lunedì 28 febbraio 2011

YARA E SARA: DAJE ALL'UNTORE!

Girovagavo per la rete quando, su Facebook, mi imbatto in un gruppo dal nome: "Yara e Sara, due bimbominchie in meno". Lì per lì ho pensato che fosse un'iniziativa di cattivo gusto, che rende l'idea di una persona idiota che sente il bisogno di provocare esplicitamente l'opinione pubblica. E' questo ciò che rende misera l'uscita, l'essersi concretizzata nella creazione di un gruppo virtuale per pura provocazione. No, perché, diciamolo, per come vengono strumentalizzati  episodi di cronaca nera del genere dai media, che ci riempiono la testa di servizi, ultimissime e approfondimenti su di essi, potrebbe pure essere lecito farsi sfuggire una battuta ironica. 
Ma da qui a metterci impegno per gettare alle masse una provocazione ce ne passa e, oltretutto annulla ogni elemento scusante. E' roba da persone tristi. Detto di come sia deprecabile e altamente stupido creare un gruppo del genere, la cosa che mi ha ancora una volta scioccato è stata la reazione del popolo di internet. Insulti, maledizioni e minacce di morte. Sembra di essere ne "I promessi sposi" quando le folle si scagliano contro il nemico pubblico al grido di «Daje all'untore».
Hanna Arendt parlava di Banalità del male  per descrivere come il male si perpetri attraverso gesti inconsapevoli, compiuti senza avere coscienza di ciò che produrranno. Di questi meccanismi inconsapevoli fanno uso coloro che riescono a imporli alle masse; tale tendenza collettiva sfocia poi nella creazione di regimi totalitari, per cui azioni efferate vengono compiute se non per volontà comune, nella piena connivenza della maggior parte della gente (si pensi al nazismo).
Con le dovute proporzioni, ma neanche troppo, invito a riflettere sul fatto che le opinioni "civili" di queste persone, che sono davvero molte, sono frutto di un meccanismo creato ad arte dai media (che ricordo che in Italia sono strumento di un uomo solo) e dalla Chiesa S.P.A: è una moralità imposta. Ormai è una frase fatta dire che siamo in un paese di benpensanti e falsi moralisti, regno dell'ipocrisia e della deprecazione di bassa qualità.  
Però è così e la sensazione è che la gente sfoghi le proprie frustrazioni quotidiane, le proprie insicurezze accanendosi su chi, certamente, assume una condotta punibile o semplicemente scorretta, ma che non merita di subire conseguenze che vadano oltre ciò che hanno causato.
Così come lo zio di Sara Scazzi e la cugina non meritano di morire torturati o bruciati, ma ci penserà la legge a giudicarli e punirli, così chi ha creato il gruppo, di cui sopra, non merita che essere deprecato per il suo gesto, ma sempre rimanendo in un contesto di civiltà. 
Perché è proprio questo il paradosso: le persone che, con quegli insulti e con quelle minacce, volevano pulirsi la coscienza e mostrarsi superiori (è evidente che questa necessità deriva da un disagio, una frustrazione sociale), in realtà si sono spinti oltre, finendo per fare qualcosa di molto peggiore e che, se fossero giudicate da altre persone assennate, passerebbero dalla parte del torto. Una persona che si ritenga perbene, in questo caso, si limiterebbe a scuotere la testa o, se proprio avesse l'irrefrenabile impulso di commentare, lo farebbe in modo del tutto diverso. Stesso discorso vale per chi scrive messaggi di affetto sincero verso le vittime. 
E' evidente che ci fa stare tutti meglio fare i finti solidali con persone che non conosceremo mai e di cui realmente non ci frega nulla e se fosse una questione di solidarietà, sarebbe giusto che ogni vita che si spegne nel mondo ricevesse tanta attenzione (mentre siamo indifferenti anche di fronte ai genocidi, solo per il fatto di non riguardarci da vicino).
In calce vi posto un video, un mosaico di persone normali che si rivolgono allo zio di Sara Scazzi. Il ridicolo assume forme sempre nuove. Io però, dopo qualche momento di ilarità, riesco solo a provare paura. Paura della banalità del male.




Bob Harris

sabato 26 febbraio 2011

IL CALCIO MARCIO: "NEL FANGO DEL DIO PALLONE"

«Che importanza poteva avere se mi ero "aiutato" con qualche puntura? Avevo solo ubbidito a quello che mi era stato detto di fare, e comunque non avevo fatto niente di male a nessuno. Era stata solo una furbizia in un mondo che vedevo pieno di trucchi, in campo e fuori. Non mi sentivo più colpevole dei miei colleghi che ogni domenica per imbrogliare l'arbitro si buttavano per terra in area facendo finta di avere subìto un fallo da rigore e lo ottenevano o che segnavano gol di mano senza farsi vedere dall'arbitro, o che fingevano di essersi infortunati per non giocare "certe"  partite, o che combinavano i pareggi...E poi per quello che ne sapevo io, il doping non lo aveva certo inventato il Genoa: quante altre squadre l'avevano fatto, lo facevano e lo avrebbero fatto in seguito?»
(Estratto di "Nel fango del dio pallone", di Carlo Petrini)


