giovedì 30 giugno 2011

"LONDON BOULEVARD" (2010): UN FILM DAL GUSTO BRIT DESTINATO A DIVENIRE UN CULT

TramaMitchell si è fatto tre anni in bottega per aggressione aggravata. Uscito di prigione viene ricontattato da un criminale da strapazzo, quel Coglione di Billy, ma lui proprio non ha intenzione di rientrare nel giro. L'ancora di salvezza potrebbe essere l'incarico ad egli affidato di proteggere una giovane attrice (interpretata da Keira Knightley) decisa a ritirarsi dal mondo del cinema. Mitchell dovrà fare i conti col boss Gant, per nulla rassegnato alla sua scelta.

Devo confessarvelo: amo tutto ciò che riguarda la cultura british e gioisco consapevolmente del fatto che il cinema contemporaneo dipenda dagli artisti britannici. Basti prestare attenzione alle nazionalità degli attori considerati, ad oggi, più talentuosi, per capire che abbiamo subito, e stiamo subendo, un ondata di dominio britannicaE diciamolo è una bella novità dopo decenni di egemonia a stelle e strisce.
Di questa schiera fa parte il protagonista della pellicola che vado a recensire: parlo di Colin Farrell e del film "London Boulevard". 
Il film è diretto dallo sceneggiatore di "The Departed", William Monahan, alla sua prima regia ed il titolo cita il "Sunset Boulevard" del genio Billy Wilder. Non solo, ne ripercorre anche il  plot.
Le linee guida della trama si ricollegano al tema portante del percorso interiore ed esistenziale di Mitchell, terribilmente simile al personaggio interpretato dallo stesso Farrell in "In Bruges". Trovata l'analogia di caratteri, se ne trovano molte per i temi e le dinamiche del film che strizzano l'occhio a opere come "Carlito's Way". Insomma stiamo sempre parlando della storia del criminale che intende lasciare il giro, ma che dovrà scontrarsi con la realtà dei fatti: un criminale lo è per sempre e non avrà mai nessuna possibilità di smettere di esserlo. 
Di più, "London Boulevard" sembra ricalcare pedissequamente la trama di "The Pusher" quando, nello scontro con una malavita rappresentata dal boss di turno da cui prima tentava di fuggire, il protagonista si renderà conto che non solo dovrà affrontare faccia a faccia i suoi ostacoli, ma che raggiungerà un limite da cui non potrà più tornare indietro. Niente mezze misure: l'XXXX di Daniel Craig, così come il Mitchell di Farrell, dovranno scegliere se soccombere al potere dominante o assurgere essi stessi al rango di tale potere.
E tutto si muove con sullo sfondo una Londra che sa essere  degradata, buia, turpe e grigia come i quartieri più popolari, patinata e fashion come i locali frequentati dall'attrice. Un plauso alla fotografia variopinta che rende al meglio tutto ciò.
Lo stesso possiamo dirlo per le musiche indie-rock, come da migliore tradizione, la cui composizione è stata affidata a Sergio Pizzorno dei Kasabian. Piacevoli da ascoltare, danno una marcia in più al film e forniscono un gran contributo per creare quel clima brit tanto ricercato. La stessa scelta degli attori serve tale causa: a partire dal fatto che sono tutti di origine britannica.  
Colin Farrell rispecchia a pieno il carattere d'oltremanica ed è convincente nella parte assegnatagli. Ma soprattutto dimostra di avere le fisique du role per interpretare un criminale tormentato e redento. Ma in fondo, per chi avesse visto "In Bruges", non c'erano dubbi. Un bel dittico interpretativo, complimenti a lui, che si è saputo riprendere dal ruolo patetico dell' "Alexander" di Oliver Stone
Di Keira Kinghtley che dire? 
Non gradisco l'attrice ed in questo film risulta totalmente insipida. Anche lo script non facilita la sua prova e la costringe a defilarsi da un ruolo potenzialmente di spessore; in conclusione regge la parte, seppur non nel migliore dei modi, al collega Farrell.
Menzione d'onore a Ray Winstone nella parte di un memorabile Gant: personaggio sadico e brillante, logorroico ed ossessivo, omosessuale e spietato. Ben connotato e stilisticamente originale, cita il Jules di "Pulp Fiction" nei suoi monologhi (qui sotto forma di aneddoto) che precedono un omicidio.
"London Boulevard" è una divertente e piacevole gangster story, che non rinuncia ad una fase introspettiva da cinema d'autore, esteticamente accattivante e, nel complesso, ben recitato e ben diretto. 
Un cult assicurato. 
Godetevelo.

Habemus Judicium:


Bob Harris

giovedì 23 giugno 2011

"SAW" E I SUOI FRATELLI: CHE LA MATTANZA ABBIA INIZIO!


