov'ev; ma i tempi della rivoluzione erano finiti, era iniziata l'epoca dello stalinismo che non avrebbe lasciato alcuno spazio ai nuovi nemici interni, figuriamoci nell'opera nata per omaggiare la giovane nazione.
Morale della favola: i metri di pellicola passano da 3800 a 2200 e la prima proiezione giunge solo nel gennaio del 1928, oramai fuori tempo massimo rispetto alla data simbolo.
Ma scendiamo nel dettaglio ed iniziamo dalla trama.
Siamo a Pietroburgo nel febbraio del 1917; lo Zar viene deposto dal popolo russo, messo in ginocchio dalla fame e dalla guerra, e sostituito da un governo provvisorio a maggioranza liberale.
Ma la caduta del vecchio regime non porta a grandi miglioramenti ed il nuovo esecutivo decide di proseguire le attività belliche creando ulteriore malcontento.
Lenin capisce che i tempi sono maturi, lascia l'esilio svizzero e torna in Russia con l'obiettivo di riorganizzare i bolscevichi e portare avanti il processo rivoluzionario. Si seguono così tutti gli eventi che porteranno alla presa del Palazzo d'Inverno, una struttura documentaristica in cui far compenetrare storia e fiction.
Sono 102 minuti di potenza visiva illimitata, un montaggio frenetico ed impattante che accosta figure contrastanti eppure legate concettualmente tra di loro. Eisenstein mette in pratica il suo montaggio delle attrazioni e scardina l'ordine spazio/tempo: il suo obiettivo è attivare i sensi dello spettatore spingendolo ad una riflessione allegorica sui fatti.
Così il menscevico ed assetato di potere Kerenskij, viene accostato ad un pavone meccanico prima, ad una statua di Napoleone poi.
E cosa dire del dipinto, osservato dal bolscevico nel palazzo d'inverno, che raffigura Cristo intento a benedire il Zar? Associazione dal sapore anticlericale tesa a sottolineare la rottura con la vecchia (e controrivoluzionaria) arte apportata al cinema, nuova espressione delle masse.
Sono tantissime le immagini che si imprimono nella mente dello spettatore: la monumentale caduta della statua dello zar Alessandro III; la sanguinaria repressione delle manifestazioni di Luglio con i ponti di Pietroburgo che si alzano con i cadaveri ancora a terra ed il cavallo esanime che rimane sospeso nell'aria. E' un sovraccarico espressivo che scompone/ricompone la lotta tra il capitale ed il socialismo.
E per i 102 minuti non c'è alcun protagonistaLenin si intravede soltanto, magari coperto da una bandiera rossa mentre parla ai suoi oppure mentre si finge un mezzo vagabondo per non essere arrestato. Al centro della scena ci sono le masse: sono i volti segnati di operai, soldati, operai e contadini ad essere protagonisti.
Tutto ciò non piacque al governo sovietico. Di questo non si può che essere felici. Al posto di una scialba pellicola di propaganda, che oggi vivrebbe di un lontano afflato dal sapore nostalgico, ci ritroviamo questo "Ottobre", film seminale ed esteticamente magnifico, libero dalla retorica degli apparati e carico dell'ideologia di Eisenstein.
"Ottobre" è una stupenda testimonianza artistica di quei giorni che sconvolsero il mondo, una deriva sognante che voleva realmente capovolgere il mondo.