Carlo Petrini è un ex giocatore di calcio. Ha giocato in molte squadre di Serie A ed a cavallo fra gli anni '60 e '70 raggiunse anche una discreta notorietà sportiva. Ma non è per i suoi gol e per le sue doti di attaccante che resterà famoso. Petrini è l'icona del calcio malato, dello sporco sotto al tappeto. Nel corso della sua carriera è stato coinvolto in tutti i più grandi scandali calcistici dell'epoca e, nel suo libro,"Nel fango del dio pallone", ce li racconta uno per uno. Anzi, fa molto di più. L'ex calciatore toscano ci introduce in un mondo torbido e amorale, in cui la superficialità del successo e dei falsi miti fa da padrone.
Carlo Petrini nasce a Monticiano, in provincia di Siena, il 29 marzo del 1948
Cresce nelle giovanili del Genoa e, dopo una parentesi al Lecce, qui vi ritorna. Il grande salto avviene nel 1968, quando approda al Milan di Nereo Rocco. Seguono poi l'esperienza al Torino (con cui vince una Coppa Italia nel '71), Varese, Catanzaro e Ternana. Nel 1975 approda alla Roma di Liedholm; milita infine nel Verona, nel Cesena e nel Bologna. 
La sua carriera finisce nel 1980 a Bologna a causa della squalifica di tre anni e sei mesi per il caso calcioscommesse. Ma quello fu solo il punto esclamativo di una carriera calcistica da sempre infangata da scandali e condotte deprecabili. Nel suo libro Petrini vuota il sacco, non si risparmia nell'esporre fatti e nel dare giudizi (con l'unica limitazione di non fare, spesso, i nomi), soprattutto quando deve parlare di se stesso («Adesso posso dire tutto perché non ho più niente, non mi è rimasto proprio niente»si considera una persona cinica e priva di qualsiasi scrupolo, più volte lo ripete nel libro, e forse la cosa che più colpisce è che non sembra provare dispiacere per ciò («il branco è spietato e io ne faccio parte»). Semplicemente è indifferente.
Indifferente fino all'estremo: anche di fronte all'appello del figlio diciannovenne, malato di tumore al cervello e in procinto di morire, di rivedere il padre.
Petrini, e la cronaca stessa, ci raccontano che questi lasciò morire il figlio senza rivederlo. Unico episodio del quale si pentirà, che, tutt'ora, rappresenta il rimpianto che non gli lascia tregua e che, nei fatti lo ha spinto a confessarsi completamente. Dicevamo che Petrini ci racconta di un mondo fatto di ipocrisie, superficialità, in cui l'unica preoccupazione di un giocatore è il successo, la macchina nuova e i soldi, sempre loro. Le orge in ritiro, i tradimenti, il sesso in ogni sua forma rappresentano un rituale quotidiano e naturale per coloro che di questo mondo fanno parte.
Così come naturale è doparsi:

 «In tutta questa faccenda c'erano due cose sicure, anzi tre. La prima: il medico del Genoa non ne sapeva niente, queste punture ci venivano fatte di nascosto da lui. La seconda: se qualcuno di noi titolari le avesse rifiutate, avrebbe perso il posto in squadra e avrebbe fatto la figura del vigliacco. 
E la terza: nessuno di noi giocatori titolari si sognava di rifiutare quelle iniezioni, perché effettivamente non sembravano nocive e aumentavano davvero il nostro rendimento atletico in campo, avevamo più sprint. Ma c'era una quarta cosa sicura, anzi sicurissima: di quella faccenda noi giocatori non ne dovevamo parlare con nessuno, neanche in famiglia, per nessuna ragione, tanto è vero che non ne parlavamo nemmeno fra di noi»

Il libro, poi, affronta il tema del calcioscommesse. E' una vera e propria cronaca fatta da chi ne ha partecipato ed è stato uno dei pochi a subirne le conseguenze:

«Domenica 13 gennaio '80 si doveva giocare Bologna-Juventus. I bianconeri erano in una situazione disastrosa: erano reduci da ben tre sconfitte consecutive, e in classifica stavano scivolando addirittura in zona retrocessione. Il giovedì prima della partita il direttore sportivo del Bologna, Riccardo Sogliano, alla fine dell'allenamento ci radunò tutti negli spogliatoi - titolari e riserve - e ci disse: "Ci siamo messi d'accordo con la Juve per pareggiare la partita di domenica. E' chiaro per tutti?". Nessuno di noi giocatori ebbe niente da obiettare»

Pensando alle parole di Petrini viene de chiedersi se ciò di cui lui ci parla, il marciume che riempiva il calcio italiano fra gli anni 60,70 e 80, oggi possa esserci ancora. 
La risposta è sotto gli occhi di tutti, ma non per tutti è scontata. Se pensiamo a ogni scandalo emerso in questi anni, Calciopoli, fideiussioni e passaporti falsi, processo juve per doping, crac societari, si potrebbe dire che persino un libro come "Nel fango del dio pallone" impallidirebbe di fronte ad essi. Ma, poi, in quanti si ricordano che è spuntato un video di  Fabio Cannavaro che assumeva sostanze, ad oggi, dopanti o che Buffon ha scommesso quasi un milione di euro in partite di calcio (alla fine ne è uscito prosciolto da ogni accusa), cosa vietata per un calciatore? 
E, ancora, perché non si verificano mai casi di doping nel calcio mentre nel ciclismo spuntano dopati come funghi? Negli ultimi dieci anni si sarà preso qualche aiutino solo Kallon?! 
E la droga? Gli unici ad usarla erano Borriello e Mutu per trombare meglio? 
Gli altri bevono acqua minerale la sera? Ma poi possibile che solo i giocatori della Juventus si dopassero? Per non parlare poi di Calciopoli, che ci ha rivelato come lo scandalo non fossero i fatti incriminati, ma il processo stesso di incriminazione e la strumentalizzazione dei fatti stessi. 
Tutti questi argomenti meriterebbero ore di discussione. Forse però sono cose che non vogliamo sentire, figurarsi rifletterci sopra. La verità è che siamo in una nazione ossessionata dal calcio (anche se in buona compagnia del resto d'Europa). 
E, se, già negli anni 80 c'erano interessi in gioco tali da portare alla nascita di determinati meccanismi, ad oggi, in cui il calcio è un business di dimensioni stratosferiche (si pensi al fatto che i club europei hanno un fatturato complessivo di oltre un miliardo di euro), gli stessi meccanismi si sono  affinati e resi più efficienti. 
Non voglio giudicare chi segue con passione questo sport, io stesso ne dipendo, ma, apriamo gli occhi, il calcio è marcio e non ci vogliamo credere. Il grande inganno.