In principio fu Tobe Hooper con "Non Aprite Quella Porta".
Seguirono film italianissimi partoriti dalle perverse menti dei vari Deodato, Lenzi e D'Amato (tanto per ricordarne uno a caso è d'obbligo citare "Cannibal Holocaust"[LINK]).
Poi tante piccole sottoproduzioni, specie nipponiche.
Arriviamo al nuovo millennio e assistiamo alla nascita degli "Hostel" (1 e 2) "Old Boy" e, soprattutto lui: "Saw".
Di cosa parlo? Mi riferisco a un genere cinematografico ben definito e, ormai, di elevata tiratura.
Un tempo si usava definirlo splatter. Il termine si riferiva, e ancora si riferisce, a un certo tipo di cinema, contraddistinto dall'uso massiccio di effetti speciali sanguinolenti e disgustosi, allo scopo di mostrare il più possibile mutilazioni e carneficine varie.
La particolarità del genere consiste nel fatto che tali devastazioni fisiche non sono funzionali allo svolgimento della trama, ma, anzi, sono l'oggetto del film, vero fulcro del potenziale di intrattenimento della pellicola. In fondo se prendete qualsiasi dei film italiani splatter anni 70', veri e propri paradigmi del genere e fonte di ispirazione anche per registi hollywoodiani (vedi Tarantino e Rodriguez), sarà ben chiaro che tali opere non presentano alcuna trama che raggiunga anche solo lontanamente la soglia della decenza (intesa dal punto di vista artistico, la decenza morale non è mai stata presa neanche in considerazione).
L'obiettivo della macchina da presa indugia morbosamente sui  particolari raccapriccianti, ma non in modo sadico e perverso, pare quasi un innocente scrutare ciò che da sempre è stato considerato tabù in un cinema fino allora patinato e discreto. Così scene orripilanti si presentano allo spettatore del tutto spoglie da connessioni psicologiche. L'orrore diviene perciò reazione alla visione di corpi straziati e deformati. Come dire non è il come, ma il cosa a crearlo.
Negli anni successivi si sviluppa una diversa componente del cinema splatter: il sadismo. Punto di svolta in tal senso (escludendo "Old Boy", che rappresenta solo un gustoso antipasto) è rappresentato da "Hostel". Il film, diretto da Eli Roth (non a caso grande appassionato degli splatter italiani anni 70/80') che, grazie al suo straordinario successo di pubblico, porta alla nascita di una definizione più precisa, di un sottogenere dello splatter: il torture porn
A dire il vero già per "Non Aprite quella Porta" si può parlare di torture porn, dal momento che è la storia di una famiglia cannibale, che si nutre di malcapitati procacciati dal mostruoso e sfigurato figlio Leatherface, il quale si fa largo urlando e brandendo una motosega, cosa profondamente sadica.
L'elemento del genere, come detto, connotativo è il sadismo, per cui non è più l'oggetto macabro a inorridire e spiazzare lo spettatore, ma il modo in cui si sviluppano certe situazioni; diviene fondamentale la componente psicologica. Lo spettatore, facilitato dalla costruzione, negli anni, di personaggi via via sempre più complessi, si immedesima completamente in essi, subendo anch'egli la violenza  a cui è sottoposto il personaggio.
Il modo in cui tale violenza si articola decreterà il successo di un torture porn. Più si giocherà con le  speranze e le aspettative del pubblico, più si otterrà la sua destabilizzazione psicologica, accentuata dal fatto che, solitamente, in questi film non vi è catarsi finale, niente lieto fine; dinnanzi a questo Gran Guignol 2.0, allo spettatore rimane solo l'angoscia ed il senso di ingiustizia
Se "Hostel" rappresenta la nascita del genere, il suo cavallo di battaglia è rappresentato da "Saw", saga longeva e alquanto fruttuosa, giunta al settimo (e ultimo) capitolo.
La trama è semplice: un maniaco, che si fa chiamare Jigsaw, rapisce delle persone apparentemente in modo casuale, sottoponendole poi a machiavelliche torture; lo scopo di tutto ciò è far capire ai malcapitati l'importanza di vivere. Quasi mai però la vittima riesce infine a salvarsi, data l'estrema difficoltà delle prove; quand'anche ci riesca il prezzo sono terribili menomazioni.
Proprio in questo sta la novità e l'ingrediente vincente di "Saw": mettere il personaggio di turno, e quindi lo spettatore, di fronte a una dolorosa scelta, che di fatto lo porterà ad auto-infliggersi il male che subirà, mostrato in tutta la sua crudezza, senza escludere il minimo particolare.
Colpisce poi la fantasia perversa che mostrano gli autori nella creazione delle trappole.
Nell'arco della saga se ne contano a decine, tutte ben architettate, spesso geniali, specie per la loro caratteristica di rispondere alla legge del contrappasso. Così per il razzista la punizione sarà quella di strapparsi via la pelle, dimostrando che sotto di essa siamo tutti uguali. Oppure un dirigente di una grande compagnia assicurativa, abituato a decretare la sentenza di vita o di morte dei propri clienti, dovrà decidere quali dei suoi collaboratori salvare e quali lasciare perire in una terribile giostra di roulette russa.
Altro elemento ben riuscito è la sceneggiatura.
Per quasi tutta la serie si mantiene un alto livello di suspense nell'intreccio narrativo, con continui colpi di scena e rivelazioni.
Il tutto ben incastrato in un meccanismo complesso che crea, grazie all'uso dei flashback sparsi in modo continuo, diversi piani temporali a livello narrativo, fino all'epilogo finale.
La serie sembra subire l'influenza dei serial televisivi ed in particolare di "Lost": anche se vengono sparsi qua e là indizi e particolari rilevanti ai fini della storia, per tutta la durata della saga, alla fine  nulla viene lasciato al caso e ogni tassello va a completare il mosaico finale.
Interessante è anche il possibile dibattito creato dalla questione morale sottesa nella serie. Viene spontaneo infatti chiedersi se siano più immorali e sbagliate le azioni compiute da Jigsaw o quelle per cui vengono accusate le sue vittime.
In fondo, spesso ci troviamo di fronte a personaggi cinici e senza scrupoli; il dirigente della società assicurativa è l'emblema di questa categoria di vittime, così risoluto nel decidere sulla vita altrui e manifestazione in carne ed ossa della visione pessimistica dell'umanità insita in tutta la serie; dall'altro lato Jigsaw il quale, per quanto ragioni secondo una morale deviata e conservatrice (elemento di satira del film), ma comunque coerente, e li sottoponga a torture indicibili, non decreta mai la loro vita o la loro morte, lasciando sempre ad essi un pur minimo margine di scelta.
L'unico elemento davvero scadente della serie è la recitazione (se si esclude Tobin Bell nella parte di Jigsaw), spesso insufficiente e a volte ridicola per gli alti standard americani (da noi invece le capre che recitano nel film sarebbero subito accolti come maestri, specie se paragonati alle Martina Stella e Scamarcio di turno, ai quali una visitina di Jigsaw non farebbe proprio male...), un peccato se si pensa che, per il resto, la serie si mantiene omogenea e coerente.
Nel complesso è un' opera che vi consiglio di vedere, ma solo se avete stomaci forti.

