lunedì 31 luglio 2017

IPERIONE IN ORIENTE #3: "SUICIDE CLUB" (2002) DI SION SONO

«Allora arrivederci a tutti»

"Suicide Club", distribuito in Giappone con il titolo "Suicide Circle", è un film horror del 2002 di Sion Sono, il suo primo approccio commerciale. Fino ad allora il regista giapponese aveva confezionato solo pellicole sperimentali caratterizzate da poche e lunghissime sequenze, spesso quasi prive di dialoghi, e dall'uso di molteplici soluzioni stilistiche.
E' con "Suicide Club" che il nome di Sion Sono inizia a girare tra gli appassionati del cinema di genere; i suoi film vengono proiettati in rassegne e festival occidentali, il pubblico si estende sempre di più, anche qui da noi dove, ahimè, la sua filmografia è stata pressocché ignorata dalla distribuzione.
Prima sequenza: siamo a Tokyo nella stazione di Shinjuku.
La banchina, come da copione, è affollata di gente che attende il treno; dagli altoparlanti viene diffusa la classica voce che invita i presenti ad allontanarsi dalla linea gialla. Lungo la piattaforma ci sono 54 studentesse, una vicina all'altra. Si tengono per mano e sorridono, sono serene ed alzano un coretto. «Uno e due, uno e due».
Il treno è in arrivo.
«Uno, due... e tre».
Le 54 studentesse si lanciano sui binari ed il sangue sporca ogni cosa, la piattaforma, il treno, i passanti. Un borsone bianco, adagiato sulla banchina insanguinata, viene inquadrato dalla telecamera. Cambio di scena, un gruppo musicale di adolescenti, le Dessert, si esibisce con un pezzo dal ritornello odioso: "Mail Me".
"Suicide Club" inizia così, nel modo più crudo, scioccante e straniante possibile.
Ciò che accade in metropolitana è solo l'inizio.
Altri suicidi ed un borsone, sempre bianco, che compare sui luoghi delle morti.
Il suo contenuto? Qualcosa di rivoltante.
Per la polizia dietro ai suicidi si può celare una mente criminale. A suffragare l'idea alcune telefonate misteriose ed un sito internet in cui compaiono solo dei pallini.
In "Suicide Club" si innestato trame e sottotrame che spiazzano, creano tensione, costruiscono e sfilacciano continuamente la narrazione. Si rimane smarriti dinnanzi ad un numero talmente grande di personaggi da apparire, agli occhi dello spettatore, quasi anonimi.
E tutto ciò è funzionale all'indea di fondo, piccole tessere narrative che mirano a rappresentare la società giapponese; si parte da un Horror/Thriller dal quale ci si aspettano risposte quadrate e complete, ma ben presto ci si rende conto che il film va oltre e che di quadrato e solido ha ben poco. Sion Sono prende il genere, lo piega e lo trasforma in uno strumento con cui mettere in scena una personale analisi sull'alienazione. Parte dai schizzi di sangue e giunge all'autocoscienza (si pensi al dialogo teatrale), mostrando un uomo moderno appiattito su anonimato e routine, incapace a costruirsi una vita relazionale.
"Suicide Club" è, per lo spettatore occidentale, un'opera sfuggente e straniante in cui la diversità culturale e sociale c'è e si sente fortissima. E grazie a ciò cresce il fascino esercitato dalla pellicola, una di quelle capaci di far interrogare lo spettatore dopo i titoli di coda.

Habemus Judicium:
S.V.
Ismail

lunedì 24 luglio 2017

IPERIONE IN ORIENTE #2: "TOKYO LOVE HOTEL" (2014) DI HIROKI RYUICHI

«Chi finisce in posti come questo lo fa perché ha i propri motivi»