Habemus Judicium:

Bob Harris

venerdì 25 febbraio 2011

"BOARDWALK EMPIRE": QUANDO IL SERIAL DIVENTA CINEMA

 «Tutti dobbiamo decidere prima o poi quanti e quali peccati sopportare»

Martin Scorsese. Qualsiasi prodotto cinematografico o televisivo, già solo per il fatto di vedersi accostato questo nome, di per sé suscita grande curiosità e attesa. Se poi tale prodotto è di qualità eccelsa e gode di grande pubblicità il successo diventa quasi matematico. 
Per "Boardwalk Empire" la consacrazione è avvenuta con la vittoria del Golden Globe come miglior serie drammatica (strappandola ad un'altra grande serie:"The Walking Dead") , oltre a quella di Steve Buscemi come miglior attore. 
La prima stagione, prodotta da Martin Scorsese e da Mark Whalberg, si compone di 12 episodi, che in USA sono stati trasmessi a partire da settembre 2010 e da noi a partire dal gennaio di quest'anno. 
Il plot, che prende spunto dal saggio "Boardwalk Empire: The Birth, High Times, and Corruption of Atlantic Citydi Nelson Johnson, narra le vicende di Enoch "Nucky" Thompson, politico corrotto che si avvia a diventare uno dei più grandi gangster americani.
Siamo nel 1920, il Proibizionismo domina e la malavita sfrutta la situazione creando un commercio di alcolici illegali. 
L'America puritana e conservatrice è lo scenario in cui si muovono i personaggi della serie fra i quali, oltre al già citato Nucky, troviamo Jimmy Darmody, protetto di Thompson e suo fedele uomo, Margaret Shroeder, suffragetta e amante del politico de Eli Thompson, Fratello di Enoch e sceriffo di Atlantic City. A cercare di fermare lo strapotere di Thompson si metterà il detective Van Alden, uomo che ben incarna il malato spirito puritano americano. Ad essi si affiancheranno, nel corso della serie, personaggi realmente esistiti come Al Capone, Lucky LucianoArnold Rothstein.
Da alcuni anni i serial americani hanno raggiunto un livello qualitativo tale da poter quasi competere con un film. Molti quando uscì "Lost" gridarono al miracolo e la giudicarono una serie cinematografica in tutto e per tutto (un fenomeno simile si è avuto in Italia con la serie "Romanzo Criminale".
Ecco "Lost" è un buon prodotto, che però contiene al suo interno tutti i difetti tipici di una serie tv: durata eccessiva, cast di qualità media (anche se in questo caso medio-alta), incongruenze e lacune di sceneggiatura. Diversamente "Boardwalk Empire" risulta essere, almeno riguardo a questa prima stagione, impeccabile.
Oltre a una campagna pubblicitaria e una produzione degna dei migliori film (oltre 60 milioni di dollari), può contare su un cast di livello mondiale con attori come Steve Buscemi, Michael Pitt, Kelly MacDonald (ve la ricordate? E' la Diane di "Trainspotting"), Stephen Graham e Michael Shannon. Tutti attori divenuti celebri al cinema e, successivamente prestati ai serial. Ciò in totale controtendenza rispetto al passato, in cui erano le serie tv a far emergere attori che poi avrebbero ottenuto successo cinematografico. 
Aggiungiamoci poi che il pilot è stato diretto da Martin Scorsese (la sua impronta risulta evidente riguardo ai movimenti di macchina: cura dei dettagli, carrellate laterali e montaggio stile "Padrino" verso la fine della puntata).
Parlando della sceneggiatura non posso che confermare quanto detto fin'ora sulla qualità del prodotto.
I personaggi risultano tutti ben caratterizzati e, cosa rara in una serie tv, presentano molteplici sfumature psicologiche, tant'è che a fine serie non è ancora possibile inquadrarli in un tipo e si ha la sensazione che nel proseguo della trama possano agire in qualsiasi modo. 
Fra i più riusciti annovero senza dubbio Margaret Schroeder, donna virtuosa e composta, fiera ed orgogliosa, in bilico fra l'essere portatrice di valori puritani/cristiani e lo sfruttare il lato femminile e seducente per farsi rapire dal potere (rappresentato da Enoch, che diventerà suo amante).
Altro personaggio riuscito è  Jimmy Darmody: feroce e risoluto quando si tratta di uccidere, sa essere anche molto tenero e romantico nel rapportarsi con le donne con cui instaura relazioni (la moglie e la prostituta), con il figlio e, soprattutto nella sua ricerca di un amore paterno, difficile da trovare in un mondo cinico e spietato come quello della malavita. 
Lascio per ultima la figura di Nucky: Buscemi riesce a regalarci un villain di tutto rispetto, che va oltre la classica tipizzazione del gangster. Uomo dedito ai piaceri della vita, Nucky si rivela, inaspettatamente, grande mediatore e stratega. Sorretto da una personalità senza scrupoli, assetato cronico di potere, mostra di avere anche slanci di generosità sincera e colpisce per l'onestà intellettuale nel prendersi le sue responsabilità. 
Uomo dal passato tribolato, porta i segni del dolore e della perdita, che gli conferiscono un'aria malinconica, magistralmente restituita da Buscemi, attore da sempre considerato secondario, tendenzialmente comico, se non grottesco, e qui chiamato a reggere il peso di un personaggio fondamentale, attorno al quale ruotano le vicende dell'intera serie.
Potrei stare qui a citare, personaggio per personaggio, ogni prova attoriale, ma finirei per scrivere un post lunghissimo. Perciò basti dire che anche i ruoli secondari sono molto ben interpretati.
Per quanto riguarda la trama, essa risulta essere molto accattivante: oltre all'ambientazione, riprodotta in modo magistrale a livello di scenografie e riferimenti storici (vedi il Ku Klux Clan e le battaglie fra nani), colpisce anche il ritmo con cui si susseguono gli eventi, per cui si alternano scene di vita domestica e quotidiana a improvvisi atti di violenza. Tutto ciò contribuisce a creare un mondo vivo e pulsante, all'interno del quale prendono vita le vicende narrate.
Tema centrale dell'opera è il peccato: assistiamo alla lenta corruzione morale dei protagonisti, che alla fine della prima stagione ne escono più "peccatori" di quanto non lo fossero all'inizio.
Molta è la curiosità sull'evolversi delle vicende della serie e v'è grande attesa per la seconda stagione, ad oggi in fase di produzione. Non mi resta che consigliarvi di vedere al più presto questa prima stagione di "Boardwalk Empire", vi piacerà, garantito. D'altronde le storie di gangster non sono sempre piaciute?

