giovedì 29 marzo 2018

MADE IN NETFLIX #1: "MINDHUNTER" (2017) DI DAVID FINCHER

Non ci si può approcciare a "Mindhunter" semplicemente entrando su Netflix e premendo il tasto play. Le crime series sono praticamente all'ordine del giorno e diventa davvero difficile scegliere autonomamente a quale indirizzarsi. A complicare il tutto c'è il fatto che alcune di queste vengono pompate all'inverosimile, risultando poi, nei fatti, prodotti televisivi poco più che usa e getta (ovviamente lo spettatore medio probabilmente ci vedrà un capolavoro).
Nel 1977 Holden Ford, agente dell'FBI, assieme al collega Bill e alla psicologa Wendy, inizia a studiare una nuova tipologia di assassino, il cosiddetto serial killer e un nuovo metodo di indagine per identificare il colpevole, chiamato profilazione, andando in varie prigioni degli Stati Uniti ad intervistare tutti i più famosi pluriomicidi. 
Allora, la prima garanzia di qualità salta subito all'occhio: prodotta e DIRETTA da David Fincher. Non che il regista americano sia un genio assoluto del cinema, ma certamente è uno dei grandi esecutori dell'orchestra. E poi c'è quel legame speciale con il thriller, nato ai tempi di "Seven", proseguito con cult come "Fight Club" e "Gone Girl" e con intermezzi riusciti quali "Panic Room" e "Uomini che odiano le donne".
A parte la regia affidata ad una stella, cosa ha di diverso "Mindhunter" dalle mille serie che trattano di serial killer? Beh, che non si avvale della figura del serial killer per creare un'atmosfera di suspense e non ne tratteggia la personalità per dare colore al tutto.
Qui si parla dei veri serial killer, di quelli che ormai sono talmente celebri da essere considerati delle rockstars, nomi che sono finiti nell'immaginario comune e sono realmente considerati leggenda.
Non c'è alcun bisogno di sbizzarrirsi (ed esagerare) nell'inventarsi una qualche loro psicosi. Non li si butta in mezzo per renderli i villains della situazione, in un costante partita a scacchi, giocata sui nervi, con i detective di turno. A parte i moralismi e gne gne gne, è cosa nota che le personalità antisociali e psicolabili sono tra le più affascinanti e carismatiche.
Il bello di questa serie sta proprio nel suo mostrare questa verità e nel trattare queste grandi menti deviate come fossero delle bestie rare. E la serie gioca tanto sull'effetto "sono tra di noi, ma non sappiamo chi", per mantenere alta l'attenzione e la curiosità dello spettatore. Non a caso, in una scena, la psicologa Wendy riassume questa idea in una frase, rispondendo così a un perplesso Holden, che si chiedeva, riferendosi a Nixon, come potesse esserci stato un presidente degli Stati Uniti affetto da psicosi: "la domanda è come si potrebbe essere presidente degli Stati Uniti senza essere psicotici."
Quando Holden inizia a sperimentare lo studio del metodo di profiling, per iniziare a raccogliere materiale, decide di andare a intervistare Ed Kemper, uno dei più efferati omicidi seriali: l'attesa per l'arrivo del "mostro", il primo scambio di sguardi e battute hanno un sapore cinematografico finissimo e, a pensarci neanche troppo, ma neanche troppo poco, la mano di Fincher pare essenziale. 
A livello tecnico non si può fare a meno di notare il taglio cinematografico della messa in scena nelle carrellate, nei piani sequenze o nei dolly. Così come ha ben poco di televisivo la ricerca continua di pause sceniche di una certa intensità e i dialoghi ricercati e introspettivi (vero è che si parla di psicologia, ma ciò viene fatto con cura maniacale al particolare). 
Poi vabbè, ormai il livello recitativo dei serial (inteso come serie) è elevato, data la partecipazione di fior fior di attori, anche se, in questo caso, ci troviamo di fronte a volti poco noti. A fronte di un protagonista pupazzoso e, per lunghi tratti, irritante, "Mindhunter" beneficia di prove straordinarie quali quelle di Anna Torv, nella parte di Wendy, e, soprattutto, Cameron Britton in quella di Ed Kemper, vero protagonista della prima stagione.
Ci sarebbe anche di mezzo una storia d'amore tra Holden e la studentessa di sociologia Debbie, ma è davvero un escamotage per allungare il brodo e dare uno spessore a un personaggio che pare non averne troppo, ma si rivela banale e stereotipata (basta solo vedere che roba inguardabile è la scena del loro primo incontro). 
Che tutto ruoti attorno al fascino perverso dei serial killer di fama nazionale è reso palese da una serie di intrecci secondari che paiono essere meri riempitivi, tra una loro apparizione e l'altra. 
La gestione saggiamente dosata dell'intreccio principale lascia già intendere che, anche per le successive stagioni, ci sarà molta carne al fuoco e la possibilità di mantenere sempre un alto livello di interesse (e di ascolti). Perché, alla fine dei conti, questo ibrido tra un pizzico di romanzato e storia reale sembra essere un'idea tanto banale quanto vincente, ovviamente messa nelle mani giuste, come in questo caso.