Bob Harris

mercoledì 22 giugno 2011

IL GRANDE FRATELLO CI STA GUARDANDO: RIFLESSIONE SUL RAPPORTO TRA IL CINEMA DISTOPICO E LA SOCIETA'



« La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza»  era lo slogan del film "1984" (da noi "Orwell 1984"), basato sull'omonimo romanzo di George Orwell ed interpretato da John Hurt e Richard Burton. La trasposizione cinematografica, mostrandosi fedele al libro, narra di un futuro apocalittico in cui il mondo è diviso in tre grandi nazioni, Eurasia, Estasia e Oceania, in cui dominano regimi totalitari. Il film segue le vicende di Winston Smith, incaricato di modificare libri e articoli di giornale già scritti, in quanto il Partito, oltre a esercitare un totale controllo sul presente e sul futuro della gente, intende modificare a proprio favore la storia, creandone una versione distorta e funzionale al regime. 
Quello di "1984" è un mondo in decadenza, in cui non vi è fiducia nel prossimo, ma solo odio e sospetto, dominato dal Grande Fratello, personaggio misterioso se non fittizio, che appare su ogni manifesto e video, simbolo del controllo pervasivo e completo dello stato sul singolo. All'individuo non è concesso margine di individualismo: bandita qualsivoglia forma di arte e intrattenimento, anche l'amore è considerato uno psicoreato, come tale punito dal regime con la tortura e la violenza psicologica; solo dopo averlo costretto ad abiurare completamente le sue colpe, potrà essere condannato a morte. In tale contesto la vita del singolo perde qualsiasi senso, essa si riduce a un meccanico ripetersi di gesti e azioni, finalizzati e funzionali al rafforzamento del potere statale. 
Prima di Orwell fu già Fritz Lang, nel lontanto 1927, con il suo "Metropolis" a prospettare un futuro in cui domina la dittatura del capitalismo, che creadivisioni classiste con la conseguente ghettizzazione delle classi meno abbienti. 
Fu poi Truffaut con "Fahrenheit 451" (1966) a riproporre il tema di un mondo in cui domina la tirannia di uno stato totalitario che, qui, si pone come fine l'immediata distruzione di qualsiasi libro esistente al mondo. La letteratura, infatti, è colpevole di creare potenzialmente una coscienza critica nel lettore-cittadino e presentargli l'alternativa di un mondo migliore, sicuramente diverso dalla distopica esistenza attuale, dove, assistiamo al dominio mediatico
Sempre sul tema, come non ricordare "Brazil" (1985), il capolavoro di Terry Gilliam, che, con toni ironici e grotteschi, presenta la tirannia della burocrazia statale.
Difficile, andando più in là negli anni, trovare film che, pur trattando del tema in questione, non si discostino da un mero fine di intrattenimento, spogliando così di significato politico gli eventi narrati. Un film che esemplifica tale concetto è senza dubbio "Equilibrium", film del 2001 scritto e diretto da Kurt Wimmer, che pur ispirandosi a "1984" e "Fahrenheit 451", si perde in una propensione tamarra fatta di sparatorie e sovraesposizione di arti marziali; il body counter dei personaggi rappresenta un Guinness dei primati di morti in un film. Va comunque apprezzata la resa ambientale, capace di rendere bene l'idea di un futuro distopico, resa garantita da quei mezzi tecnologici che il cinema del passato non aveva a disposizione.
Arriviamo così al 2005, anno di "V per Vendetta", film ispirato ai fumetti di Alan Moore, dove ritroviamo la Londra di "1984" attraversata da un giustiziere, Guy Fawkes, vittima e carnefice di quello stesso sistema che lo aveva creato.
La rassegna di film che hanno come ambientazione un futuro distopico ci porta a compiere una riflessione necessaria: quanto questo futuro è vicino a noi? Ma forse no, non è questa la domanda giusta. Tale quesito è alla base delle riflessioni artistiche di Lang, Orwell e Bradbury, che guardavano al futuro con preoccupazione e angoscia. 
Dal momento che il loro futuro è il nostro presente dovremmo chiederci: quanto è simile la nostra società rispetto a quella descritta nelle loro opere?
Vediamo di tracciare un identikit stilando le caratteristiche di una società distopica:
-E' presente una società gerarchica, in cui le divisioni fra le classi sociali (o caste) sono rigide e insormontabili
-La propaganda del regime ed i sistemi educativi, costringono la popolazione al culto dello stato e del suo governo, convincendola che il proprio stile di vita è l'unico (o il migliore) possibile