Habemus Judicium:
Bob Harris

mercoledì 23 febbraio 2011

MA IL BIONDINO DEGLI 883...CHE FINE HA FATTO?

Pochi giorni fa si è concluso il Festival di Sanremo e fra gli ospiti di quest'anno c'era Max Pezzali. Dal momento che non riesco a concepire il pavese come cantautore, preferisco pensare ai tempi in cui cantava "Con un deca" ed esprimeva un tipo di musica che ebbe un forte impatto sui giovani. 
E' il 1993 e gli 883 sono al culmine del loro successo: è l'anno di "Nord Sud Ovest Est".
Le canzoni, molto orecchiabili, sono contraddistinte da testi a tematiche giovanili, che, pur nella loro semplicità, ben descrivono i sogni, le aspirazioni, i disagi e lo stile di vita di una generazione di ragazzi. Non tutti però ricorderanno che al fianco di Pezzali, ai primi tempi, si esibisce un ragazzo dalla folta chioma bionda e l'aria da bambolotto innamorato
Il suo nome è Mauro Repetto, ballerino di professione, anzi no.
Repetto è stato, insieme a Pezzali, il fondatore e la mente degli 883. I due, cresciuti compagni nei banchi di scuola, erano accomunati da una grande passione per la musica. Molti sono stati i pomeriggi passati fra il Bar Dante di Pavia e lo scantinato di casa Pezzali, in cui i due lavoravano sui testi delle canzoni che tanto successo porteranno negli anni successivi alla coppia.
Il loro debutto televisivo avviene con Jovanotti (la trasmissione era "1,2,3 Jovanotti", A.D. 1989), il successo lo raggiungono grazie al produttore Claudio Cecchetto, il Re Mida degli anni '80/'90 (tra i talenti scoperti ricordo Fiorello, Amadeus, Gerry Scotti e lo stesso Jovanotti). 
Pare che fu l'intraprendenza di Repetto a far sì che la musicassetta con alcuni brani del futuro gruppo arrivasse al produttore; il biondo genovese, infatti, rimase appostato fuori dagli studi di Radio Deejay fino all'uscita di Cecchetto e gli consegnò di persona il nastro, suggerendogli di ascoltarlo. Un gesto che il timido Pezzali non avrebbe potuto mai compiere e di cui ringrazierà a vita l'amico, poiché, da quel momento, due ragazzi come tanti se ne vedono nelle provincie del nord Italia, divengono uno dei gruppi più importanti della scena musicale italiana degli anni 90.
Dicevamo, è il 1993 e gli 883 sono al top, eppure c'è qualcosa che non va.
Max Pezzali ha un bel timbro vocale, che piace al pubblico. E' evidente che nei testi degli 883 grande peso ha l'esuberanza di Repetto, che funge da spinta propulsiva del gruppo. Ma, a parte scrivere, non sa fare nulla. Ciò non costituirebbe un problema, se non fosse che il biondino ha brama di successo e notorietà personale; vorrebbe che il pubblico identificasse gli 883 anche con lui, cosa difficile se sei un uomo nell'ombra e gli applausi sul palco li prende l'altro. Perciò si inventa musicista e ballerino sul palco.
Ma non sa suonare, perciò strimpella su una chitarra vera quanto può essere vera quella di Guitar Hero. E non sa nemmeno ballare, perciò saltella ridicolmente cercando di seguire il ritmo delle canzoni cantate da Pezzali. Va da sé che il pubblico comincia a chiedersi quale sia il suo ruolo e cosa faccia lì, sul palco, assieme al mitico Max. Lui però sembra non badare troppo alle facili ironie, come conferma la dichiarazione rilasciata durante la trasmissione di Red Ronnie "Roxy Bar" del 14 gennaio 1994, in cui afferma di voler continuare a intrattenere il pubblico. 
Ma quella è anche l'ultima volta che Mauro Repetto appare come membro degli 883.
Da allora sorge spontanea la domanda: ma che fine ha fatto il biondino degli 883?
Repetto, folgorato dalla bellezza di una modella nera di nome Brandy, forse stanco del suo ruolo negli 883, decide di andare negli USA per architettare un piano strampalato: dirigere un film con protagonista Brandy per poterla conoscere. 
Quando il primo pescecane si presenta a lui per appoggiarlo nel suo progetto, Repetto gli dà ventimila dollari senza esitare; servono per produrre il film. Vi lascio immaginare come è andata a finire. Deluso e squattrinato (oltre al raggiro Repetto finì quasi tutti i soldi sperperandoli in abiti costosi ed alberghi extra lusso) il nostro eroe torna in patria con le celeberrime pive nel sacco. 
Il figliol prodigo viene accolto nuovamente da Papà Cecchetto che, siamo nel 1995, tenta di rilanciarlo come solista; l'idea è quella di raccontare in musica la sua breve parentesi americana. Il risultato è "Zucchero Filato Nero" (secondo voi a cosa allude il titolo?), l'album più osceno mai concepito nella storia della musica. 
Ne consiglio un rapido ascolto: alle lacune vocali di Repetto, si aggiungono testi che sembrano partoriti da un vecchio allupato. Ovviamente il disco è un flop e Mauro scompare completamente dalle scene, per poi riapparire brevemente nel 1998 ad un concerto degli 883 a Milano come ospite (mostrandosi visibilmente ingrossato fisicamente e rasato in testa).
Di lui, in seguito, sappiamo che è emigrato in Francia e ha sposato una ragazza di colore di nome Josephine, da cui ha avuto due figli.
In Francia ha lavorato ad Eurodisney come Manager, dopo aver impersonato, come animatore, Pippo e l'orso Balù (finalmente il suo saltellare è stato valorizzato). Poi assieme alla moglie ha fondato una ditta di design.
Dice di vivere come una persona normale e di non avere nostalgia degli anni in cui era famoso. Non la pensa così chi lo vorrebbe di nuovo negli 883. Personalmente, credo che sia giusto così, quel giovane estroverso ed irrequieto ha trovato una sua dimensione. A noi rimane il ricordo di ciò che, con gli 883, ha rappresentato e delle emozioni che ci ha regalato.

