giovedì 27 settembre 2018

"SLENDER MAN" (2018) di SYLVAIN WHITE

«Lui ti entra nella testa... come un virus! Alcuni li prende, altri li fa impazzire»
-Wren-

Alla quarta volta che le sventurate evocatrici dell'entità conosciuta come "Slender Man" vengono cinte da esso from behind ho iniziato a provare una forte angoscia. L'angoscia di un horror che piano piano costruisce, tramite sapienti tocchi di tensione orrorifica, un clima opprimente di disperazione e inquietudine. O forse un'inquietudine diversa, più profonda, legata a qualcosa che richiama un atavico terrore, da sempre insito nell'uomo: trovarsi di fronte all'ennesimo film idiota che pretende di fare impressione buttando lì, ad minchiam, un cliché dopo l'altro.
Ripeto, cliché ad minchiam!
E, quando sei lì a chiederti perché, ancora una volta, lo spavento colpisce dal lato B, e, ancora una volta, le vittime non se lo aspettano -maguardaunpó- si inerpica dentro di te la sensazione che si andrà avanti così, stancamente, fino alla fine del film.
Trama: 4 girl power annoiate una sera invocano Slender su YouTube; dopo un tot lui le inizia a steccare una ad una, fine.
Nato dal copia e incolla di matrice internettiana, la leggenda di Slender Man si va a iscrivere in quel genere di racconti fatti, appunto, per essere condivisi da una serie indefinita di internauti: le Creepypasta.
Come sapientemente ci spiegano durante la pellicola le protagoniste e i titoli di coda del film, la leggenda (reale) è stata arricchita negli anni da (falsi) found footage, veri e propri collage, e da una discreta vena artistica di alcuni utenti del web, che hanno realizzato nel tempo chilate di illustrazioni.
Il problema è che, tendenzialmente, un manichino in smoking, corredato da tentacoli optional, serve più ad attirare clientela in un negozio durante i saldi che ad ingenerare paura. Ma tant'è. In effetti era necessario lasciare il beneficio del dubbio a Sylvain White, regista del film, che la cosa, sapientemente rappresentata, potesse funzionare. 
Ma no, non funziona.
L'idea che le quattro amiche evochino lo spirito malvagio tramite una riproduzione di un video su YouTube non solo non convince, ma rafforza l'idea che, ad oggi, l'uso dei social nei film horror non è ancora un'opzione vincente ("Unfriended"). Fino a quando non si troverà la chiave di volta meglio ripiegare sul fascino retró del male, come d'altronde stanno facendo tutti da un bel pezzo, Jason Blum in primis (da "Insidious"[LINK] a "The Nun"). Tanto più se l'entità di turno si avvale comunque degli stilemi classici per terrorizzare: boschi, vecchie biblioteche, case buie e manicomi sono ben al centro del film.
Perciò risulta buffo assistere ad un paio di sequenze in cui Slender Man videochiama (con numero sconosciuto) la malcapitata di turno. Per non parlare poi della presenza di un personaggio che non appare mai durante il film se non per scambiarsi qualche messaggino in chat con la protagonista; funzionale a creare suspense e mistero, viene buttato in mezzo al film e, dopo aver monopolizzato l'atto centrale, viene liquidato in due parole senza che la sua presenza serva ad alcunché, se non confermare, dopo aver allungato il brodo, che Slenderman effettivamente vuole fare la pellaccia alle 4 sventurate, senza se e senza ma (per fortuna esistono ancora entità coerenti ed incorruttibili). 
Per il resto, beh, peccato, perché la trama qualche cosa di interessante lo proponeva e, tutto sommato, accogliamo a braccia aperte parte del finale. 
Ma come è diretto questo film? Già perché un horror anche solo godibile passa principalmente dalla sapiente mano del suo direttore. Tra buchi di sceneggiatura, dialoghi senza senso, contraddizioni e incoerenze varie, il film ha già un piede nella fossa. A ciò aggiungiamo una regia schizofrenica che provoca soltanto fastidio nell'alternare sequenze fotoniche e surrealiste (infarcite di frame subliminali) a rallenty dalla durata interminabile (Slender Man prendi me piuttosto!). Ci rimane qualche sequenza discreta qua e là (l'ombra di Slender Man, la presenza dell'entità solo percepita nel vento che passa attraverso gli alberi). 
Ce la faremo mica bastare? 
A proposito...qualcuno sa a che cosa cazzo serve il cancello in mezzo al bosco?


Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 24 settembre 2018

SPECIALE R&R (PARTE II): DAI RUGGENTI ANNI '20 A INGMAR BERGMAN

⟸Parte I                         Parte III⇒

Siamo partiti dalla fine, dal "Revenge" [LINK] di Coralie Fargeat che attualmente imperversa nelle nostre sale; ora però bisogna fare un balzo all'indietro, muoverci tra le pieghe della storia ed immergersi in una Hollywood in bianco e nero che soccombe agli scandali ed alle bollette. Sembra strano ma è solo volgendo lo sguardo così lontano che si può capire la nascita e l'evoluzione del filone cinematografico più ambiguo e discusso di sempre.
***
Siamo nei 60s, anni difficili per Hollywood. 
Il peplum "Cleopatra" sta mandando con il culo per terra un gigante come la Fox: scenografie colossali e costumi sfarzosi che aumentano di giorno in giorno. La Taylor che fa le bizze. 44 milioni di dollari spesi contro i 2 inizialmente previsti. 6 ore di film, ridotte a 4 contro il volere del regista Joseph Leo Mankiewicz. Ci vogliono un paio d'anni per rientrare della spesa ed iniziare a guadagnarci qualcosa, e ciò nonostante che il film sia un successo planetario clamoroso. E se alla Fox va di schifo non è che agli altri stiano meglio.
Oltre l'aspetto economico c'è una questione squisitamente cinematografica che trae origine da una tediosa storia, risalente ai ruggenti anni del proibizionismo, fatta di giudici, codici e morti.
Per prima arriva la Corte Suprema federale che nel 1915 esclude il cinema dalle tutele del I Emendamento. Ah gli States, la culla della libertà. Poi, a complicar le cose, giungono omicidi e scandali.
Il 5 settembre del 1921, durante una festicciola messa su dalla star delle comicità americana, il pingue Roscoe Arbuckle, muore la giovane attrice Virginia Rappe. Forse la causa è un mix letale di alcolici e stupefacenti. Forse la ragazza ha subito una violenza carnale. E' certo, se si considerano valide le parole del vice-medico legale di San Francisco, Micheal Brown, che ci sia stata un'attività di copertura con tanto di distruzione di prove. 
L'indiziato principale è Roscoe, monta lo scandalo e gli Yankee reagiscono a modo loro: alcuni inneggiano alla tanto cara pena di morte, i più estrosi decidono di impallinare tutti gli schermi su cui si osa proiettare le comiche di Roscoe.
I legali dell'attore in un primo momento si battono affinché l'accusa di omicidio volontario venga declassato a preterintenzionale. Poi, con l'inizio del processo, cambiano versione: Arbuckle non ha fatto nulla, anzi se guardate bene la storia è quella Virginia ad essere stata una poco di buono, una che andava con tutti. Se un omicidio non bastava, è il contorno a rendere ancor più disgustosi gli eventi.
La giustizia condanna in un primo momento Roscoe per omicidio e violenza carnale, poi si rimangia tutto e lo assolve. Seppure tornato ad essere un uomo libero, per Roscoe è finita: le folle lo odiano, la Paramount ha mandato al macero tutti i suoi film non ancora distribuiti e nessuna casa produttrice lo vuole. Arbuckle cade nell'alcolismo e, pochi anni, dopo muore d'infarto.
Poco dopo Virginia, è il febbraio del 1922, la morte bussa alla schiena dell'attore/regista William Desmond Taylor sotto forma di una pallottola. Seguono sospetti e chiacchiericci su numerose star dell'epoca. Anche qui nessun colpevole accertato. Ancora qualche mese e muore un'altra stella di Hollywood: Wallace Reid; la causa un amore troppo stretto con la morfina. 
Droga, morti sospette ed omicidi. 