Habemus Judicium:
Ismail

lunedì 6 novembre 2017

"IT: CAPITOLO UNO" (2017) DI ANDRES MUSCHIETTI


Questa trasposizione di "It" era attesa dal 1990, anno di uscita della miniserie TV televisiva, che fu la prima a dare forma all'incubo perverso e mitologico di King. Per quanto annoveri molti sostenitore (per lo più nostalgici), trattasi di un prodotto televisivo di scarso livello, come tanti altri partoriti dalla decade più fiacca del cinema. A dover fare una comparazione filologica con il romanzo poi, lo si dovrebbe considerare un'eresia bella e buona. 
Il cinema è il cinema e la sua fonte di ispirazione non deve mai essere un coltello puntato alla gola. Ma, premesso ciò, snaturare "It" romanzo, svuotandone i passaggi più importanti e caratteristici (cadendo perciò in contraddizioni facili e buchi di sceneggiatura, vedi ragni non accreditati) e incentrando la mini serie solo sulla figura di Pennywise, non è solo un tradimento, ma è un harakiri che condanna tale prodotto al dimenticatoio facile facile, nonostante un Tim Curry calato magistralmente nei panni (larghi) del clown.
Sceneggiato condannato a all'oblio quindi, specie ora che è uscito al cinema un prodotto ben più ambizioso, ovvero il film di Andrés Muschietti.
Avendo in dote un budget molto alto e godendo di una campagna pubblicitaria martellante, questo nuovo adattamento ha portato in sala una moltitudine di spettatori.
Non si può propriamente definire un film "adulto" in quanto decide di parlare il linguaggio degli  adolescenti (non diversamente da quanto fatto da King nella prima parte del romanzo d'altronde) strizzando l'occhio ai fan degli 80's che, come detto più volte, si stanno facendo una bella scorpacciata di revival cinematografici. 
Tra Siouxse and the Banshees, Micheal Jackson e New Kids on the Block, anche "It" 2017 porta il suo contributo a farci rivivere quegli anni, già a partire dalla collocazione temporale. Mentre il libro di King partiva dal post maccartismo degli anni '60, il film shifta agli anni '80 ed è davvero pregevole il lavoro di riproduzione scenografico e costumistico di quegli anni.
Aprendo il capitolo più tecnico dei vari aspetti del film, non si può eccepire granché ad una produzione killer, nata cioè per far centro già al primo colpo.
Detto di scenografie e costumi, effetti speciali, fotografie e musiche sono all'altezza di un blockbuster che punti all'eccellenza, perciò, se i singoli comparti tecnici non spiccano singolarmente allo stesso modo, il prodotto finale non delude.
Certamente si può biasimare l'utilizzo massiccio di jump scares, ma non siamo qui a parlare di un film innovativo o spiccatamente peculiare, bensì di un prodotto che deve accumulare dinero e, perciò, canonico e convenzionale. 
Il quid pluris che permette di affascinare (discretamente) è dato dal materiale di King, che qui viene rispettato e valorizzato in modo intelligente. D'altronde stiamo parlando di un libro che, tra cent'anni, sarà studiato nelle scuole e di un autore destinato ad essere osannato per lungo tempo per la sua capacità mitopoietica e immaginifica.
Bill Skarsgard, ovvero il figlio più piccolo e (il meno) raccomandato di Stellan, offre un'interpretazione di livello: seppur sacrificato dalle troppe scene d'azione/d'effetto, che lo piegano ad esigenze di intrattenitore puro, basterebbero la sua prima famigerata apparizione per promuoverlo: una scena pregna di tensione e orrido presentimento, orchestrata dallo sguardo felino e quasi lascivo dell'attore.
Allargando l'ottica del film bisogna dare atto a Muschietti di sapere il fatto suo. 
Gira un film episodico e rapsodico, con evidente appesantimento della messa in scena e smembramento della tensione. Ciò in parte va attribuito al libro di King è vero, ma ci sono almeno due scene di valore assoluto: la prima è la comparsa di Pennywise nel garage di uno dei ragazzi; la seconda vede protagonista Beverly e il proprietario di un negozio: in questa scena è racchiusa tutta la visione morbosa, ammorbata e perversa che King ha del mondo degli adulti.
In conclusione promuovo discretamente questa trasposizione di "It" che ci restituisce parte delle suggestioni del libro originale, non lesina in momenti gore e smorza alcune spigolosità del romanzo che non avrebbero permesso di dare vita ad un blockbuster di buon livello.
Il discorso che sia giusto biasimare la mancanza di coraggio e la ricerca del guadagno facile, va portato avanti fino ad un certo punto. Bisogna tenersi stretti questo adattamento che regala al cinema una visione che si avvicina al mondo di King.

Habemus Judicium:
Bob Harris

giovedì 2 novembre 2017

"THE BLIND KING" (2016): IL NON CINEMA DI RAFFAELE PICCHIO (PARTE I)