Habemus judicium:
Bob Harris

lunedì 26 marzo 2018

"DIAZ-DON'T CLEAN UP THIS BLOOD" (2012) DI DANIELE VICARI

«Arrivato al primo piano dell'istituto ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana»
-Michelangelo Fournier-


Corpi martoriati da una furia sadica escono dalla Diaz sulle barelle; alla finzione non resta che lasciare spazio spazio alle immagini di repertorio. Poi le torture della caserma Bolzaneto trasformata in un garage da dittatura argentina. Ed Alma, sfregiata in volto da un manganello, non riesce a sorridere alla visione della madre aldilà delle sbarre di un cancello.
Non c'è niente di nuovo in "Diaz", niente che non sia stato già sviscerato dai media (soprattutto stranieri) o dalle inchieste giudiziarie. Vicari mette in scena un'urgenza, dare un'immagine cinematografica ai dolori di Genova del 2001; un bisogno affiorato da quella sentenza di primo grado che assolveva tutti i vertici di polizia per l'assalto alla Diaz. E lo mette in opera calibrando ottimamente il materiale a disposizione.
Opta per una narrazione corale perché è solo attraverso una molteplicità di sguardi che si possono percepire a pieno le ferite inferte. Ci conduce alla macrosequenza della brutale irruzione nella Diaz, una spirale di sangue e violenza dalla quale non c'è alcuna via di scampo. Si sente il fiato sul collo dei poliziotti che picchiano e l'oppressioni delle pareti pronte a collassare sui corpi inermi.
E' un atto di verità, una furia dalla quale non si deve distogliere lo sguardo affinché si possa comprendere quella disumana normalità. L'assalto doveva e poteva essere reso solo in questo modo, mostrando ciò che è stato senza vie di fuga. Ed alla fine della visione ci si ritrova spaesati, sconvolti e disperati, consapevoli della stupida sete di scenograficità e successo dei piani alti.
Questo è il cinema civile di cui si sente il bisogno, quello che sa rimestare nella merda e nel sangue della cronaca. E da un punto di vista squisitamente cinematografico "Diaz" funziona a meraviglia; un film asciutto e votato all'azione, capace di far rivivere lo spaesamento dei presenti e di creare un eccezionale tensione; due ore in cui il cuore si ficca irrimediabilmente in gola per la spasmodica attesa di uscire dall'incubo.
Ci sono dei difetti è vero. Il coro dei personaggi appare non perfettamente equilibrato; alcuni dialoghi mirano a spiegare; la bottiglia, ottimo elemento narrativo, è davvero bruttina. Ma dando uno sguardo d'insieme all'opera si può tranquillamente soprassedere su tutto ciò.
Un plauso va anche al produttore Procacci, il quale, dopo aver bussato vanamente a Rai Movie e Medusa, ha tirato dritto per la sua strada cercando e trovando partner stranieri. Il David di Donatello per la migliore produzione è meritatissimo. E non è un caso che altri due film del 2012 dalle tematiche spinose, "Acab" e "Romanzo di una strage", abbiano avuto il medesimo destino. Il cinema italiano manca di coraggio, punto.
Non resta che abbracciare ed applaudire Procacci, Vicari e tutta la macchina produttiva, per averci regalato una pellicola coraggiosa che funge da luce su un'urgenza ancora viva.