-Il dissenso e l'individualità sono visti come valori negativi, in opposizione al conformismo dominante
-Lo Stato è spesso rappresentato da un leader carismatico adorato dalla gente e oggetto di culto della personalità
-Il mondo al di fuori dello Stato è visto con paura e ribrezzo
-Il sistema penale comprende spesso la tortura fisica o psicologica
-Agenzie governative (come una polizia segreta) sono impegnate nella sorveglianza continua dei cittadini
-Il legame con il mondo naturale non appartiene più alla vita quotidiana.
Non si tratta neanche di stabilire se vengono soddisfatti questi punti. 
Tutto ciò già è presente nella società contemporanea. Tocca solo stabilire a che grado. 
Purtroppo le divisioni in classi sociali sono sempre esistite. Ma mai come adesso sembrano essersi acuite. La crisi finanziaria che ha colpito l'economia mondiale ha contribuito all'annullamento delle classi medie: il risultato è che chi è ricco continua e esserlo sempre di più, chi è povero anche. 
La cosa più inquietante è che già Lang aveva  profetizzato tale stato di cose e non si può non rabbrividire pensando alla situazione di centinaia di migliaia di americani, sempre più ghettizzati, dal momento che subiscono pignoramenti a ripetizione per via dei debiti contratti con le banche, divinità del capitalismo moderno. Queste signori sono i nuovi dittatori: le banche. Dittatori che detengono la totalità del potere economico e di conseguenza politico; dittatori che scelgono il capo carismatico che rappresenti i loro interessi e faccia confluire su di sé i voti della gente. 
Tale capo carismatico si avvale di un potere mediatico. Si pensi agli avvenimenti che hanno caratterizzato l'ultima fase del governo Bush, che è andato incontro al potere finanziario un servo del potere finanziario delle varie Aig, Citybank e Goldman Sachs, che, senza batter ciglio, hanno corrotto numerosi politici al fine di far approvare la legge finanziaria che le avrebbe risanate dalla crisi, a danno dei cittadini americani che avrebbero dovuto contribuire per un totale di 700 miliardi di dollari
Tale fenomeno ci riguarda direttamente, essendo il nostro paese governato da un imprenditore/dittatore mediatico (realtà predetta ancora da Lang), anche'egli asservito ai nuovi tiranni. E non è un paradosso che le reti di Berlusconi trasmettano un format televisivo dal nome Grande Fratello (in cui tra l'altro il nome, perdendo il significato originale, va a riferirsi a un programma di infimo livello, regno della superficialità e dell'ignoranza che si nutre di se stessa)?
Berlusconi e Bush
La sudditanza mediatica e inebetita del film di Truffaut sembra riproporsi nella nostra società ed il "Grande Fratello" (inteso come format) ne è la perfetta esemplificazione. 
Il dominio di Mediaset ha portato a un progressivo regresso mentale del telespettatore, che prima di ogni altra cosa è un cittadino e, in quanto tale, contribuisce alla nomina delle future classi politiche. In quasi tutto il mondo si è sempre cercato di sfruttare il più possibile il potere mediatico al fine di ottenere potere politico e viceversa. Ma mai quanto in Italia. Non esiste democrazia in Occidente in cui il dominio televisivo sia concentrato nelle mani di un solo uomo, assistendo così a un monopolio della telecomunicazione. Va da sé che ciò ha comportato una manipolazione dell'informazione e uno scadimento della qualità del servizio, a cui, purtroppo, la massa si è adeguata, cosa evidentissima in sede elettorale. 
Più in generale i media tendono a plasmare le menti e a conformarle, illudendo la gente di compiere delle scelte che, in realtà, sono frutto del loro condizionamento. Come si suol dire se vuoi convincere qualcuno di qualcosa, fagli credere che sia una sua idea. 
Infine un accenno all'ambientalismo. In una società distopica non v'è presenza e cura della natura. Da questo punto di vista possiamo affermare che, a differenza che nelle opere artistiche di cui sopra, nella realtà si sta cercando in tutti i modi di far coesistere il progresso tecnologico con il rispetto dell'ambiente e la sua salvaguardia. Che ciò si possa realizzare non è per nulla certo, perlomeno però il problema non è trascurato. Quale che sarà il nostro futuro oscuri presagi si presentano dinnanzi a noi. Sta a noi accorgercene.