Gli scandali si sa, richiedono delle risposte, ed i principali studi cinematografici decidono di ripulirsi la coscienza stilando dei regolamenti interni a cui attenersi; poi fanno di più, aderiscono volontariamente al Codice Haysinnovativo strumento che indica la strada da seguire per girare un film: niente sesso, nessun accenno a malattie veneree o devianze sessuali, niente omosessualità, niente alcol, droghe e violenza. Via dai cinema a stelle e strisce tutto ciò che è considerato immorale. 
I registi avrebbero dovuto ingegnarsi per non essere puniti dalla becera mentalità puritana.
Ecco cari lettori, vi chiederete il perché di questo salto indietro nel tempo. 
La risposta è semplice e per capirla bisogna fare nuovamente un passo avanti e ritornare ai tempi di "Cleopatra". Si lo sappiamo, la nostra è una narrazione fatta di semplificazioni e salti temporali che faranno storcere il naso a chi ne sa più di noi; ma non possiamo tediare ulteriormente quei quattro lettori che ci leggono.
Se il cinema americano, nel secondo dopoguerra, si ritrova imbrigliato nei legacci dell'autocensura e cade in un vortice di schemi ripetuti, quello europeo si rinnova profondamente. La Francia esporta quella meravigliosa creatura che è la Nouvelle Vague. L'Italia propone la sua commedia ed il neorealismo. Poi gente come Leone, Damiani, e Corbucci, liberano il western dalla retorica americana: al posto di eroi senza macchia trovavano spazio reietti che fanno della vendetta e della rivoluzione un ideale irriducibile. La corsa verso il west diventa una fotografia lurida, cadenzata da inimmaginabili esplosioni di violenza.
Il cinema del vecchio continente pulsa di vitalità e fa una concorrenza spietata. Poi ci si mette di mezzo anche la televisione che entra prepotentemente nelle case degli americani e sta per divenire la prima forma di entertainment.
Bisogna fare qualcosa per salvare Hollywood. 
Bisogna rinnovarsi.  
Arrivano opere che segnano il cambio di passo. 
"Il Laureato" che porta alla fama un Dustin Hoffmann che rappresenta un'intera generazione. "Gangster Story", firmato da quella vecchia volpe di Arthur Penn, che propone la violenza della società americana. E poi lui, "Easy Rider" [LINK], così carico della controcultura della contestazione, che ci lascia con un grido di rabbia bloccato nella gola e segna l'epilogo del sogno americano.
Poi, per mezzo di una noiosissima questione legale di cui non c'importa na sega, i produttori mandano a fanculo Hayes ed il suo codice. 
Hollywood finalmente osa: dà fiducia ad un'allegra combriccola di giovani registi/attori che sono cresciuti con il cinema europeo; tirano su, con pochi spicci, opere che fanno irrompere sulla scena la violenza, il sesso, la guerra e la demistificazione del mito americano. Nasce così il cinema d'autore americano, un' un'atmosfera creativa che sarà sintentizzata nel nome di Nuova Hollywood. Roba perfetta per il politicizzato pubblico giovanile americano. 
E' in questo clima che inizierà a muoversi il Rape and Revenge, sguazzando tra rednecks e tabù da sfondare, un percorso che asseta i palati più truculenti e, sopratutto, vuole mostrare il volto più disturbante della società occidentale. 
E' Curioso poi che il canovaccio dello stupro/vendetta provenga da un film del 1960 firmato da quel genio di Ingmar Bergman...
***
"La fontana della vergine-Jungfrukällan"(1960) di Ingmar Bergman:
«Ma tu vedi, Dio! Tu vedi, vedi la morte di un innocente, vedi la mia vendetta e non l'hai impedito. Io non ti capisco! Eppure adesso chiedo il tuo perdono».
-Töre-