Habemus Judicium:
Ismail

giovedì 22 marzo 2018

"CALIFORNICATION" DI TOM KAPINOS

Che David Duchovny potesse interpretare un personaggio opposto ad un impeccabile agente dell' FBI sembrava, francamente, impossibile. E, invece, vedi Hank Moody e realizzi che nessun'altro potrebbe impersonarlo.
In un parallelo tematico con un' altra serie di successo come "Nip/Tuck" emerge subito un denominatore comune: il tono scanzonato. Entrambe le serie affrontano la tematica sessuale con un piglio sbarazzino e pongono al centro della scena un playboy incallito: Hank da un lato, Doctor Troy dall'altro. Qui finiscono le similitudini e cominciano le differenze. "Nip/Tuck" cerca costantemente di esasperare il lato glam e un certo charme, "Californication" si pone esattamente come il suo protagonista: una serie indie, quasi mai pretenziosamente seriosa. Il dottor Troy e la sua crew, invece, spesso, si fanno portavoce di tematiche serie, con toni grevi, in un continuo saliscendi con il tono leggero di cui sopra. 
Se poi si vuole fare un ulteriore parallelo sul lato realismo, per quanto entrambe rappresentino situazioni estreme, irreali e illogiche, siamo sicuramente più portati a credere alle arti amatorie di Troy, rispetto a quelle di Moody. Già, perché è abbastanza logico che un chirurgo ricco, bello, sessuomane e con spiccata capacità seduttiva, riesca a portare in branda una partner, almeno, a episodio. Meno probabile nella realtà che un Moody dall'atteggiamento perennemente sommesso, rinunciatario e francamente passivo, possa ottenere tutti quegli assalti femminili (di altissima qualità) comodamente sdraiato su un divano (elemento ricorrente nella serie).
Focalizzandosi sull'argomento del post, "Californication", la serie di Showtime, ideata da Tom Kapinos, è un prodotto meritevole di essere seguito pazientemente, ma eventualmente anche in modo occasionale e discontinuo. 
Le sette stagioni lungo le quali si svolgono le vicende dello scrittore pigro e vizioso sono un'altalena di avvenimenti più o (soprattutto) meno emozionanti, quasi sempre stereotipati. Inutile pretendere da un prodotto che si avviluppi in un arco così esteso che la qualità si mantenga su un certo standard preciso. L'errore è di partenza, perciò non crediate, da oggi fino all'eternità, che una serie TV possa surrogare papà cinema.
Detto del prevedibile andamento ondivago, bisogna, tuttavia, riconoscere una coerenza di fondo che non viene praticamente mai meno. Innanzitutto, come detto, la serie mantiene un tono leggero e si concede pochi, dosati ed apprezzati, tocchi drammatici.
Poi, tra i mille colorati characters che affollano le varie stagioni, è chiaro fin da subito che Hank, Becca e Karen sono un triangolo imprescindibile, così come la purezza dei sentimenti di Hank per Karen; un rapporto questo, che viene costantemente ravvivato e accantonato con la facilità con cui si spegne e accende un interruttore. Ovviamente la banalità di questo asse non giova alla serie, così come la quantità di personaggi altamente tipizzati. Ciò detto, proprio per la monorotaia su cui essi corrono, risulta piacevole quando, occasionalmente, assistiamo ad una virata dei loro comportamenti che possiamo  considerare come un colpo di scena (valga per tutte l'uscita di scena del rapper interpretato da RZA nella quarta stagione).
Poi ogni tanto gli sceneggiatori tirano fuori dal cilindro il personaggio memorabile: è il caso di Lew Ashby, un character fascinoso e maledetto, ma che viene, inspiegabilmente, tagliato nell'arco di una stagione. Viceversa, in modo altrettanto inspiegabile, vengono trascinati allo sfinimento personaggi inutili e pedanti, come nel caso dell'attore Eddy Nero. È anarchia, insomma, ma non credo sia ricercata (più di tanto). Ad ogni modo ci piace. Anche questa è coerenza, in fondo. 
Il fatto è che, nonostante tutti i difetti classici di una serie tv americana, le situazioni che si vengono a creare sono davvero esilaranti e, per quanto prevedibili, divertono grazie alla messa in scena rock 'n' roll. Tutti sono molto rock'n'roll (e perciò era inevitabile dedicare al genere un'intera stagione), Hank Moody diventa terribilmente Rock'n'roll. 
Beh, peccato, perché aveva le potenzialità per essere qualcosa in più e non è sufficiente, ma anzi detrimente, affidare l'approfondimento della sua anima ad un patetico inseguimento sentimentale continuo, nei confronti della ex, noiosissima, moglie. 
La morale? Lui è un puttaniere, ma alla fine torna sempre da lei, che è seria seria. In verità ce ne frega un barbagianni e avremmo preferito, egoisticamente, che avesse prolungato ed approfondito la conoscenza di una delle tante squinzie che gli si buttano continuamente ai piedi.
E incongruenze/ buchi di sceneggiatura? Una montagna. 
Ma non ci mettiamo a elencare, anzi, ben vengano prodotti come "Californication", che, bypassando la pretenziosità e i complessi di inferiorità delle serie tv, e volando alla giusta quota, si ricavano una nicchia anche piuttosto consistente.

Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 19 marzo 2018

"ORECCHIE" (2016) DI ALESSANDRO ARONADIO

«Il fatto che trovassi il mondo stupido, non ti rendeva più intelligente, ma più infelice»