Oggi inauguro la prima delle due parti dedicate al non-cinema di Raffaele Picchio
Si dice sempre che il cinema italiano non ha i mezzi per girare produzioni che esorbitino dalla commediola tipica, altrimenti ci sarebbero tanti talenti nostrani che, con le loro idee, farebbero il culo alle produzioni straniere. Raffaele Picchio, invece, nei suoi film ci fa intendere che, oltre ai soldi, spesso scarseggiano soprattutto le idee e il talento.
Parto con il recensire il suo secondo film in ordine cronologico, ma il primo che ho avuto la possibilità di visionare : "The Blind King".
Eheheh! Avete visto che titolo ganzo in inglese eh? Mica semo italiani! Semo internazionali!
Craig ha un nome inglese, è padre di una bambina dal nome inglese e ha una sorella dal nome inglese. 
Vivono fuori Roma, da quanto si capisce, anche se alcune scelte stilistiche rimandano ai film americani: i protagonisti bevono caffè all'americana versato da brocche trasparenti con servizio di refill, all'interno di pub ad apertura diurna e dalla conformazione un po' strana e poco nostrana (a partire dalla presenza di lampade piazzate al centro dei tavolini che vi sono disposti all'interno).
Yeah, right, very good!
Peccato solo per la scena di Craig che gioca a palla con la figlia usando un Super Tele... 
Dicevamo di Craig, regista fallito, e della figliola che ha la caratteristica di essere diventata muta, a causa della morte della madre avvenuta tempo prima. 
Da quando si sono trasferiti nella casa dei genitori di Craig la bambina ha cominciato a fare disegni strani: si ostina a raffigurare un losco figuro dai denti sagomati, incappucciato e avvolto da catene. 
Lo stesso losco figuro che comincia ad apparire anche a  Craig nei sogni. 
Cosa vorrà da loro il Re Cieco?
Da quale passato oscuro fugge Craig?
Ma soprattutto cosa abbiamo fatto per meritarci questo?
Partiamo dalle scabrosità tecniche che rappresentano la pecca più comprensibile: gli attori recitano. Punto. Ma sicuramente un bel balzo in avanti rispetto all'altro capolavoro che è "Morituris"[LINK].
Le ambientazioni sarebbero pure azzeccate, a parte le forzature stile americano di cui sopra (ed eventuali altre), se non fosse che non ci si ricami sopra alcuna atmosfera degna di un horror e quando lo si fa l'effetto è scadente. 
Questo è dovuto al fatto che non vi è interazione adeguata tra lo scenario e i personaggi che sia funzionale allo sviluppo degli eventi del film o che possa contribuire ad accrescere la tensione.
Per parafrasare: è tutto buttato lì a cazzo. 
Piccolo esempio: non si capisce bene per tutto il film se la presenza malefica abbia o no una qualche associazione con la casa in cui va a vivere il protagonista e di appartenenza dei genitori. Il punto è che il Re Cieco inizia a manifestarsi lì e viene spiegato il fatto che Craig sia colpevole di aver cacciato i genitori da lì e averli rinchiusi in un ospizio. Ma poi si scopre che ci sono dei casini legati alla moglie e questi erano già presenti nella casa vecchia, il che dovrebbe escludere che il male si palesi solo ora in conseguenza dello sfratto dei genitori. 
Va bene che veniamo da una tradizione liberale in cui nun me toccate la proprietà che è sacra...
Altro esempio: il mostrone viene disegnato dalla figlia muta in procinto di uscire dall'armadio, il che farebbe pensare che l'armadio è un elemento di connessione con la presenza in questione; d'altronde è un topos caratteristico dell'horror il fatto che il male si manifesti in/da un punto preciso, basta prendere un boogeyman a caso per avere un esempio correlativo. 
E invece no, perché l'associazione Blind King/armadio è buttata lì a cazzo, poiché durante il film esso si paleserà praticamente dappertutto e si perderà così tale potenziale connessione.
Per non parlare poi del lato onirico del film, i momenti cioè in cui Craig sogna di essere in un ipotetico altrove che, all'inizio è un bosco (non si sa perché) e poi successivamente è rappresentato da una versione di casa sua con qualche candela sparsa qua e là, ed in cui appaiono i suoi familiari e l'immancabile Blind King. Ma ancora una volta non c'è interazione tra personaggio e ambiente.
Ed ancora, Craig scende in una specie di catacomba sotto casa sua, vede due tavoli in legno massello, due candele, ciancia un po' con le presenze e poi si sveglia. 
Che senso ha ricreare un ambiente del genere?
Solo per dare un po' di atmosfera?
Ma se il personaggio non vi interagisce, non crei minimamente tensione, è come entrare in un ristorante a tema horror con i camerieri vestiti da Dracula.
Ci sarebbero altri aspetti su cui non mi soffermo, ma un cenno lo voglio fare sul protagonista indiscusso del film e anche del titolo: "The Blind King". 
Allora, va bene l'entità malvagia paurosa nell'aspetto, e da questo punto di vista il lavoro di make up è ottimo. Ma non si può renderlo una macchietta che appare in continuazione per iniziare una serie di dialoghi retorici e metaforici interminabili in cui dà continuamente addosso al protagonista (che poi basta con queste voci profonde da mostro, sono inflazionate da anni!); sembra quasi che la condanna comminata a Craig per i suoi (dubbi) peccati consisti nel sopportare i pippozzi infiniti e sfiancanti del Re. 
E con Craig viene sfiancato anche lo spettatore che sa già che, dal momento in cui si paleserà il Re Cieco, partirà un interminabile morale sul peccato e sulle colpe da espiare. 
Perciò, se nel cinema horror viene continuamente messa in evidenza la pecca di mostrare troppo, smorzando così l'elemento orrorifico dell'apparizione, qui andiamo oltre: la presenza malefica non solo viene mostrata in continuazione, ma assume il ruolo che potrebbe avere quella persona logorroica che conosci e non vuoi mai vedere, perché sai già che ti terrà un'eternità a parlare dei fatti suoi. La stessa persona della quale dipingi un'immagine buffa agli altri. 
Ecco il Re Cieco è un Re Comico, perché alla fine del film lo si può considerare un personaggio ridicolo che provoca risate fragorose ad ogni attacco di discorso, ben lungi dal suscitare paura.
Per concludere si può dire che, come accade con tanti horror di basso livello, questo film andrebbe visto in compagnia perché come horror vale pochissimo, ma come film comico è semplicemente perfetto.

Habemus Judicium:

Bob Harris