Siamo nel 1960 ed il medioevo torna a splendere sulla pellicola in B/N.
Bergman per questi lidi ci era già passato tre anni prima con "Il Settimo Sigillo", film geniale che è molto di più di un uomo che si gioca le sue ultime chances di vita in una partita a scacchi con la morte. 
Ma torniamo a noi. E' il 1960 ed è il turno de "La fontana della vergine", la riproposizione di una leggenda del XIV secolo che ci conduce in una Svezia ancora in bilico tra paganesimo e cristianesimo.
Töre (Max Von Sydow), un ricco proprietario terriero, insiste affinché la figlia Karin porti dei ceri alla Madonna, come da tradizione. La giovane, accompagnata dalla Ingeri, serva pagana e disonorata, si mette in viaggio con il suo cavallo, per attraversare la foresta e giungere alla chiesa. Qui Karin incontra dei pastori che la irretiscono, violentano ed infine uccidono. Ingeri non ha potuto né voluto far nulla, bloccata dalla paura e dall'invidia che prova verso la giovane ragazza. Gli assassini, la sera, giungono nella casa del padre che scoprirà l'accaduto e mediterà vendetta.
Il dado era tratto. O meglio lo sarebbe stato nei primi anni '70. Wes Craven prenderà Karin, Töre e tutti gli altri, li porterà nella società dei giovani contestatori e dell'emancipazione femminile, e darà alla luce "L'ultima casa a sinistra": sarà il primo dei tanti figli, più o meno legittimi, dell'opera di Bergman.
Nella "Fontana della Vergine" c'è il plot del R&R. Non solo, anche la scelta stilistica fatta dal regista svedese è fondamentale: le violenze avvengono con un realismo impensabile per l'epoca, una potenza espressionista che ci piazza davanti un urlo di dolore disumano davanti agli occhi.
"La fontana della vergine", così come i futuri figliocci, è basico, lineare e brutale.
Poi però, la Vergine, vive anche di una profondità tipicamente bergmaniana, un susseguirsi di simboli scuri ed angoscianti in cui riecheggiano alcuni temi della sua narrazione:il rapporto tra l'Uomo ed un Dio lontano ed imperscrutabile, colpevolmente silenzioso dinnanzi al mistero del male; il solenne Töre che si purifica con un rito pagano, si trasforma in un giudice supremo ed aggiunge al finale quella crudeltà che non ti aspetti. Nel proseguo della sua filmografia, il male diverrà un mistero insondabile e si trasformerà in un ponte che condurrà Bergman verso l'assenza/abbandono di Dio. Ma questa è tutta un'altra storia [Continua...].

Bob Ft. Ismail

venerdì 7 settembre 2018

SPECIALE R&R (PARTE I): IL"REVENGE" 3.0

Dove è il bene?
Chi è il cattivo?
Negli anni '70 nasceva il rape and revenge, (forse) il sottogenere più ambiguo e discusso di sempre, che portò nelle sale americane quei bassifondi fatti di banditi e rednecks pronti a violare proprietà private, corpi e tabù.
Le sue trame semplici, quasi ridotte all'osso, hanno uno schema fisso: a) il rapimento di una ragazza da parte di un branco che la violenta; b) vendetta (della ragazza o di qualche suo caro nel caso in cui sia morta) contro gli stupratori. 
Roba da cinema d'exploitation, buona giusta per sollazzare i palati degli spettatori più truculenti. Forse, non solo.
Il R&R, in parte fuori fuoco ed esagerato, mostrava una nuova libertà espressiva nel cinema americano capace di osare e mostrare volti della società disturbanti come non mai; recepiva le esplosioni di violenza, i volti luridi e le fotografie sporche che avevano squarciato il cinema europeo.
Con questo post inauguriamo una rassegna sul genere partendo dalla fine, dal "Revenge" (2017) di Coralie Fargeat arrivato da poche ore nelle sale italiane.
***
TramaJen è la giovane amante di Richard, un uomo di successo che la porta con sé per un weekend in villa in mezzo al deserto. Le cose prendono una piega inattesa quando due amici di Richard, Stan e Dimitri, si presentano con un paio di giorni d'anticipo per la battuta di caccia che avevano organizzato. Il gruppo trascorre la sera insieme e Stan è profondamente eccitato dalla ragazza che lo provoca apertamente. Il giorno dopo, in assenza di Richard, Stan violenta Jen mentre Dimitri non fa niente per impedirlo. Al ritorno di Richard lei vuole giustizia ma lui le offre solo un risarcimento e quando la ragazza minaccia di raccontare della loro tresca alla moglie, lui non ci vede più e la getta giù da un canyon.