Un uomo sulla trentina, del quale non sapremo mai il nome, si sveglia con un fastidioso fischio nell'orecchio, uno di quei rumori che può farti impazzire. Entra in cucina e dinnanzi al frigorifero vede attaccato un post-it: «È morto il tuo amico Luigi, questo è l’indirizzo della chiesa dove in serata si svolgerà il suo funerale. Ps. Mi sono presa le chiavi della macchina». Luigi, Luigi...e chi è costui?
A complicare le cose una coppia di suore che portano nella casa il fardello del Verbo e l'anziana dirimpettaia da poco vedova.
Che volesse mettere in scena qualcosa di diverso, una commedia che esulasse dai modelli predominanti che importano la comicità televisiva, lo si vede sin dal confezionamento estetico. Alessandro Aronadio punta tutto sul B/N e su una inusuale formato video che parte dal rapporto 1:1, con cui mette discorsi e pensieri al centro dell'attenzione, e ci conduce, quasi inconsciamente, verso i più canonici 16:9.
Oltre l'impacchettamento, che vuol dire tutto e niente, è interessante anche lo spunto narrativo che sembra prendere a piene mani da "Il Fischio al Naso", prima opera del Tognazzi regista. 
Ma andiamo per gradi.
Il nostro senza nome, interpretato da un sorprendente Daniele Parisi, qui al suo esordio, è un supplente di filosofia; ha una compagna con la quale ancora non convive; quest'amico da ricordare; il maledetto fischio che non lo abbandona più; ed un certo egocentrismo, una solida visione del mondo che lo fa essere straniero/alieno in questa società folle e rapida.
E su questi elementi si apre un viaggio a piedi lungo le strade di Roma, liberata dei suoi topoi architettonici e che pochi riconosceranno; un girovagare che porterà il filosofo dinnanzi a paradossali incontri con medici, professori e presunte guide da rispettare/giudicare; un sottobosco dal quale far emergere anche un'astrusa scena rap italo-filippina che scambia il male di vivere, de "Lo Straniero" di Camus, in un colpo di sole.
Il tutto è costruito con un cast d'eccezione: Silvia D'amico, che molti ricorderanno per "Non essere cattivo" di Caligari, Piera degli Esposti, Pamela Villoresi, Milena Vukotic, Massimo Wertmuller, giusto per fare qualche nome; tra questi trova spazio anche un intellettuale, quell' Alberto Abbruzzese che aveva già saggiato il set con Nanni Moretti e che qui ritroviamo immerso in una seconda vita videoludica.
Aronadio ci propone una lunga sfilza di situazioni, espediente con cui dà un buon ritmo alla narrazione e strappa più di qualche risata. E intendiamoci il rischio di toppare, di partorire una commedia sfilacciata, un'accozzaglia di scenette appiccicate con lo sputo tra di loro è altissima.
Aronadio se la cava bene, crea una buona tensione di fondo, unisce gli elementi ed apre ad un percorso credibile. E qual è l'architrave su cui edifica il tutto?
E' quel sentirsi straniero (ah, Camus non era casuale allora), l'avere un pensiero forte eppure non possedere quelle categorie che permettono di convivere ed interpretare il mondo circostante; il nostro senza nome si ritrova così impantanato in un profondo senso di smarrimento e sfiducia, un dubitare continuo che pone in crisi le proprie certezze e fa respirare allo spettatore le atmosfere del cinema morettiano (ma vuoi vedere che pure la scelta di Abbruzzese rientri in un disegno più ampio?). E con divertimento si giunge al funerale di Luigi, dinnanzi al quale non resta che arrendersi definitivamente alla realtà.
"Orecchie" non è un capolavoro intendiamoci, non creerà alcuna rottura epistemologica nel cinema italiano, vive di esagerazioni ed astrusità, e non mancano passaggi poco incisivi che danno la sensazione di prolungarsi oltre il necessario. Nonostante ciò questa pellicola è un regalo gradito. Crea domande, incuriosisce, divide ed evita strade confortevoli e levigate.
Il tutto è tirato su con la modica somma di 150000 euro.
E questo al cinema italiano non può che far del bene.