Bob Harris

martedì 22 febbraio 2011

SUL TRENO DELLA VITA CIO' CHE CONTA E' IL VIAGGIO, NON LA DESTINAZIONE

La vita è un biglietto di sola andata per la morte. Un viaggio con una sola direzione e nessun ritorno. Alcuni non fanno nemmeno in tempo a vidimare il titolo di percorrenza, altri si perdono per le stazioni intermedie, altri ancora preferiscono scendere quando il treno è in corsa.... Per coloro i quali rimangono sul convoglio fino al capolinea, il viaggio non è certo sempre piacevole. Le poltrone sono scomode, il cibo è spesso di bassa qualità, talvolta manca addirittura il servizio vagone. Vi sono momenti però in cui un cuscino e l'aria condizionata rendono tutto l'ambiente più piacevole all'apparenza, al tatto della mente. Già perché pochissimi sentono, vivono, fanno proprio il viaggio. La maggior parte dei passeggeri è troppo presa a fissare il panorama, ascoltare la musica con le cuffiette, a leggere un libro che da troppo tempo tengono aperto sul comodino, o magari a ripassare per qualche esame non ben precisato, strisciare documenti per un lavoro che non sanno nemmeno come si sono ritrovati a fare. Una buona parte è troppo occupata a fissare le gambe della dirimpettaia e pensando a come approciare, come attaccare discorso, spesso finisce per scendere dal convoglio senza aver spiccicato parola. I più intraprendenti magari invece non fanno altro che flirtare per tutto il viaggio e quasi sciolgono nella passione del momento, la fredda coscienza del pensiero, lasciando all'attimo fugace, anzi che alla presente coscienza, la narrazione. C'é chi ovviamente legge giornale, più per vezzo che per interesse, senza riflettere su ciò che legge, perché è troppo impegnato a sentirsi intellettualmente assorto nella lettura di quella che è una spesso inveritiera e tendenziosa informazione. C'é chi affanosamente, nascosto nell'ombra compila, attento a non essere troppo preciso, il modulo di un settequaranta, così al buio da rimetterci la vista, oltre che l'onestà. Abbiamo poi chi parla al cellulare, scrive un messaggio dietro l'altro, chiacchiera amabilmente col vicino: non importa cosa si comunichi, le consuete frasi da conversazione sono più che sufficienti. C'é chi fa molte cose insieme, smarrendo il sapore di ciascuna. E chi infine, irrimediabilmente pigro, si ostina a dormire, forse talvolta a sognare. Nessuno di questi però coglie la propria ragione del viaggio, nessuno di loro la cerca, la costrusice, la orna, la modifica, ognuno si limita a vivere ciò che la contingenza gli offre. Molti sono così soddisfatti, quasi assuefatti dall'essere vissuti, che nemmeno si domandano come sarebbe vivere. Altri benché insoddisfatti, preferiscono nuotare nel lago della banalità, piuttosto che buttarsi nell'oceano dell'originalità, certo insidioso, ma unico, inenerrabile dalla voce di chi, con occhi diversi dai propri, provi a raccontarne le forme, i colori, i sapori, i caleidoscopici giochi di luce. Non esiste un manuale di viaggio, perché le destinazioni sono molteplici, tutte diverse, pur se alla fine tutte uguali... Esiste però il proprio manuale, quello che si scrive, anzi si pensa da soli, perché impresso nella mente è più facile da modificare all'occorrenza ed ovviamente più comodo anche da consulatare, che stampato sulla carta. Questo viaggio che noi intrapendiamo senza volontà, è l'unica opportunità di essere ciò che siamo, in una sorte di genesi autodiegetica di noi stessi, che trova lume nella coscienza. Già la coscienza quella che più di ogni altra cosa ci rende spesso insensibilmente distaccati dal piacere, così come dal dolore, per la sua irragionevole maniacalità di schematizzare e razionalizzare tutto, sintetizzarlo in numeri, in formule. Ma no, la coscienza non è l'occhio bacchettone dell'anima, la