1) Quando il R&R è stiloso e vacuo:
Uscito a febbraio in Francia e a maggio in USA (diventando subito campione di incassi), con colpevole ritardo arriva questa versione 3.0 del R&R.
L'uscita del film è stata accompagnato dall'ormai consueta e roboante reclamizzazione sui social; per l'occasione si è scelto di far parlare i commenti, in aperta contrapposizione al film, di alcuni utenti (veri, fittizi o prezzolati che siano), sparati a tutto schermo. 
Andando a memoria fotografica, roba del tipo: «non potranno mai fare un film in cui una tipa è cool quanto un uomo» , oppure: «quando succedono questi episodi è perché la ragazza in questione se l'è cercata». Il tutto inframezzato in un trailer testosteronico, con la classica schitarrata ganza in sottofondo e titolo in ultramega neon.
È difficile stabilire quanto un'operazione di marketing di tale portata possa gonfiare l'hype generale, essendo ormai abituati ad ogni tipo di campagna promozionale più o meno aggressiva, ma tant'è.
Considerando che l'ultimo prodotto del genere R&R risale al 2012, ed è, esattamente, il remake di "Cane di paglia", c'era grande curiosità di capire in che modo potesse venire rappresentata una tematica del genere nell'epoca dei social. Difatti il remake sopracitato, così come quelli di "The last house on the left" e di "I spit on your grave" non si possono considerare una ventata di aria fresca e rinnovamento nel genere, essendo vincolati ad un soggetto non originale, ricalcato sia nel mood che nello stile. Tutto questo per dire che "Revenge" era, sulla carta, praticamente libero di fare il cazzo che voleva.
E lo ha fatto.
A visione ultimata si può dire che il film crea una netta cesura nel filone cinematografico in questione, adottando uno stile e un tono tutto suo, che ha ben altre connessioni e referenze rispetto ai predecessori.
Questo film è profondamente tarantiniano: non per la scorpacciata di violenza, anzi, ma per una questione di delirio egotico registico. 
Spieghiamo meglio. Se questo prodotto rientra nella categoria dei R&R, bisogna però dire che adotta uno stile assai pulp nella caratterizzazione dei personaggi: Jan (l'italianissima Matilda Lutz) è il prototipo della cheerleader in trasferta, sexy e stupida; Richard è il riccone maschilista, bullo e macho, convinto che il denaro possa comprare tutto e incapace di accettare qualsiasi intoppo; Stan e Dimitri gli altri due personaggi maschi? 
Stan ha uno sguardo da maniaco e lo sarà effettivamente nella prima mezz'ora, stante il ruolo di coniglio bagnato della seconda (forse una prova del fatto che il regista sia donna? Cioè una rappresentazione del porco stupratore come di un vile codardo capace solo di prendersela con una preda indifesa), Dimitri è semplicemente un ciccione rincoglionito.
E la violenza è Tarantiniana? Non proprio. 
Il film di Coralie Fargeat tipizza i personaggi, abbonda con il sangue ed esaspera le esplosioni di brutalità, ma lo fa con uno stile iperrealista, più vicino al Cronenberg di "A history of violence". Niente è trascurato, tutto è sotto la lente di ingrandimento della macchina da presa: che sia una goccia di sangue o di sudore, il torsolo bacato di una mela o il movimento di un insetto minuscolo.