Bob Harris

venerdì 17 giugno 2011

"RUMBLE FISH": BENVENUTI NELL'ACQUARIO DI FRANCIS FORD COPPOLA

«Ogni tanto qualcuno vede il mondo diverso dalla gente comune, ma non vuol dire che è matto...capisci? Una diversa e più acuta percezione delle cose non significa follia, benché a volte possa capitare che questa percezione porti alla follia »


Francis Ford Coppola è un regista strepitoso. Ci ha saputo raccontare la guerra del Vietnam come se fosse la trasposizione cinematografica dell'Inferno dantesco e ha appassionato milioni di spettatori con epopea di una famiglia di mafiosi italo-americana, creando una saga dinastica da tragedia shakespeariana, ormai entrata nella mitologia popolare.
Perciò è facile associare al nome di Coppola film come "Apocalypse Now" e "Il Padrino". Ai palati più raffinati però non sarà sfuggito una sua opera del 1983 "Rumble Fish", ispirata all'omonimo romanzo di Susan Eloise Hinton; da un suo racconto, trarrà spunto per un'altra opera, "I ragazzi della 56esima strada", sempre del 1983.
In Italia, come spesso accade, non si è avuto rispetto del titolo, ed è stato barbaricamente mutato in "Rusty il selvaggio", scelta che snatura il significato dell'originale.
Protagonista del film è Matt Dillon, ai tempi (ah gli anni '80...) idolo delle donzelle al pari dell'altro protagonista, Mickey Rourke. In un film ribelle non poteva che esserci spazio per uno come come Dennis Hopper, icona dell'anticonformismo e di libertà grazie alla sua interpretazione in un film epocale: "Easy Rider"(LINK).
I tre attori sono rispettivamente Rusty James (proprio come è soprannominato il fratello del protagonista di "Amore 14", sic), il fratello maggiore senza nome e soprannominato The Motorcycle Boy (ancora una volta complimenti alla nostra traduzione maccheronica: Quello della moto) ed il loro alcolizzatissimo padre, che non vedremo mai sobrio nell'arco del film, ma che si dimostrerà personaggio colto e acuto.
Intorno ai tre ruota una realtà di provincia americana, un non-luogo che potrebbe essere qualsiasi posto. Rusty fa parte di una banda di teppistelli  (tra gli attori del film ricordo Nicolas Cage, Tom Waits, Laurence Fishburne, Diane Lane e Chris Penn) che passano le serate a menare le mani con altri simili e a compiere gesti da duri.
Il vero duro, invece, The Motorcycle Boy, ha deciso di smettere di fare il bullo; è un re in esilio, soggetto a un cambiamento caratteriale che da l'idea di una conversione quasi religiosa e filosofica, dovuta a un viaggio in un luogo che considera celestiale: la California.
Il film si regge quasi esclusivamente sul rapporto fra i due fratelli.
Rusty sente il peso della figura fraterna, mito fra i giovani della città, per via dei suoi trascorsi turbolenti. Tale fardello lo spinge a cercare maldestramente di seguirne le orme, ma il fiato è corto e il giovane non riesce a stare al passo. 
Anzi, la figura di Rusty ne esce in modo totalmente negativo: oltre all'imprudenza dettata dalla giovane età, viene dipinto come una persona stupida e limitata, incapace di capire i discorsi profondi sostenuti dal padre e dal fratello, deriso dagli amici che approfittano dei suoi limiti (vedi il personaggio di Smokey, interpretato da un giovane Cage, inespressivo come sempre, ancora però con capelli veri).
Rourke è qui in versione monaco zen, saggio e imperturbabile, risoluto onnipotente. O almeno lo è agli occhi degli altri che non riescono a percepire le sue fragilità.
Troppo sensibile e sveglio per sopportare una vita ingabbiata da provincia, un diverso che trasforma la sua diversità in superiorità, illudendosi di poterla reprimere, fin quando essa non lo annichilisce e  non lo aliena psicologicamente: «ha la capacità di poter fare quello che vuole, ma non avendo però nulla che voglia fare» .
I due giovani sono come pesci combattenti, rinchiusi in un acquario: sgomitano per trovare il loro spazio inquieti e disagiati, segregati ai margini di una società che sa solo reprimerli e non aspetta altro che imprigionare la loro energia vitale. Emblematica in tal senso la figura del poliziotto senza nome e (quasi) volto, personaggio volutamente indefinito, metafora di una legge, spietata ed iniqua, che opprime.
A coronare la narrazione c'è la buona interpretazione da parte degli attori su cui svetta un ipnotico Rourke. Così come la splendida Fotografia in B/N, che sprigiona le angosce dei protagonisti e riproduce la prospettiva del personaggio di Rourke (daltonico). L'unica eccezione sono i due pesci combattenti del titolo. Il motivo è evidente.
"Rumble Fish" è un film che, pur rinunciando ai toni del dramma, colpisce e fa male, ennesimo capolavoro di una cinematografia, quella americana, che meglio di tutte ha saputo esprimere il disagio giovanile e l'inquietudine della monotonia esistenziale.
The Motorcycle Boy reigns.

Habemus Judicium:


Bob Harris

sabato 4 giugno 2011

"BLADE RUNNER": UN NOIR ESISTENZIALISTA CHE SI TINGE DI POESIA

«Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi...».
Questa frase molti di noi l'hanno già sentita ed usata, magari, senza saperne la provenienza.
Entrata ormai nella memoria collettiva, essa si pone come incipit del breve e incisivo monologo finale del personaggio chiave di un film che ha rappresentato la quintessenza del cinema contemporaneo: "Blade Runner".
L'opera cyberpunk di Ridley Scott uscì nel 1982 senza riscuotere successo. Si segnalò solo per gli strascichi polemici che  accompagnarono la sua realizzazione e distribuzione conditi da celeberrimi battibecchi fra regista e protagonista, l'attore Harrison Ford che interpreta Rick Deckard, e divergenze con la produzione che mutilò e modificò alcune parti del film, per renderlo il più accessibile possibile ad un vasto pubblico.
Negli anni fu ampiamente rivalutato, divenne un vero e proprio cult del cinema, cosa che permise l'uscita, nel 92, del Director's Cut, versione del film come era stata voluta inizialmente dal regista, che ci restituisce tutta la profondità testuale ed espressiva del film, essenziale per poter arrivare a coglierne appieno il messaggio.
La trama è presto detta: in un futuro prossimo il mondo è in decadenza, soggetto ad un inquinamento cronico che crea un clima piovoso perenne. Le città sono in rovina, chi può fugge nelle colonie spaziali, la terra è ormai abitata da poveri e malati (scartati alle selezioni per le colonie). Per svolgere le mansioni più pericolose gli uomini si avvalgono di replicanti in tutto e per tutto simili ad essi, ma molto più forti e resistenti, che hanno una vita di breve durata (4 anni) e non sono in grado di provare emozioni. Alcuni di questi replicanti, modelli Nexus 6, schiavi nelle colonie extramondo, si ribellano e fuggono sulla terra. Spetterà ad un Blade Runner, Deckard, il compito di ritirarli.
A complicare le cose il fatto che Deckard si innamori di uno di essi.
"Blade Runner" è poesia pura: ci presenta un mondo distopico e crepuscolare, un futuro che non ha futuro, in cui una stanca razza umana, perfettamente esemplificata nel personaggio di J. F. Sebastian (giovane colpito da invecchiamento precoce, che vive solo e circondato dai giocattoli da lui creati, unici suoi amici e contatto "umano"), si trascina avanti senza uno scopo né un senso nella propria esistenza; il tutto accompagnato dalle note blues, dimesse e malinconiche di Vangelis.
Il futuro che si presenta nel film non è la tipica visione futuristica fino a quel momento concepita, ovvero quella di un futuro asettico e patinato: è un universo sporco e barocco, pieno di ammennicoli e cianfrusaglie impolverate, di abiti stravaganti e coloriti. In questo si vede pesantemente la mano del regista, che, similmente aveva sperimentato con "Alien".
In Blade Runner dominano colori scuri e ambientazioni buie, anche di giorno, come se gli esseri umani vi si nascondessero impauriti e rassegnati. La pioggia batte continuamente sugli edifici squallidi e abbandonati a se stessi, le navicelle sfrecciano al di sopra di una città, la Los Angeles del futuro, confusa e affollata di anime in declino.
A questa visione squallida e moribonda si contrappone la forza vitale ed energica dei replicanti: individui puri e ingenui, forti e dominanti. Lo spettacolo della vita nel teatro della morte.
Non è un caso che gli unici personaggi positivi e sani del film siano i replicanti stessi, archetipi dell'unione dell'essere con la sua natura, lontani dalla dipendenza tecnologica che diviene schiavitù. Essi rappresentano lo Ubermensch nietzschiano, il super io che è alla ricerca di sé, prossimo a conseguire un'onnipotenza che lo eleverà al di sopra di ciò che è sempre stato.
Ma i replicanti sono anche novelli Iperione, titani alla ricerca della propria identità, in lotta con un mondo che ha paura di loro e che, per questo, ha deciso di schiavizzarli.
Anche in questo risiede la tragica poesia di "Blade Runner": l'impulso vitale e più puro è condannato a essere soppresso, a favore di un'esistenza in procinto di spegnersi.
Tema ricorrente sono i ricordi: i personaggi affogano costantemente i pensieri nei propri ricordi, incapaci di guardare al domani. Non a caso elemento onnipresente del film sono le fotografie, specie di ricordi materiali, prove tangibili di un passato a cui si rimanda costantemente e a cui i protagonisti mostrano di essere morbosamente attaccati.
Altro tema preponderante del film è il concetto di umanità: se gli umani sono meno "umani" dei replicanti, tale concetto perde il senso tradizionale. In che modo ci si può riconoscere in una razza incapace di provare e trasmettere sentimenti, priva di solidarietà verso il prossimo e, anzi, arroccata nell'individualismo sfrenato e nella paura del diverso?
Non è un caso che nell'arco del film i replicanti, tacciati di non poter provare emozioni, siano gli unici, invece, a veicolarle. Ma poi siamo sicuri di parteggiare per gli uomini? E se in realtà aspirassimo a vivere  come i replicanti?
Ridley Scott gioca molto sulla questione dell'identità fra umani e replicanti (beffardo in questo senso lo slogan della Tyrrel Corporation: "più umano dell'umano"), instillando il dubbio (che, anzi, è una certezza) che Deckard stesso sia un replicante (tesi avvalorata dalla scena del sogno dell'unicorno, che risulterà essere un innesto artificiale e si ricollega alla presenza nella scena finale dell'origami a forma di unicorno). Si pone quindi il classico dilemma di rapporto fra soggetto e oggetto, il cogito ergo sum Cartesiano: ci chiediamo cosa sia il mondo intorno a noi; gli oggetti che ci circondano sono tali o, invece, sono soggetti anch'essi come noi? Gli altri provano i miei stessi sentimenti? Ma poi esistono questi altri o sono parte della mia immaginazione?
E come non rimanere affascinati dal personaggio di Roy Betty, il capo dei replicanti ribelli, figura tragica ed eroica nella sua lotta contro il suo destino di morte, personaggio affascinante e carismatico che si rivelerà spietato ma anche leale e tenero, nel suo attaccamento alla vita e ai sentimenti. Che dire, poi, della storia d'amore fra Deckard e Rachel (interpretata da una Sean Young quanto mai criptica e meccanica), fragile e sensuale replicante della Tyrell Corporation, anch'essa destinata al ritiro? Un amore impossibile e condannato.
 Deckard, però, sembra aver recepito dai replicanti un messaggio importante: dal momento che si è mortali e soggetti alla fugacità dell'esistenza, sempre in procinto di passare dall'io al non-io, bisogna vivere ogni istante della propria vita come fosse l'ultimo, smettere di trascinarsi passivamente fino alla propria fine, godendosi ciò che ci resta di bello, che la sorte ci ha concesso.
Blade Runner si chiude con un finale dolce, che ha un forte retrogusto amaro, un messaggio di speranza che, però, dovrà fare i conti con la realtà: «It's too bad she won't live!But then again who does?». E così sia.