Habemus Judicium:
Ismail

giovedì 15 marzo 2018

"QUELLO CHE NON SO DI LEI" (2017) DI ROMAN POLANSKI

Se stavate aspettando la rianimazione delle salme del duo De Niro e Pacino (mettiamoci pure Joe Pesci), in occasione dell'uscita di "The Irish Man", beh frenate l'impazienza e sostate alla fermata Polanski, che ci propone un'altra coppia da sogno, di ben diversa sostanza: le due donne più conturbanti dell'ultimo ventennio, Eva Green ed Emmanuelle Seigner, riunite nello stesso film, first time on the screen. 
Che poi non si sfrutti il potenziale magnetico di entrambe, ma una sola rivesta il ruolo del carnefice (anche se la Seigner non possiamo immaginarla mai vittima, se non di sé stessa puntini puntini) sicuramente smorza il potenziale. Manco poi si spinge sul pedale dell'intrigo (omo) erotico, se non in una meravigliosa inquadratura di un'eleganza suggestiva. 
Ma possiamo dire che Roman non è tipo da cedere facilmente a cliché, per di più se attualmente stra-abusati. Bene così. 
Delphyne (Emmanuelle Seigner) è una scrittrice che sta avendo un successo clamoroso con la pubblicazione del suo ultimo libro. Improvvisamente entra nella sua vita Elle (Eva Green), una donna affascinante che, morbosamente incuriosita dalla scrittrice, si insinuerà completamente nella sua vita. 
Se "Carnege" aveva 4 personaggi e "Venus in Furs" 2, con "Quello che non so di lei" Polanski rimane ancora una volta ancorato a un plot scarno, monopolizzato dai due personaggi femminili; la scelta registica di affidarsi a continui primi e addirittura primissimi piani, lo mette subito in chiaro. 
E ancora una volta l'affidare la riuscita del film agli attori si rivela vincente: detto della Seigner calata in un ruolo passivo ed efficacemente sofferto, la dominatrice assoluta della scena non poteva che essere quella strega ammaliante di Eva Green, condannata da anni al ruolo di personaggio weirdo, ma... dannazione! Ci va bene così e dobbiamo pure metterci la differenza. 
Con questo film il regista polacco torna, dopo decenni, alla specialità della casa: il thriller psicologico. E non poche similitudini sembrano affiorare in un confronto con opere somme quali "Repulsion"[LINK], "Rosemary's Baby" e "L'inquilino del terzo piano". Oltre all'oppressione e alla costrizione degli ambienti interni, luoghi di inquietudine e minaccia costante, torna qui, in primis, lo schema ciclico presente ne "L'inquilino del terzo piano"; ma, soprattutto, viene ripresa l'idea del doppio e della mistificazione mentale, spinta fino all'ossessione e alla follia. 
Per il resto Polanski riesce nuovamente, dai tempi de "L'uomo nell'ombra", a ricreare un thriller anche d'atmosfera, nell'atto finale del film ambientato nella campagna francese. C'è da dire che le due sequenze oniriche, che poi sono manciate di secondi, risultano, quantomeno, sovrabbondanti, per non dire stonate. 
A parte questo siamo di fronte ad uno dei maestri del genere, che sa giocare con i dettagli di ogni inquadratura, per creare una tensione sempre meno impercettibile e sempre più palpabile fino al climax finale. 
In conclusione "Quello che non so di lei" possiamo già definirlo un classico di Polanski, il quale, tornando alle origini, realizza un'opera che nulla aggiunge alla sua filmografia, ma che ci fa di nuovo assaporare il gusto di un piatto raffinato ed inconfondibile, di cui il nostro palato non potrà mai stancarsi. 
Godiamocelo perché 85 sono tanti, ahinoi.

Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 12 marzo 2018

L'IPERIONE IN ORIENTE #5: "IZO" (2004) DI TAKASHI MIIKE

Quando ci si interroga sul valore artistico dell' opera di Takashi Miike bisogna scegliere, senza mezze misure, due estremi opposti: considerarla spazzatura o massima espressione dell'ingegno umano.
Forse la verità risiede nella consapevolezza che tutta la filmografia del regista corre sulla doppia lama degli opposti, senza che l'uno possa scindersi dall'altro: non potremmo prendere in considerazione l'idea di giudicare Miike un genio, senza parimenti considerarlo come un artigiano di pessimo gusto.
Si dice spesso che Miike o si ama o si odia. Ma lo si può anche amare in modo doloroso. 
Doloroso perché i suoi film sono quasi sempre un'esperienza sofferta, indigesta e, spesso, non necessaria. Dedicare ore del proprio tempo a un film del regista di Osaka è una forma di masochismo compiuta, e "Izo" è la più alta forma di masochismo Miikiana.
Se di trama si può parlare, essa racconta della vendetta di un samurai crocifisso e, successivamente, trafitto, di nome Izo, resuscitato e assurto a demone immortale. 
Ma non c'è niente di convenzionale né di classico nella rappresentazione, figuriamoci. 
Assistiamo ad una carneficina lunga due ore, immersa in un percorso del protagonista che risulta costantemente metafisico ed allegorico. Il sangue scorre continuamente e copiosamente e le orecchie si riempiono del suono di carne maciullata. È rappresentazione della violenza in parte realistica e in parte esasperata, ma sempre tangibile. 
Eppure Izo si muove in scenari fuori dal tempo e dallo spazio; attraversa le epoche, compie continui salti temporali tra Giappone feudale e Giappone contemporaneo, senza soluzione di continuità o cambiamenti nella sua determinazione: Izo uccide chiunque gli si pari davanti. 
Egli mano a mano che procede il film è sempre più trasfigurato e demoniaco, sempre più sofferente: perché Miike ci dice questo, che la violenza nasce dalla sofferenza e genera sofferenza, negli altri, ma anche in sé stessi. 
Mai come in questo film la violenza del regista si è spinta ad un livello tale di sensazionalismo; e mai come in questo film viene fatta oggetto di un'analisi universale. In tal senso il foundfootage, che inframezza il percorso di Izo, richiama esplicitamente la testimonianza storica di come la condizione umana sia votata ossessivamente ad essa.
C'è spazio per una moltitudine di scenette, alcune eccessivamente inutili, altre piuttosto divertenti (si pensi alla scena dei due assicuratori demoni); in definitiva domina il nonsense, ma bisogna anche considerare questa scorpacciata di situazioni come un frullato di cultura postmoderna: sullo schermo sfilano, e periscono sotto la lama di Izo, i caratteri, gli stereotipi, le tradizioni e la cultura della società nipponica, incarnati in figure umane tipizzate. 
Grande spazio viene riempito anche da un approccio zen/buddista abbastanza insolito per il regista: numerose sono le riflessioni sull'esistenza e sulla sua ineluttabilità messe in bocca ai personaggi. La cosa ha sicuramente un suo fascino, che non risulta mai essere pieno, però, dato che viene in parte coperto dal grottesco, altro tratto caratteristico del film.
Va poi considerata come assolutamente geniale l'idea di alternare il cammino di Izo con gli intermezzi di un moderno menestrello che canta strozzando sempre più le sue parole, fino a trasformarle in rantoli, e che suona una chitarra ammaccata, le cui corde si arruffano confusamente ben oltre il manico.
Il finale, così come l'incipit, è a tema biblico (giusto per mettere ulteriore carne al fuoco) e il tema della maternità si ricollega esplicitamente a opere precedenti come "Visitor Q" e "Gozu" (quest'ultima chiaramente citata). Un film che, pur proiettando se stesso in una rapsodia sconnessa di dialoghi e situazioni, mantiene, incredibilmente, grazie al ritmo serrato e a una messa in scena pregevolissima, un andamento cinematografico.
Non basta tutto questo? C'è anche Beat Takeshi.
Morboso, eccessivo, egocentrico, gratuito e, spesso, cervellotico, se non proprio sconclusionato, ma ha anche dei difetti. In una parola? Miike.