Allora perché definire questa pellicola Tarantiniana? 
Semplicemente perché la violenza è strumentalizzata e piegata a un totale esercizio di stile registico. Diciamo che il film, non tanto materialmente, quanto CONCETTUALMENTE è Tarantiniano.  Dal punto di vista tecnico, nel lungo piano sequenza finale girato in steady cam, in cui la protagonista è a caccia di Richard, non si può non scorgere un parallelismo con alcune sequenze di "Pulp Fiction"; è evidente l'abuso di stile nella gran parte delle inquadrature, che appaiono molto ricercate, esasperate e, a tratti, sovrabbondanti (il primo piano insistito di Richard in moto nel deserto di notte; gli accennati dettagli iperrealisti su oggetti e animali; la doppia ripresa a 360 sulla protagonista). Lezione di regia che, peraltro, toppa in modo clamoroso nel raccordare alcune scene e nel gestire le ellissi temporali. Difficile poi non storcere il naso di fronte ad alcune soluzioni narrative poco realistiche e incongrue. La voglia di impressionare lo spettatore è tanta, ma gli scivoloni sono continui.
Tornando al discorso di prima, allo stesso modo si deve considerare Tarantiniana la presa di coscienza e la rinnovata risolutezza di Jen, che avviene attraverso un battesimo "fisico" all'interno di una grotta: siamo lontani dal realismo dei classici R&R, Jen non è soltanto un'eroina metaforica, si erge esplicitamente a icona pop (Mexican beer), una Lady kick-ass cazzuta e (inverosimilmente) armata fino ai denti. 
A tal proposito appare chiaro che qualsiasi rimando sociale/sociologico tipico dei R&R qui viene completamente sputtanato: Jen è presentata come la tipica ragazza vuota e frivola che usa e abusa del suo corpo per fare impazzire gli uomini, senza preoccuparsi delle eventuali conseguenze; un personaggio senza il minimo spessore psicologico (se non lo sguardo ingenuo e puro della Lutz) e spinto a forza, nella prima parte del film, verso lo stereotipo più becero
Jen istiga sessualmente e consapevolmente un multimilionario fedifrago, ma, non paga, fa lo stesso con i suoi due amici, ai suoi occhi perfettamente sconosciuti; come può, perciò, un film sensibilizzare alla violenza sulle donne quando si addobba di ogni luogo comune che, agendo in direzione contraria, sminuisca la causa?
"Revenge" è un film di evidente serie B che gode di un'ambientazione desertica suggestiva, più che azzeccata e inusuale nella tradizione dei Rape and revenge, e di una certosina realizzazione delle scene più gore. Per il resto c'è un po' di stile a buon mercato che, se ricondotto (appunto) ad una produzione di seconda categoria, dà un qualcosa in più all'intrattenimento, ma se portato in pompa magna, con tanto di fanfare e trombe, risulta essere pretenziosità non giustificata.
Insomma non siamo di fronte a un'opera autoriale o a un film tematico, ma semplicemente a un'ora e 50 di intrattenimento action con qualche asso nella manica, ma tutto è già troppo troppo visto. 
E per inciso: quando la smetteranno di fare trailer in grado di spoilerare tutto il film? 
Aridatece i trailer ingannevoli.