coscienza siamo noi e l'anima è una sua invenzione, al tempo brillante, ora francamente ridicola, per incrementare l'empatia di noi stessi col creato, per sentirsi meno soli, lì sui divanetti del vagone passeggeri. L'individualità ha radice nell'inconscio, ma estende i suoi rami, apre le sue foglie, schiude i suoi fiori nell'immensità dell'aria, alla tiepida luce del sole, dove i vincoli della terra sono meno stringenti, pur se indirettamente sempre presenti. La verità è che il percorso del nostro viaggio non lo scegliamo noi, il nostro biglietto ha una destinazione obbligata, e possiamo anche provare a scongiurare il capotreno di cambiare rotaia, ma la verità è che non può ascoltarci, perché non veste i panni dell'uomo, ma quelli del funzionario, anzi impersonifica la funzione, è la funzione stessa: il cappellino e la giacca blu a doppio petto glieli abbiamo cuciti noi addosso per illuderci che ci sia qualcuno di simile a noi a guidare la locomitiva. Solo quando realizziamo, che a dominare il nostro percorso è in realtà la contingenza, la quale, quando diventa del tutto imperscrutabile all'analisi eziologica della nostra mente, si tramuta in caso, allora possiamo provare a modificare e dirigere da soli il nostro viaggio. Sì perché è vero che il percorso è fisso, sconosciuto ed immodificabile, ma il viaggio è un'altra cosa, il viaggio è il modo in cui decidiamo di vedere il percorso: il viaggio è nostro. Allora è bene non farsi abbindolare dal singolo evento, ma iscrivere un senso a tutta la storia, nella sua interezza. Nei momenti in cui si ascolta una bella canzone e fuori dal finestrino ci scorre accanto la meravigliosità del paesaggio, ma anche quando siamo stanchi, nauseati dal viaggio e dall'interminabile successione di gallerie buie che ci si parano davanti. Per fare ciò è bene non legare mai indissolubilmente se stesso alla copertina di un libro: potrebbe andar via la luce. Né alle rallegranti sinfonie che ci regala il nostro i-pod: le batterie prima o poi finiranno. E pur giunta nemmeno alla presenza della nostra compagna di viaggio, occasionale o duratura che sia. Certo ci allieta come null'altro e sembra quasi far svanire l'impressione del tempo, lo spessore delle pareti del vagone, tramutare l'ambiente tutto, renderlo etereo, ma anche questo è un regalo della nostra mente, difficile da scartare e fragile da maneggiare, talvolta effimero, traviante: in ogni caso da vivere nel simposio di romantica passione e consapevole ragionevolezza. Il nostro ego che si abbia il coraggio e la lucidità di ammetterlo o meno, è fonte di ogni pensiero ed impressione, troppo spesso dominatore dominato dai fatti. Solo nell'equilibrio della propria coscienza si potrà godere con sapiente e vitale armonia del nostro viaggio, solo conoscendo ed alimentando la propria mente, si diviene il più possibile compos sui, vivendo così come desideriamo, come vogliamo, non semplicemente come sentiamo. La felicità va piluccata da ciò che ci circonda, ma la mano che l'afferra deve sempre essere ragionevolmente guidata dal nostro Io. Il piacere in fondo è come un fiore di mesembranteno: si schiude solamente al tepore luminoso della coscienza. Improntando la rappresentazione del proprio viaggio su questi binari, l'arrivo al capolinea sarà consapevolmente delineato come inevitabile, ma mai come angoscioso, prossimo, pressante, bensì come secondario, non presente sul treno, magari pronto ad attenderci a qualche stazione che non conosceremo mai, perché quando il treno vi arriverà, noi non saremo più in viaggio, non saremo più passeggeri del convolglio: passati, più che passanti. Concentriamoci sul viaggio, è quello che conta: la partenza e la conclusione sono solo condizioni logicamente ed ineluttabilmente necessarie alla sua esistenza.