24 ore dentro ed intorno all'Atlas Hotel, albergo ad ore situato a Kabukichō, il quartiere a luci rosse di Tokyo dove uomini e donne si recano alla ricerca di emozioni forti. Una telecamera a mano, quasi tremolante, ci conduce all'interno della vita di alcune coppie costruendo storie che si sfiorano tra di loro.
Toru e Saya, lui receptionist dell'Atlas in bilico tra il sogno di lavorare in un albergo di lusso ed una realtà squallida, lei cantautrice in erba concentrata in toto nel suo lavoro ed alla ricerca di un contratto discografico.
Satomi, donna delle pulizie dell'hotel, che vive in clandestinità con Yasuo, entrambi in attesa che trascorrano le successive 48 ore affinché possa cadere in prescrizione un reato da lui commesso anni prima.
Heya e Cheng-Su, una coppia di immigrati coreani, lei prostituta all'ultimo giorno di lavoro, il permesso di soggiorno in scadenza e la voglia di ritornare a casa. Lui giovane cuoco, all'oscuro dell'attività della compagna e con la voglia di rimanere in Giappone. Due sconosciuti ormai, incapaci di comunicare tra di loro.
A questi si aggiungono una lunga serie di personaggi.
"Tokyo Love Hotel" (in Giappone distribuito con il titolo di "Sayonara Kabukichō"), è un film corale sull'amore, sulla crisi di nervi delle coppie, dei loro sotterfugi, sulla incapacità di comunicare e le pulsioni sessuali.
Di amore, in queste coppie, ne è rimasto ben poco, e lo stesso sesso non ha più alcuna forza vitale: è un meccanismo automatico ed anaffettivo che dietro il godimento mette a nudo le piccolezze dell'animo umano; tutti i protagonisti sono dei mondi a sé, singole individualità che nascondo, a loro stessi ed all'altro, i problemi.
E' un racconto delicato e pieno di malinconia che, agli occhi di noi occidentali, si arricchisce di spunti interessanti sulla società giapponese.
Riappare attraverso alcuni dei protagonisti lo spettro di Fukushima. Ci parla delle sacche di razzismo nei confronti degli immigrati coreani. Delinea una visione straniante del sesso: se le Escort appaiono socialmente accettate, lo stesso non si può dire per chi si prostituisce in strada; l'unico sentimento che si esprime verso esse è una profonda indignazione. Ed ancora, se da un lato le escort possono essere a spasso con un guinzaglio nei corridoi dell'albergo, dall'altro i clienti non possono avere con esse un rapporto completo. 
Piccoli indizi con cui materializzare una società ancorata su rigide e contraddittorie formalità.
L'amore mostrato da Ryuichi è sporco, assente, confuso e malinconico; eppure dietro tutto ciò rimane una speranza che vive e cresce nella condivisione delle piccole cose: è lì che risiede la bellezza dell'amore.

Habemus Judicium:

Ismail

lunedì 17 luglio 2017

"DIE":IL SORPRENDENTE ALBUM DI IOSONOUNCANE

«Batte scirocco sulle prore,
 batte alle porte e prende il mare.
 Ogni giorno si sveglia e muore,
 ogni giorno si sveglia e cade.
 Ora ed ancora sulle scale
 col mattino ti aspetterò.
 Svegliami domani amore mio
 con l'arrivo del sole». 
                                                                                        ("Carne")                            
Iosonouncane, all'anagrafe Jacopo Incani, esordisce come solista nel 2011 con l'album "Macarena su Roma", un lavoro ricco di idee in cui l'autore, attraverso un sguardo lucido, cinico e sarcastico, volge la sua attenzione verso le piccole/grandi miserie di una società lacerata (così in "Summer on a spiaggia affollata", troviamo i villeggianti gioire per il naufragio dei barconi dei clandestini: una folla selvaggia che invoca a gran voce/la versione in carne ed ossa delle morti viste in tv/poi finalmente il barcone affollato ribalta e comincia ad affondare/gli ombrelloni si gonfiano di un boato di gioia e di saluti per chi da casa è rimasto a guardare).
Un'opera fortemente politica che parte dalla cronaca, dagli articoli di giornali e dai servizi dei telegiornali. Il tutto suonato attraverso il solo apporto di una chitarra acustica, un campionatore ed una loop-machine. Incani fa tutto da solo, un vero e proprio one man band
Passano gli anni, ben 4, e dietro di essi c'è un grande lavoro di ricerca.
Iosonouncane lascia i binari segnati con il buono "Macarena su Roma"  ed intraprende una strada del tutto nuova. Entra in studio nel gennaio del 2014collabora con ben 14 musicisti e partorisce nel 2015 un concept album, per il quale sceglie un titolo ambiguo, "Dieda poter leggere sia in senso mortifero (se lo si interpreta all'ingleseo di rinascita (in latino e sardo die significa giorno), una morte/rigenerazione che pervade tutti i versi delle canzoni.
Abbandona la dimensione schizzofrenica ed avvilente degli spazi urbani e si dirige verso un mondo rurale, sempiterno e sospeso nel tempo trovando una sorprendente alchimia musicale capace di suonare primordiale e tecnologica allo stesso tempo.
Solo 6 brani, un ascolto da fare tutto d'un fiato incentrato sulla distanza, il racconto della paura di un naufragio visto da due persone. Il marinaio in balia del mare con la paura di morire e la compagna che, dalla terra ferma, volge lo sguardo verso la burrasca con il timore di non poter rivedere più il suo amore (due punti di vista vengono mostrati nei 4 brani centrali: "Stormi","Buio", "Carne" e "Paesaggio" incorniciati dai corali "Tanca" e "Mandria"). 
Testi evocativi e carichi di immagini simboliche (il sole, la falce, la fame, la morte gli alberi, la terra) e una musica dove Jacopo Incani mostra una grande capacità di mescolare la tradizione (il canto a tenore sardo che apre "Tanca" e si palesa con forza in "Buio", un ruggito che sembra salire dal profondo della terra), il cantautorato italiano (tanti, ed a ragione, hanno sentito riecheggiare il miglior Battisti di "Anima latina"), il prog (i tanti tempi che si alternano in "Stormi" e "Paesaggio", la ricchezza di strumenti a fiato, usati sempre in modo equilibrato senza mai cadere in stucchevoli barocchismi), nonché l'influenza della musica elettronica e techno con i loro suoni ossessivi e ripetuti. 
Il risultato, un album ispirato e dominato da sonorità potenti, alte e primordiali, in cui i suoni ossessivi, cupi e cadenzati (penso "Tanca", l'ipnotico brano che apre l'album) si mescolano ad approcci più pop ed orecchiabili come in "Stormi", costruita su un giro di chitarra acustica semplice arricchito da un un delicato synth e da azzeccatissimi cori femminili (o come nell'intensa e meravigliosa "Carne", il pezzo migliore per chi scrive), sino all'apice psichedelico di "Buio" dove la lacerazione della distanza si fa più viva e forte.
"Die" è un album ricco e complesso ma allo stesso tempo accessibile e pop. Veicola sentimenti e stati d'animo universali ed è dotato di un mix musicale carico di fascino e bellezza, un LP che cattura ed ossessiona sin dai primissimi ascolti.
Iosonouncane poteva cadere nella solita minestra dell'indie italiano diversamente impegnato ed essere più accondiscendente alle logiche di mercato. Ed invece se ne esce con un disco così, dal gusto raffinato della migliore musica sperimentale. 
"Die" sembra quasi un atto di coraggio, indubbiamente un grande Album.

Habemus Judicium:


Ismail



mercoledì 12 luglio 2017

"I LOVE RADIO ROCK" (2009) DI RICHARD CURTIS

«Lei è borghese in modo sospetto per piacerle quello che facciamo qui »

E' l'estate 2009 (come passa il tempo, sic) ed a Piazza Vittorio viene allestita un'arena cinematografica da Radio Rock, famosa emittente dell'etere romano. 
Si spengono le luci ed inizia il film. 
Un DJ, il Conte (Philip Seymour Hoffman) mette un disco e dalle casse si sente pompare un riff, un accordo di chitarra discendente a cui seguono delle voci sguaiate: è "All Day And All of The Night" dei Kinks, il terremoto musicale che apriva le porte al lato più duro del rock. 
Sin dalle prime sequenze del film la carica è tanta. 
"I Love Radio Rock" è la seconda fatica da regista di Richard Curtis (del primo, "Love Actually" se ne poteva fare tranquillamente a meno), già sceneggiatore guru della commedia made in UK degli anni '90. Qualche esempio? Firma l'icona  "Quattro matrimoni e un funerale"; scrive per uno dei fenomeni della comicità anni '90, la serie di Mr. Bean; poi appone il suo nome ad altri due successi commerciali: "Il Diario di Bridget Jones" e "Notting Hill".
In "I Love Radio Rock" Curtis abbandona il feticcio Hugh Grant, così come lo sfondo sentimentale, optando per la coralità. 
Siamo nell'Inghilterra del 1966, la scena musicale è in pieno fermento creativo. Cambiano gli stilemi musicali così come i costumi sociali e la morale. La radio di stato, la BBC, rimane però legata ad un approccio conservatore limitandosi a trasmettere solo 2 ore a settimana di musica Pop. A sopperire alle mancanze dello Stato ci pensano però le radio pirata; tra queste c'è Radio Rock, emittente che trasmette musica da una nave ancorata a largo nel Mare del Nord al fine di evitare problemi legali con lo Stato (il film si ispira alla reale esperienza di Radio Caroline).
Al centro della storia troviamo una banda sgangherata e fracassona di DJ, dei paladini della libertà che danno vita ad uno scontro a distanza con il ministro Alistar Dormandy, uomo all'antica che, per salvare il buon costume inglese, cerca di ostacolarli e far chiudere la loro emittente.
All'epoca, su "I Love Radio Rock" lessi numerose critiche negative; Curtis aveva girato un prodotto banale e furbo, robetta mediocre di facile fruizione da vendere alle masse.
Forse sono uno spettatore mediocre. 
Forse sono stato traviato dalla voglia di musica che traspare per tutto il film. 
Fatto sta che "I Love Radio Rock", seppur non annoverabile tra i capolavori del genere, è un esempio di commedia ben riuscita, 2 ore e 15 minuti (si okkay, qualche taglio ci poteva stare) di puro e chiassoso divertimento; una lunga scorpacciata di musica rock (strada facendo incrociamo Kinks, Otis Redding, Hendrix, Turtles, tanto per citarne alcuni) che si innesta perfettamente con la trama e si erge a coprotagonista.
Divertente quindi, ma non solo.
Buono il confezionamento della pellicola che, oltre ad una monumentale colonna sonora, gode di buone trovate registiche (le telecamere a spalla) e di un montaggio egregiamente ritmatoLo stesso si può dire per il contenuto che, dietro i sorrisi, le trovare fuori le righe ed una impressionante quantità di personaggi sgangherati, dà immagine alla rivoluzione delle radio private (vissuta anche qui in Italia negli anni '70 con il fioccare delle talk radio) che hanno cambiato per sempre forma, sostanza e linguaggio del più bello mezzo di comunicazione.