Habemus Judicium:
Bob Harris





2) "Revenge": ossia come una ragazza pon-pon può trasformarsi in Tomb Raider
Prima il successo in Francia, poi i botteghini sbancati negli States, finalmente "Revenge" arriva, seppur con un annetto di ritardo, nelle sale italiane; e diciamolo, nell'epoca dello streaming in cui tutto è così facilmente reperibile, è quasi paradossale parlare di questo film come di una vera e propria novità. Detto dei ritardi di una distribuzione non così attenta e della martellante campagna pubblicitaria, andiamo a vedere cosa è (e non è) questo R&R 3.0.
Riprendere un filone cinematografico che tanto ha fatto discutere negli anni '70 e che è stato oggetto negli ultimi anni di poche opere di rinnovamento (penso a quel frullato di generi che è il "Kill Bill" di Tarantino) e tante ciofeche (i remake dei classici), è un'operazione che non può che destare interesse.
Film come "L'ultima casa a sinistra" o "Non violentate Jennifer" hanno avuto il coraggio di disturbare il pubblico con uno smaccato realismo che ha comportato una presa di coscienza, tanto involontaria quanto dolorosa, allo spettatore. In quei film a disturbare non è tanto la violenza, che aveva sì una carica inimmaginabile per l'epoca, quanto la portata sociale che la messa in scena racchiudeva. La voglia di paragonarsi con questi offre spunti interessanti quindi, ma anche molti pericoli.
Mettiamo subito le cose in chiaro: "Revenge" ricalca il solito canovaccio stupro/vendetta, lo infarcisce di un'estetica nuova (che molto deve al cinema pulp) ed assurge allo stato di B-Movie. Niente di più, niente di meno.
I personaggi sono tutti stereotipati; lo è Jen, perfetta ragazza pon-pon da college americano, un corpo sexy come non mai ed una innata propensione all'apparire. Lo stesso dicasi per il compagno Richard, bello e ricco da far schifo, che crede di poter comprare tutto e tutti con i soldi. O per lo stupratore Stan, viscido e forte solo con i deboli. I loro caratteri sono bidimensionali e tagliati con l'accetta.
Nonostante ciò questo "Revenge" ha una sua anima: va dato atto alla Fargeat di seguire con forza e dedizione la propria strada.
C'è innanzitutto la ferma volontà di riappropriarsi del R&R e mettere al centro una supereroina in grado di prendersi tutta la scena e stupire. La vediamo fuggire dai suoi aguzzini, essere spinta in un canyon e ritrovarsi con un buco in pancia più grosso di quello che mise alle corde il Mr. Orange delle Iene. Ma lei resuscita cazzutamente, si trasforma in una novella Tomb Raider, meno prorompente, dai lineamenti dolci e certamente più interessante, che ha un solo obiettivo: impallinare quelle merde di uomini che le hanno fatto tutto ciò. E lo ammetto, la rabbia furente di Jen esercita un certo fascino.
"Revenge" è un film di contrasti. Lo è nei personaggi come si è detto, ma lo è anche nelle scelte tecniche: la fotografia è sempre alla ricerca di colori sparati; la colonna sonora, vero valore aggiunto del film, accompagna ottimamente Jen verso la fuga dalla casa con netti cambi di toni; la regia così iperrealista, indugia sul particolare putrido, si perde nei simboli e si movimenta sempre di più. E va detto, la Fargeat esagera: ci sono passaggi sovrabbondanti, ridondanti ed ai limiti del kitsch (si veda l'accoppiata uomo-animale in cui la regista si fa novella Eisenstein); si è evidentemente dimenticata l'antico adagio Less is more.
Mostra il fianco ma riparte e recupera nell'ambientazione, così inusuale nel genere: una maxi villa da esibizionista, immersa nel deserto; davvero suggestiva la scelta di questo spazio sconfinato fatto di una natura arcigna pronta a collassare sull'innocente che fugge.
E poi ovviamente c'è il contenuto, il messaggio che ci vuole mandare, funzione cardine dei nobili predecessori. Coralie Fargeat prova lo stesso percorso, questo è innegabile.
Nella prima parte del film ci dà in pasto il corpo femminile di Jen, metafora di come questo sia visto all'interno della nostra società (e nell'ambiente cinematografico). Poi mette in bocca a Richard frasi in cui riecheggiano quelle di "Non Violentate Jennifer"; lo stupro, nella sua mente distorta, diviene una semplice cazzata, risarcibile con il denaro e giustificabile: sei così dannatamente bellaè difficile resisterti.
Ecco qui sta l'essenza del film, peccato però che il messaggio appaia in parte annacquato.
Certo paga lo scotto di un percorso tracciato già 40 anni fa; su questo però non ci si può far niente. Ma non è il solo problema. "Revenge" paga la propensione violenta e gore, che se da un lato appare davvero ben eseguita, dall'altro sembra essere troppo fine a sé stessa: si è lontani anni luce dal finale grottesco e femminista di "Non Violentate Jennifer", pietra angolare del genere.
"Revenge" (forse) crede di essere un film rivoluzionario ma non lo è.
E' intrattenimento portato avanti degnamente, funziona e dà nuova veste ad un sottogenere che, negli ultimi anni, ha dovuto sopportare una lunga sequela di remake che si sono limitati a copiare (e male) lo stile degli anni '70.
Non è molto, ma neanche così poco [Continua...].