Adamantine ego

domenica 20 febbraio 2011

THE KING OF PARACULS

Notizia dell'ultima ora: Ranieri non è più l'allenatore della Roma. E dov'è la notizia? Tanto lo si sapeva, era nell'aria. E per chi ha seguito il suo percorso professionale era ancora più prevedibile.
Sir Claudio inizia la sua carriera da allenatore nel 1986 con il Vigor Lamezia. Due anni più tardi approda al Cagliari, una cavalcata dalla Serie C alla A; passa poi al Napoli portandolo al quarto posto. Esonerato finisce in serie B con la Fiorentina e in pochi anni la riporta nell'élite del calcio. Inizia allora la sua agrodolce avventura spagnola che gli consente di togliersi varie soddisfazioni (tra cui una Coppa del Re) alla guida del Valencia, poi nel 2000 subisce l'esonero quando è all'Atletico Madrid. Dal 2001 al 2004 è al Chelsea, non vince nulla però porta la squadra di Londra al secondo posto e ad una storica semifinale di Champions League. Segue nuovamente l'esperienza nel Valencia, stavolta fallimentare (escludendo la vittoria della Supercoppa Europea). Poi verrà il Parma, che porterà alla salvezza, la Juve e la Roma, con cui non otterrà successi.
Analizzando i risultati conseguiti nella sua esperienza di allenatore credo si possa tranquillamente dire che Ranieri è un buon allenatore. Punto. E invece purtroppo la sua spocchia è spesso andata oltre il suo potenziale (e i suoi risultati) con l'evidente incongruenza di trovarsi di fronte a grandi proclami, non seguiti però quasi mai da fatti concreti.
Certo va detto che l'allenatore testaccino poche volte si è trovato ad avere una formazione, sulla carta, di alto livello; e però vero anche che le occasioni per poter salire di grado come allenatore le ha praticamente toppate tutte. Il primo Chelsea di Abramovich era sicuramente una squadra nuova che necessitava di tempo per assimilare il brusco impatto economico del magnate russo. E' evidente però che, a fronte di un'investimento di oltre 100 milioni di sterline, che portò all'arrivo fra gli altri di Makelele, Duff, Joe Cole, Crespo, Mutu e Veron, ci si poteva aspettare qualcosina in più dal tecnico nostrano. Ma concediamogli l'attenuante del primo anno, comunque positivo. Non avremo mai la controprova se l'anno successivo avrebbe finalmente ottenuto successo. Di fatto Mourinho nel 2005 portò il Chelsea ad uno storico titolo, mentre Ranieri fallì con un Valencia costruito a sua misura (fece acquistare Corradi, Di vaio e Moretti).
Fu poi bravo a portare un Parma in crisi alla salvezza. Poi purtroppo lo acquistò la Juventus.
Fece subito sentire la sua presenza monopolizzando le scelte nella campagna acquisti: arrivarono Thiago e Almiron, che sulla carta avrebbero dovuto rivitalizzare il centrocampo bianconero, ma che si rivelarono acquisti inutili svenduti per poche noccioline. Si guardò comunque positivamente al terzo posto conseguito con la "neopromossa". 
L'anno dopo arrivarono Amauri e Poulsen, quest'ultimo preferito a Xabi Alonso. Si, avete capito bene. Non è che lo spagnolo costasse troppo (al massimo 5 milioni di euro in più) , è che Ranieri fece una scelta tecnico-tattica incomprensibile. 
Risultato: esonero alla penultima giornata quando rischiava di non entrare nemmeno in Champions. La Juve prese Ferrara e fece peggio di lui. Ranieri ne approfittò bassamente per attaccare la scelta di esonerarlo da parte della dirigenza, fregiandosi del fatto che, lo stesso anno, portò la Roma ad un gran secondo posto con scudetto sfiorato. 
Quest'anno, invece, tanti bassi e pochi alti. Lascia una Roma all'ottavo posto, quasi fuori dalla Champions e uno spogliatoio pieno di grane (su tutti Adriano,che a dire il vero non c'è proprio nello spogliatoio, Totti e Pizarro). Stavolta però è stato più furbo lui: come al solito ha deluso quando c'era da fare il salto di qualità e portare la squadra alla vittoria, ma diversamente da prima se n'è andato lui: almeno non si è fatto cacciare. 
Si è sempre impettito di fronte a persone più blasonate di lui (vedi Mourinho, Blanc e la stessa dirigenza della Roma) senza mai mostrare la sua presunta superiorità sul campo. Lascia la Roma con una dichiarazione degna del suo palmarés mediatico: "Ho sempre pensato al bene della Roma, lascio per darvi una scossa". King of Paraculs.
Mi auguro per la società giallorossa che non si riveli uno iettatore, come ebbe a millantare in una sua recente dichiarazione: " Chi viene dopo di me fa sempre peggio". Tiè!
Ognuno sia libero di pensarla come vuole, per me Ranieri resta un allenatore da compitino, pure bravo nello svolgerlo, ma che non sarà mai un vincente.

Bob Harris

"KITCHEN": LA CUCINA DEL SOL LEVANTE

«Felicità è anche non accorgersi che in realtà si è soli»