Habemus Judicium:

Ismail

lunedì 10 luglio 2017

"TIMBUKTU" (2014) DI ABDERRAHMANE SISSAKO: IL CINEMA AFRICANO DI QUALITA'

«E' proibito... stare affacciati, stare seduti davanti alle case e fare qualcosa che comporti intrattenersi per strada. L'adulterio è il peccato più immondo. L'adulterio durante il mese di Ramadan è gravissimo e sarà punito con la morte mediante lapidazione»
-Un Jihadista-

Timbuktu, città del Mali, viene invasa da un gruppo di radicali islamici che impongono come regola l'assurdo delle loro idee. La musica, le sigarette ed il calcio vengono banditi. Alle donne viene imposto un nuovo vestiario. Tutto ciò che può comportare un'interazione sociale diviene esecrabile e giudicabile dagli improvvisati tribunali religiosi.

Non lontano dalla città, in una tenda immersa tra le dune del deserto, un pastore nomade, Kidane, vive assieme alla moglie Satima, la figlia Toya ed a Issan il giovane guardiano della mandria. 
Quella della piccola tribù è una vita pacifica e serena. Dalla tenda i tre possono solamente percepire gli avvenimenti che stanno sconvolgendo Timbuktu. La situazione viene però rotta da un avvenimento, l'uccisione di una loro mucca da parte di un pescatore, che spinge Kidane ad agire in difesa del proprio lavoro. Lui e la sua famiglia finiranno sotto l'occhio inquisitore degli Jihadisti.
La genesi del film, grande successo di pubblico in Francia e vincitore di numerosi premi (2 premi al Festival di Cannes, 7 premi Cesar e la nomination come miglior film straniero agli Accademy Awards) ci viene raccontata dallo stesso regista: « Il 29 luglio del 2012 ad Aguelok, una piccola città nel nord del Mali, un crimine inspiegabile ebbe luogo. Un crimine sul quale i mezzi di comunicazione di tutto il mondo chiusero gli occhi. Una coppia di trentenni, genitori di due figli, sono morti lapidati. La loro unica colpa era di non essere sposati. Il video del loro assassinio, che è stato pubblicato sul web, è mostruoso. La donna muore colpita dalla prima pietra, mentre l’uomo butta fuori un urlo disperato. Poi silenzio. Aguelok non è Damasco. Non è trapelato niente di questa storia». 
"Timbuktu" è in primo luogo questo, un film diretto all'occidente, un grido d'allarme che prova a rompere il silenzio in cui questi fatti rimangono sommersi. Attenzione però, Sissako non si limita alla semplice denuncia, ma dà vita ad un'opera cinematografica che muove dalla cronaca, la smonta e la ricostruisce attraverso allegorie ed immagini evocative. Ci ritroviamo dinnanzi ad un'apertura potente che funge da vero e proprio manifestoun gruppo di Jihadisti rincorre, a bordo di un Pick-up, una gazzella; durante la caccia, dalla gola di uno dei cacciatori, sale un grido: "sfiancala, non ucciderla!". Una breve sequenza che riesce a dire tutto. Ed ancora la partita di calcio, che i ragazzi del posto possono immaginare, oppure per la megafonata che spiega i nuovi precetti agli abitanti della città. E' solo attraverso queste piccole cose che si può capire come un pensiero totalizzante possa spazzare via tradizioni, usi e ritmi preesistenti. Un percorso dell'assurdo al potere che giunge nell'inevitabile esplosione di violenza e si mostra nella sua più banale semplicità.
"Timbuktu" ci lascia un grido di dolore in gola e una flebile (e necessaria) speranza, una corsa a perdifiato tra le dune che un giorno potrà avere il sapore di rinascita e nuovo inizio.
Tra le più intense produzioni degli ultimi anni.