S.V.
Bob Harris

giovedì 8 marzo 2018

L'ANGOLO DEL CULT #9: "PAURA E DELIRIO A LAS VEGAS" (1998) DI TERRY GILLIAM

«Ordina delle scarpe da golf, o non usciremo vivi da questo posto!» 

Un film che non s'ha da fare!
La sceneggiatura vaga per 12 anni di scrivania in scrivania senza trovare un produttore cinematografico intenzionato a spenderci i soldi. E come dargli torto, un plot senza capo né coda ispirato al romanzo semi-autobiografico di un giornalista sportivo, tale Hunter Stockton Thompson, cadenzato dal suo rapporto/passione per le droghe.
Un tipetto tutto particolare questo Hunter, l'inventore del cosiddetto gonzo journalism, uno stile di scrittura che fuoriesce dall'oggettività e mescola impressioni personali, sensazioni ed artifici narrativi. L'espressione del nuovo giornalismo che aveva mandato a farsi fottere lo sguardo neutro. D'altronde «non si può essere oggettivi su Nixon»...
Insomma il flop è dietro l'angolo, così come il rischio che qualche associazione puritana decida di impugnare i forconi in difesa della moralità nel cinema americano. 
Poi però le cose iniziano a girare.
Arriva qualche spiccio, non molti per gli standard Hollywoodiani; basti pensare che alcune delle canzoni scelte per la colonna sonora non verranno inserite nel film per mancanza di fondi.
La regia viene affidata ad Alex Cox, o almeno in un primo momento è così. Il regista ha numerosi litigi con la produzione e manda tutto in vacca. Parte la ricerca di un sostituto ed ecco che la sceneggiatura fa la sua comparsa sulla scrivania dell'ex Monthy Python, Terry Gilliam. L'idea lo stuzzica parecchio, ci sta giusto da fare qualche modifica per fare di questo "Paura e Delirio a Las Vegas" un road movie che corre lungo le strade del Nevada.
Anche trovare il protagonista giusto non è opera semplice, un toto-nomi lunghissimo che parte da Nicholson, passa per  Malkovich e porta dritto a John Cusack. E' lui il protagonist... ehm no, manco pe' niente. In questa storia nulla è definitivo.
Sbuca fuori Johnny Depp, ancora libero dal flagello dell'eyeliner, che nel frattempo ha conosciuto Thompson, divenendone amico. Johnny fa saltare il banco, è lui l'attore perfetto!
Johnny fa le cose per bene, frequenta Thompson per quattro mesi, assimilando gestualità, movenze e modo di parlare. Nel frattempo, leggenda vuole, Bill Murray, che già aveva interpretato ad inizio carriera il giornalista nel film "Where the Buffalo Roam" (mai distribuito in Italia), chiama Depp e lo mette sul chi va là: occhio a seguire quel tipo, o ti ritroverai tra 20 anni ancora invischiato con questo progetto da concludere. Ma Johnny è un tipetto coraggioso, bada poco alla cosa e tira dritto. 
Nel frattempo Thompson, che gode di una bella piazza in testa, diviene barbiere d'eccezione e rasa quella di Johnny; fa di più, gli presta molti dei suoi vestiti dell'epoca per farglieli utilizzare nel film e rendere il tutto più credibile. Non pago prende lo Squalo Rosso, la sua Chevrolet Impala del '71, e la mette a disposizione della produzione.
Tutto è pronto e ciak, il film viene presentato al Festival di Cannes del 1998 suscitando curiosità ed interesse tra i critici europei. Allora ne è valsa la pena, devono aver pensato Thompson e soci...
La trama del film è presto detta. Stati Uniti, 1971. Il giornalista Raoul Duke (Johnny Depp), ed il suo avvocato samoano, il Dr. Gonzo (Benicio Del Toro), si dirigono a Las Vegas a bordo di una cabriolet rossa. Il motivo è una gara motociclistica off-road, sulla quale Duke deve scrivere un pezzo per una rivista sportiva. Un breve soggiorno da allietare con un po' di ricercatezze messe nel portabagagli. Pochi minuti ed il viaggio da lavorativo si trasforma in lisergico.
Quello di "Paura e delirio" è un plot esilissimo, una commedia surreale e grottesca innervata da una buona dose di black humor. Un film che è tutto e niente allo stesso tempo, un mondo visionario che si declina attraverso luci, corpi che si deformano ed allucinazioni.
Così come accade per Mr. Gonzo e Duke, si rimane affascinati da un caleidoscopio colorato, sempre accompagnati dalla saggia guida della voce narrante che ci propina i suoi monologhi.
Velocissime, si alternano sequenze memorabili ed in un batter d'occhio si realizza che questa creatura l'avrebbe potuta portare in scena solamente Gilliam, capace di rubare quel modo nuovo di scrivere di Thompson e declinarlo nel mondo cinematografico.
Così come ci si rende conto di quanto Depp, libero di esprimere a pieno le sue doti camaleontiche, ed un perennemente disorientato Benicio Del Toro, siano gli attori giusti al posto giusto.
Tutto è proiettato ad affascinare ed a far smarrire lo spettatore, un'alta forma di intrattenimento completamente schizzato con cui mostrare i sogni infranti di un'intera generazione. Perché sullo sfondo rimane il '68 con la sua voglia di chiedere l'impossibile. Un'onda che si infranse sul sogno americano. Sulla società dei rapidi consumi. Sul Vietnam. Su quel Nixon, che un Duke strafatto ed inebetito, vede bucare lo schermo e danzare nella stanza. Una stagione che lasciava dietro di sé una scia di droghe, contraddizioni e profughi della generazione dell'amore.
E cosa ne fu invece di "Paura e delirio"?
Un clamoroso flop al botteghino, incassi che coprirono solo la metà dei costi.
Il tempo però si sa, è galantuomo e restituisce sempre...