Habemus Judicium:
Ismail

lunedì 3 settembre 2018

"PASOLINI" (2014) DI ABEL FERRARA

Caro Abel non deve essere stato facile immaginare questa pellicola su Pasolini. La sua è una figura che sfugge da ogni categoria.
Poeta, romanziere, dialoghista, sceneggiatore, attore, critico o regista?
Pasolini la fece facile in quell'intervista rilasciata a Philippe Bouvard poche ore prima della morte: «Nel passaporto c’è scritto semplicemente scrittore».
E dire che in questi tempi il suo pensiero è rimbalzato sulla labbra di persone che difficilmente immagino con un suo libro in mano o un suo film nel lettore dvd.
Valle a capire le cose.
***
Mettiamo le cose in chiaro, "Pasolini" non è un biopic. O almeno non ha quel canovaccio, dal retrogusto televisivo, spesso seguito per questo genere: Ferrara pone l'attenzione sulle ultime ore di Pasolini sfuggendo dalla ricostruzione didascalica e cronologica di volti, fatti e pensieri
Si parte con l'intervista rilasciata a Bouvard per Antenne 2 a Parigi, famosa per il discorso sullo scandalizzare. Sullo sfondo intravvediamo "Salò o le 120 giornate di Sodoma"[LINK] ancora in fase di montaggio, il film che di lì a poco sarebbe divenuto il chiodo fisso della censura italiana.
Pasolini torna a Roma.
Ferrara ricompone i momenti familiari, nella casa dell'Eur, con la madre e la cugina; assistiamo alla visita di Laura Betti, appena tornata dalla Croazia dove ha preso parte alle riprese di "Vizi privati, pubbliche virtù", lo scandalo di Cannes '76 che avrebbe portato in aula di tribunale, per il reato di oscenità, il regista e lo sceneggiatore; riviviamo il siamo tutti in pericolo detto a Furio Colombo, simbolo di quella disillusione verso una società non più composta da  esseri umani, ma da strane macchine che sbattono l’una contro l’altra; accompagniamo poi lo scrittore a cena, nella sua solita osteria, in una Roma attraversata dalla violenza politica.
Ma il "Pasolini" di Ferrara non è una cronaca delle ultime 24 ore di vita di Pasolini. Il regista crea delle istantanee che sovraccarica (forse troppo, forse no) di significati, ed a queste accosta momenti che spezzano la realtà: ci ritroviamo a tu per tu con le ricostruzioni cinematografiche di "Petrolio", l'ultimo romanzo incompiuto, e di "Porno Teo Kolossal", il seguito ideale di Salò che rimarrà solo su carta; e l'effetto è straniante a tal punto che può far anche storcere il naso.
Il "Pasolini" di Ferrara è un progetto coraggioso che non ricerca una verità avventurandosi nelle tesi sulla morte dello scrittore bolognese; il suo obiettivo è dare immagine a ciò che non l'aveva e lo fa con un approccio volutamente frammentario ed intellettuale, trasmettendo quel senso di disillusione che si respirava all'interno delle ultime opere/parole di Pasolini. Ed è questa la vera forza/debolezza del film.
Ci lascia attoniti dinnanzi ad un corpo massacrato sulla sabbia del litorale romano. Una morte semplicistica di un uomo abbandonato, un delitto, dirà Moravia, i cui «mandanti [...] sono una legione, in pratica l'intera società italiana».
La pellicola crea una suggestione, sembra richiamare le parole spese da Pasolini per "La scomparsa di Majorana" di Leonardo Sciascia e su cui, guarda caso, la telecamera indugia ad inizio film: «È bello, è bello il Majorana di Sciascia. È bello perché ha visto il mistero ma non ce lo dice, hai capito? C'è una ragione per quella scomparsa. Ma lui sa che in questi casi un'indagine non rivela mai niente. È un libro bello proprio perché non è una indagine, ma la contemplazione di una cosa che non si potrà mai chiarire».
"Pasolini" è un film imperfetto.
E' volutamente poco cinematografico.
E' il più sentito omaggio allo Scrittore.

S.V. 
Ismail