Habemus Judicium:

Ismail

lunedì 3 luglio 2017

ALIEN 2K17



Alien Coglionants
É il titolo di questo film di fantascienza misto a horror ambientato in un futuro prossimo, in cui l'uomo ha iniziato a guardarsi attorno nell'universo e a terraformare pianeti su pianeti. 
Un manipolo di esploratori, dopo un incidente all'astronave che li trasporta, dovuto ad una tempesta magnetica, si risveglia prematuramente dall'ipersonno programmato per durare 7 anni, cioè fino all'arrivo in un pianeta le cui condizioni sono simili al suolo terrestre. 
Oltre all'equipaggio, sulla nave, sono ibernati 2000 coloni. Essi dovranno ripopolare la nuova colonia e sono stati scelti in quanto registi affermati nella cinematografia mondiale. Artisti illuminati che, con la loro visione della realtà, potranno mandare avanti la nostra specie, portandola al massimo splendore. 
Protagonista del film è la sorella piagnona di Sigourney Weaver, meno cazzuta, meno muscolare, molto meno sprint sexual. Devastata dalla perdita del marito Paul Virzìs, tra i coloni morti nell'incidente (la sua capsula piena di pizze di celluloide prende fuoco), si rivela decisiva nella scelta di atterrare sul pianeta Juno. 
Giunti sul pianeta, due membri dell'equipaggio vengono infettati da delle spore che, una volta insinuate, fanno crescere dentro di loro un organismo ostile che, dopo essersi sviluppato, esce dai loro sfinteri sotto forma di uno pseudo critico cinematografico, uccidendoli. 
Costui è una creatura molto pericolosa, dotato di due bocche per sparare il doppio delle cazzate qualunquiste e modaiole. Possiede inoltre artigli spuntati e smaltati, una fitta barba intellettualoide che funge da scudo (a patto di essere curata al millimetro e lozionata) e,sopratutto, si rivela molto pericolosa proprio quando viene attaccata con argomentazioni solide: il suo corpo infatti, in tale evenienza, produce una quantità di acido letale, paragonabile a quello prodotto da 10 donne sul posto di lavoro in una giornata media. 
Poi a un certo punto c' è un robot buono o forse è cattivo, forse è Fassbender, forse sono due Fassbender... Insomma ruba la scena a tutti e si erige a protagonista del film. 
Tra una nota di Wagner e l'altra il film si chiude con un lancio anonimo di uova verso uno schermo che proietta una lunga intervista di Ridley Scott, estrapolata dai contenuti speciali di Kingdom Of Heaven. 
Oh io ci provo lo stesso... Mi hanno detto di dire che il film fa schifo, ma che cazzo, a me è piaciuto! Lasciatemi in pace, è quello che cercavo! 
Alla fine scusate, ma se mettiamo una fantascienza plausibile, poi mettiamo scenografie ed effetti speciali imponenti, personaggi chiave relativamente azzeccati, sceneggiatura galoppante e regia maestosa, il tutto calato nel film di genere, per di più longitudinariamente fruibile... 
Ma perché devo bocciarlo a priori? 
Come dite? 
Ridley Scott è un vecchio rincoglionito e non ne infila più una giusta? 
Dennis Villeneuve...
Si, lui si che è un grande! 
Largo ai giovani per dio! 
Va bene va bene, Se lo dite voi...

Habemus Judicium:


Bob Harris