Habemus Judicium:
Ismail

lunedì 5 marzo 2018

L'IPERIONE IN ORIENTE #4: "NIGHTMARE DETECTIVE" (2006) di SHINYA TSUKAMOTO

Lo ha detto lo stesso Tsukamoto: «volevo che questo film fosse un ponte tra la vecchia struttura con cui giravo i miei film e una nuova concezione, sempre più tesa ad addentrarsi nell'animo umano». Col senno di poi, il regista di Tokyo ha mantenuto la sua parola, virando verso una rappresentazione contorta e claustrofobica della psiche dell'uomo; chiaro esempio di questo sono sicuramente opere successive come "Kokoto" (2011) e, proprio, il seguito di "Nightmare Detective".
La polizia indaga sulla morte di alcune persone, il cui decesso è stato catalogato, anche in merito alle dichiarazioni di alcuni testimoni, come suicidio. Ma la giovane ispettrice Keiko Kirishima scopre un elemento che accomuna questi decessi: tutte le vittime, per lo più persone depresse, avevano memorizzato, sul proprio cellulare, uno stesso numero telefonico, che avevano chiamato poco prima di morire. Per risolvere il mistero e interrompere la scia di omicidi, la polizia dovrà affidarsi a  Kagenuma, un ragazzo dotato della capacità di interagire, entrandoci, con gli incubi degli altri.
Partendo da un plot che più stringato e spoglio non si può (considerando che siamo di fronte ad un thriller), si può tranquillamente affermare che siamo di fronte ad uno Tsukamoto fedele al 100 per cento a se stesso.
Partendo proprio dalla scarnezza della trama, statico pretesto per saltare sulle montagne russe della visionarietà distorta del regista.
Poi ancora quella fotografia blu glaciale, che inonda le architetture squadrate di una Tokyo irriconoscibile, e gli interni in cui si svolgono gli eventi.
Eppoi lo stile registico di Shinya: telecamera a mano, inquadrature frenetiche e traballanti e primissimi piani così sofferenti da trasmettere tutta l'angoscia e la fisicità dei personaggi direttamente allo sguardo stuprato dello spettatore.
Come detto, "Nightmare Detective" ambisce a trasferire tutta la sua carica cinetica da un ambito corporale ad uno mentale. E proprio seguendo le parole del regista ci riesce a metà: il vortice mentale in cui vengono risucchiati i personaggi, si unisce al consueto accartocciamento dei corpi, alla mutazione della carne verso un'ibridazione sempre diversa e sanguinolenta. Ancora po' di Cronenberg e già un po' di Lynch. Ma forse, semplicemente, siamo di fronte a un visionario del cinema Orientale, completamente sui generis e il cui stile è inconfondibile. Piaccia o no, prendere o lasciare. 
Già, perché, come sempre e come solo i grandi sanno fare, Tsukamoto piega il genere al suo stile e alla sua poetica.
"Nightmare Detective" come Thriller non vale un granché. Poca suspense, tanta confusione e poca interazione tra i personaggi.
O meglio, l'interazione tra i due protagonisti Kagenuma e Keiko, va oltre la forma e oltre le convenzioni cinematografiche. Va scorta lì, all'interno delle loro emozioni amplificate che interagiscono dolorosamente; risiede nella frenesia delle sequenze, in un climax di follia e disperazione, che lascia comunque spazio ad un epilogo più canonico e rassicurante. 
Un film di genere che si sforza di mantenere qualcosa del "genere", ma che può far storcere il naso a chi imprudentemente o, peggio, impudentemente, si aspetta uno Tsukamoto quadrato, via via che passano gli anni. 
C'è tanta merda nel cervello di questo regista e non smetterà mai di tirarla fuori e metterla su pellicola.