Habemus Judicium:

Bob Harris

giovedì 2 giugno 2011

"TROPA DE ELITE" (2007) DI JOSE' PADILHA: IL CINEMA BRASILIANO DI QUALITA' (PARTE II)


Sapete cos'è il Bope? L'acronimo sta per Battaglione per le operazioni speciali di polizia. Tradotto significa che sono l'élite della difesa armata in Brasile, i migliori e i più temuti. 
Specializzati in guerriglia e infiltrazioni nelle favelas, i membri del Bope hanno fama di essere spietati e invincibili. E quando hai a che fare con narcotrafficanti imbottiti di armi, munizioni e affatto scrupolosi, beh, non puoi andare tanto per il sottile.
Il film "Tropa de Elite" di José Padilha cerca di raccontarci un po' di più di questo misterioso "squadrone della morte". Uscito nel 2007, il film ha riscosso un successo planetario (si dice anche grazie alla volontaria messa in circolazione di copie false da parte della casa di produzione del film per promuoverlo più facilmente) e molti, fra cui il sottoscritto, hanno visto nel successo fenomenale del film un proseguo naturale di quello avuto da "City Of God"(LINK)
Per quanto il film di Padilha possa dividere, bisognerebbe convenire che il cinema brasiliano mostra di essere vivo e capace di raccontarci qualcosa (e la realtà brasiliana ne avrebbe di cose da raccontare...) e, soprattutto, di farlo con grande stile. Già perché prima di essere film ricchi di spunti e contenuti, entrambi si presentano al grande pubblico in modo accattivante"Tropa De Elite", poi, rispetto a "City of God" è andato pure oltre, facendo tendenza e presa su un pubblico giovanile.
Il film è basato sul Best-seller "Elite da Tropa", libro scritto da due ex ufficiali del Bope, André Batista e Rodrigo Pimental, e dall'antropologo Luiz Eduardo Suarez
A differenza di questo, il film si presenta, diciamo, come una versione all'acqua di rose; omette gli episodi più crudi ed evita di menzionare quelle connessioni politiche che fanno del Bope un mero strumento in mano delle forze politiche dominanti. 
Partendo da questo presupposto il film segue le vicende del capitano del Bope Roberto Nascimento, in attesa di un figlio ed in procinto di congedarsi. Prima di lasciare dovrà reclutare il suo successore fra due suoi allievi, Neto e Matias, e portare a termine l'Operazione Papa in vista della visita del pontefice in una delle favela di Rio. 
Dicevo nel post su "City of God" come in quella pellicola mancassero contenuti e riferimenti di attualità e, perciò, non lo si poteva considerare un film di denuncia. "Tropa de Elite", invece, presenta questo elemento: il film ci introduce nei meccanismi perversi e corrotti della polizia brasiliana, ci fa entrare nel centro di addestramento del Bope per mostrarci che tipo di mentalità forgi i futuri membri. In più apre il dibattito sull'uso della violenza per bocca di personaggi rappresentanti un ceto medio-alto brasiliano che, spesso, predica molto bene e razzola malissimo. 
E non si fa mancare neanche il punto di vista alla "City of God" (ma molto più realistico), seguendo le mosse di un narcotrafficante di una favela, Baiano, che si contrapporrà ai personaggi principali del film. Il tutto è impacchettato in quella forma documentaristica che tanto è così di moda negli ultimi anni. 
Il ritmo del film è frenetico, la regia è spesso fatta di primi piani sui protagonisti, a captare le emozioni che essi esprimono. L'iperrealismo del film significa anche ben pochi virtuosismi registici. Il montaggio e la sceneggiatura (non a caso gli sceneggiatori dei due film sono gli stessi) seguono le orme di "City of God": diversi piani narrativi e temporali, uniti da una comune linea diegetica, che, anche in questo caso, si avvale di una voce narrante onnisciente e interna alle vicende, rappresentata dal personaggio di Nascimento. Colonna sonora potente e l'efficace recitazione sono gli altri elementi di spicco. 
Nel complesso "Tropa de elite" è un film che centra il buco, colpisce lo spettatore, ma non emette giudizi. La violenza, la corruzione, il sadismo della tortura psico-fisica ci vengono mostrati in modo imparziale. E se lo spettatore deciderà che alla fine, tutto sommato, parteggia per il Bope, sarà solo perché la riterrà una scelta meno dannosa delle altre. 
Ovviamente da vedere.


Habemus Judicium:


Bob Harris



mercoledì 1 giugno 2011

JUVE: SARA' CONTE L'UOMO GIUSTO PER RISORGERE?