Habemus Judicium:
Bob Harris

giovedì 1 marzo 2018

"CASINO TOTALE" (1995) DI JEAN-CLAUDE IZZO

Immagine tratta da "L'odio" (1995) di Mathieu Kassovitz
« L'onore dei sopravvissuti è sopravvivere. Restare in piedi. »

Le banlieue nascevano negli anni '70, erano la risposta all'immigrazione di massa dalle ex colonie.
L'idea del governo era che ai migranti, alla ricerca di una El Dorado, bastasse una casa, una scuola e qualche negozio in cui poter comprare ogni cosa desiderata.
Le esplosioni di violenza? Arrivano ogni volta che una nuova generazione si rende conto che per realizzarsi non basta un documento, non conta essere nati in Francia e stare sotto la stessa bandiera.
Vi chiederete cosa centri tutto ciò con il romanzo noir "Casino Totale" di Jean-Claude Izzo.
La risposta sta sullo sfondo, nelle atmosfere che si respirano attorno alla classica indagine che si attende dal genere. Eh si, perché Izzo con il suo poliziotto, Fabio Montale, ci trasporta in una Marsiglia fatta di quartieri borghesi protetti dalla Compagnies Républicaines de Sécurité in tenuta antisommossa e di agglomerati urbani abitati da migranti, lo specchio delle contraddizioni di un paese.
La trama come spesso accade con i romanzi noir è quanto mai intricata (nessuno spoiler, tranquilli).
Un narratore, dapprima esterno, ci conduce da Ugo, ragazzo di Marsiglia di origini italiane, che torna nella sua città dopo una lunga assenza. La prima cosa da fare è incontrare Lole, una cara amica di infanzia, la seconda vendicare la morte del loro amico Manu, assassinato poco prima da una mano ignota. Trova il giusto contatto, un certo Batisti, uno di quelli che si è ripulito ma è sempre al corrente di tutti i movimenti della malavita locale. La dritta è di quelle da far accapponare la pelle: la morte di Manu è stata ordinata da Zucca, un potente mafioso locale legato con la camorra.
Ugo è determinato, segue le sue mosse, studia un piano e giunge a dama: uccide Zucca.
La sua fuga ha però i minuti contati, intercettato dalla polizia viene a sua volta ferito a morte.
Sul luogo del delitto arriva anche Fabio Montale. Ugo era suo amico, così come Manu, un'infanzia trascorsa assieme, complici nell'amicizia, nelle risate e nei piccoli crimini. La vita li ha separati, ed ora che è rimasto solo, il poliziotto avverte il debito del sopravvissuto.
"Casino totale" mescola i sapori mediterranei con l' hard boiled.
Ci troviamo dinnanzi ad un poliziotto disincantato, malinconico e solitario, uno di quelli che si inpatana nel dubbio perenne in qualche bar buio tra i fumi dell'alcol; ha un passato da scugnizzo eppure è un bonaccione colto; ed a conclusione di questo quadretto, ha pure successo con l'altro sesso, nonostante sembri incapace di tenere le donne accanto a sé.
Leggendo "Casino Totale" c'è la sensazione di sbattere il grugno sullo stereotipo dell'investigatore bello e maledetto che si compiace nel fallimento. Ed una certa canonicità la si può avvertire anche nella costruzione del giallo, un'immensità di tessere di un complesso mosaico che sembrano destinate ad una certosina collocazione. 
Seppur la presenza di questi limiti, la lettura rimane interessante ed avvincente, un noir ricco che, con il suo fascino decadente ed uno stile allo stesso tempo minimalista e solenne, spingerà molti lettori nell'approfondire la conoscenza di Montale negli altri due pezzi della Trilogia marsigliese ("Chourmo" e "Solea").
Per chi scrive il valore dell'opera è da rintracciarsi nello sfondo magistralmente reso da Izzo; è lì, in quel background politico-sociale; nelle figure marginali; negli scontri razziali; nella dicotomia legalità/legittimità; nel fascismo che serpeggia silenziosamente e si insinua in una mamma Marsiglia capace di accudire, allevare e tradire i suoi figli. "Casino Totale" è l'ennesima prova, sempre se ce ne sia il bisogno, di quanto il romanzo di genere sia uno spazio privilegiato per parlare della società che viviamo quotidianamente.

Habemus Judicium:
Ismail