Lo hanno chiamato il Conte Day
Il 31 Giugno 2011, è stato il giorno dell'approdo alla Juventus del tecnico ed ex-giocatore leccese. Dopo 5 anni di gavetta iniziati nell'Arezzo, passando per Bari, Atalanta e Siena, finalmente corona il suo sogno di allenare la squadra per cui ha sudato 346 maglie. Conte non ha ancora 42 anni ed ha già conquistato un posto su una panchina importante. Lo aveva detto che entro 5 anni ci sarebbe riuscito, altrimenti diceva, si sarebbe rassegnato per sempre ad essere un allenatore mediocre. 
La scelta della società bianconera, si ispira a svariati modelli: svariati modelli: Leonardo per Milan e Inter, Allegri sempre per il Milan, Villas Boas e Mourinho per il Porto. 
Quello originale, ovviamente, il Barcellona che, scegliendo di farsi guidare dall'ex-giocatore Guardiola, ha abbattuto ogni record e si avvia a diventare la squadra più forte di tutti  i tempi. 
Non che non ci avesse già provato la società di Corso Galileo Ferraris a mettere sotto contratto un giovane promettente. Parlo dell'attuale ct dell'under 21 Ciro Ferrara, che, partito da salvatore della patria, ha clamorosamente fallito. 
Ferrara però, a differenza di Conte, non aveva esperienza da allenatore, Conte, invece, vanta due promozioni in A e di lui se ne parla un gran bene, parola di esperti ed addetti ai lavori. Dopo 5 anni di esoneri e polemiche i tifosi juventini sperano che il nuovo allenatore riporti la squadra ai livelli che le competono. Ma siamo sicuri che, da solo, un allenatore possa cambiare le sorti di una squadra?
Di certo i vari Ranieri, Ferrara, Zaccheroni e Del Neri avevano delle carenze tecniche oggettive. Motivo per cui era facile ravvisare in esse il motivo degli scarsi risultati del club. Nonostante tutto i loro esoneri sono stati seguiti da strascichi polemici da parte dell'opinione pubblica, che in parte esaltava il lavoro da loro svolto (vedi Ranieri) e in parte li esonerava dalle colpe più gravi, tacciando la società di incompetenza e scelte frettolose e demagogiche. 
Mi limito a dire che controprova non ci sarà mai. Prendere allenatori che suscitano perplessità non potrà che instillare il dubbio nei tifosi, specie quando i risultati continueranno a non soddisfarli.
Alex  Del Piero
Mi permetto di dire che, nel caso di Conte, la scelta appare quanto mai inattaccabile. Fin'ora il tecnico ha dimostrato capacità, carisma, carattere e voglia di affermarsi, il mix necessario per chi ha ambizione di vincere. Inoltre la giovane età suggerisce che avrà tempo e modo di dimostrare il suo valore, tenendolo alla larga da pericolosi rapporti età/vittorie. Rispondo alla domanda di cui sopra. 
Un allenatore non può cambiare una squadra. Deve per forza di cose essere supportato da una società in ogni ambito: mediatico, tecnico, commerciale e giudiziario. Cosa che purtroppo, di recente, la Juventus non è stata in grado di fare al meglio. 
L'anno passato è stato ricco di cambiamenti nell'assetto societario: dapprima è stata fatta pulizia della vecchia dirigenza, con la cacciata di Blanc e Secco. Poi la nomina alla presidenza di Andrea Agnelli e l'assunzione del D.S. Beppe Marotta
La nuova dirigenza doveva rilanciare lo stile Juve e difenderne il nome in sede giudiziaria. In parte gli obiettivi sono stati raggiunti specie se guardiamo allo sfruttamento del marketing e alla valorizzazione del brand (il nuovo stadio super pubblicizzato e la costruzione di un sito internet internazionale innovativo). Dal punto di vista giudiziario Andrea Agnelli, a differenza della vecchia dirigenza, sembra aver alzato più la voce, presentando un esposto alla Procura Sportiva e alla FIGCarrivando ad accusare quest'ultima di avere la coscienza sporca riguardo l'assegnazione dello scudetto del 2006.
Doveva essere l'anno zero, è stato un anno fallimentare più di quello precedente. 
A cominciare da una campagna acquisti all'ingrosso che ha portato all'ingaggio di giocatori mediocri, ricordo Motta, Martinez, Rinaudo, Traorè, ed ottimi acquisti che però non garantivano qualità assoluta. Va da sé che un campionato fallimentare è andato in archiviazione, con l'attenuante che il progetto juve si sviluppa in due anni. 
Perciò quest'anno non saranno concessi errori al DS Marotta. A cominciare dalla campagna acquisti che, come dallo stesso sbandierato ai quattro venti, dovrà essere all'insegna della qualità. In questo senso la famiglia Agnelli, tramite la Exor, si è già mossa, varando l'aumento di capitale (circa 60 milioni di euro, che, uniti ai 40 previsti da ricavi dello stadio e cessioni, arriverebbero a 100)
I campionati te li fanno vincere i fuoriclasse, i campioni. 
Se non li hai però devi andarli a prendere e, si sa, i grandi giocatori costano. N
e servirebbero almeno 2. Vedremo. Sarà difficile competere sin da subito con Milan ed Inter, ma anche con la stessa Roma, squadra che sta subendo un enorme cambiamento a livello dirigenziale, ma che, a livello sportivo, mantiene la sua forza ed, anzi, con la nuova presidenza, potrà rinforzarsi ulteriormente. 
Conte è considerato un portatore del calcio d'attacco, in cui sono gli avversari a lanciare il pallone lungo a pedalare e in cui la squadra avrà sempre in mano il pallino del gioco. Sicuramente, a differenza, ad esempio, di un Ciro Ferrara, non gli manca il carisma e la personalità per gestire grandi giocatori. Ciò che sperano i tifosi juventini, privati della possibilità di vedere la propria squadra in Champions League, è che la squadra sia già competitiva il prossimo anno. Tradotto significa che possa lottare per la vittoria. 
Ma, soprattutto, che la squadra torni ad avere la mentalità vincente che da sempre l'ha contraddistinta e che ha portato un certo Alex Ferguson a dichiarare: « La Juventus è stata un esempio per il mio Man­chester United. Facevo vedere ai miei giocatori le videocassette della squadra di Lippi e dicevo: non guardate la tattica o la tecnica, quella ce l'abbiamo anche noi, voi dovete imparare ad avere quella voglia di vincere». Perché se sei alla Juve conta una cosa sola: vincere.

P.s. E' notizia di oggi l'apertura di un inchiesta della Procura di Cremona in merito al calcioscommesse. Lo scandalo riguarderebbe partite di Serie A, B e Lega Pro truccate, per un totale di 18. 
Fra i soggetti coinvolti anche gli ex-giocatori come Signori e Bettarini, ed il capitano dell'Atalanta Doni. Il giro di scommesse risultava essere ben organizzato con diverse partite truccate in contemporanea ed esisteva un tariffario di massima per la compera delle partite. Gli indagati avevano ciascuno un proprio ruolo nell'organizzazione, con tanto di cellulari e schede dedicate.Il GIP Guido Salvini non esclude che ci possano essere collegamenti con la criminalità organizzata, vista la portata degli investimenti sulle scommesse. 
L'attaccante della Juve e della Nazionale Matri, raggiunto ai microfoni di Studio Sport ha dichiarato:"E' uno schifo. Per ora sono finiti in manette 16 persone. Il fango del Dio Pallone.


Bob Harris