Di questi tempi, quando si pensa alla cucina giapponese, a noi occidentali medi viene subito in mente  solo una parola: Sushi. Ma non è al tipo di cucina e ai piatti nipponici che si riferisce il titolo del primo libro di Banana Yoshimoto, edito in patria nel 1988 e dai noi pubblicato tre anni più tardi. 
"Kitchen" attinge dalla categoria dei manga Shojo, una produzione fumettistica destinata ad un pubblico femminile che va dai dieci anni fino ai diciotto. Ovviamente non è un racconto per adolescenti, anzi. Di giovanile ha solo lo stile sempliceimmediato, privo di artifici tecnici, che rende la narrazione sempre viva ed interessante. 
La cucina, qui intesa come luogo fisico, rappresenta la costante nell'evolversi degli eventi e diventa il rifugio per i protagonisti, in cui proteggersi dal mondo esterno, una sorta di non-luogo dove poter dimenticare i problemi che assillano i fragili animi dei personaggi.
La protagonista, Mikage, rimasta orfana della nonna con cui viveva, trova rifugio in casa da Yuichi, suo compagno di università. La giovane studentessa è patita di cucina e sogna di diventare una grande cuoca; per Mikage e Yuichi il punto di riferimento fondamentale è Eriko, madre di Yuichi,
Tra i due ragazzi sorge un amore platonico che sembra non doversi mai concretizzare; essi rifondono la propria solitudine, le loro paure, fuori dalla cucina e all'interno di essa sembrano vivere in uno stato di immobilità perpetua rispetto ai problemi che si portano dietro. A rompere questo meccanismo interverrà la dura realtà che costringerà i due giovani a compiere delle scelte importanti e ad uscire dal loro guscio emotivo e fisico.
Non aspettatevi una narrazione ricca di colpi di scena o di forti emozioni, siamo dinnanzi ad un racconto pervaso da un senso di velata malinconia velata. Il disagio che vivono i personaggi, le loro emozioni, nonché il tema della famiglia che ribalta la concezione tradizionale, vengono affrontate con la delicatezza e l'eleganza propria di una sensibilità narrativa orientale con i suoi rigidi schemi tipici di una società rituale come è  quella giapponese.  
Per chi, come me, è profondamente affascinato dalla cultura e dallo stile del Giappone questo libro costituisce uno degli innumerevoli tasselli fondamentali per poterne comprendere e amare l'essenza. Da questo racconto è stato tratto un film.
Io però vi consiglio di fermarvi qui, all'opera prima di Banana, che è anche il suo capolavoro.

Habemus Judicium:
Bob Harris

sabato 19 febbraio 2011

"IL CIGNO NERO - BLACK SWAN": DOPPIO COMMENTO


Comincio subito col dire che il film merita di essere vistocomunque ne pensino i critici e comunque ne penserete voi dopo.
La storia è quella della ballerina di danza classica che deve fare i conti con la doppia natura dell'essere umano, per poter raggiungere la perfezione nell'interpretare i due ruoli principali de"Il Lago dei Cigni": il bianco, che incarna la figura di Nina così come la veniamo a conoscere dall'inizio; il nero che rappresenta il lato oscuro dell'animo, la parte più istintiva, sessuale, perversa, quella che la frigida ballerina dovrà tirar fuori da sé, in un percorso doloroso (anche fisicamente) che la porterà a negare se stessa, in un vortice di auto distruttività. 
Il film sta tutto qui. E non potrebbe essere altrimenti.
Così come "The Wresler" si reggeva sul fisico maciullato di Mickey Rourke, "The Black Swan" punta tutto sulla candida fisicità di Natalie Portman, emblema di dolcezza ed eleganza (sicuramente, per chi scrive, non di purezza: ho ancora impresso in mente il suo spogliarello in "Closer"). 
In entrambi i casi Aronofsky vince la scomessa, ed alla grande direi. 
Lo hanno criticato dicendo che il suo stile rozzo e frenetico poteva solo funzionare in un film spartano come "The Wrestler". Ed invece la ripresa che segue in soggettiva continua la protagonista ci trasmette tutta la sua sofferenza, il sudore e l'incertezza della giovane ballerina.
Aronofsky trascina lo spettatore nella spirale di follia allucinata di Nina, nella sua intimità, nelle sue fantasie e lo costringe a trattenere il respiro di fronte al frenetico susseguirsi degli eventi, rimanendo preda delle angosce di Nina.
Quello della danza è un mondo solo in apparenza patinato e candido; dietro l'immagine di copertina troviamo una brutalità perfettamente sintetizzata nella personalità repressa e ossessiva di Nina. E' questo il fulcro del film: l'ossessione come unico mezzo per poter essere perfetti. Non si può prescindere dal sacrificio totale.
Personalmente lo trovo un capolavoro nel suo genere (si parla di thriller/horror psicologico); i piccoli difetti (scena lesbo da film porno, il personaggio di Mila Kunis che presenta alcune incongruenze e tipizzazioni) non inficiano la portata o indeboliscono il potente messaggio.
Ma poi... quant'è bella Natalie Portman?

Giudizio:

Bob Harris




Spiazzare lo spettatore, calarlo nelle angosce dell'essere umano, nel turbinio allucinato di una giovane donna. Questo l'obiettivo cercato e raggiunto da Aronofsky con "Il Cigno Nero" (2010).
La storia è quanto mai semplice. Nina (Natalie Portman) è una giovane e talentuosa ballerina di danza classica. Da sempre sogna di diventare l'étoile, e finalmente è arrivata la giusta occasione: Thomas Leroy (Vincent Cassel), il direttore artistico, annuncia di voler sostituire la prima ballerina, Beth, e di voler allestire "Il lago dei cigni"; i due ruoli principali, il cigno bianco e quello nero, saranno interpretate dalla stessa persona. Nina è pronta a tutto per aggiudicarseli.
"Il cigno nero" muove lentamente e lascia indizi allo spettatore: il rapporto morboso tra Nina e la madre (un'ex danzatrice mediocre che non riuscì a far carriera), un impedimento che non l'ha fatta mai uscire dall'adolescenza; il rapporto ossessivo con la danza, cadenzato dalla continua ricerca della perfezione; la tendenza autolesionistica.
E lentamente, Aronofsky ci irretisce calandoci nelle torsioni psichiche della ballerina, un climax di follia che porterà ad una lotta senza campo tra il puro/infantile e l'eros.
C'è poco da dire, Aronosfky non sbaglia (quasi) nulla. Mescola sapientemente il reale con l'onirico e dona allo spettatore un notevole thriller psicologico polanskiano (mi ha ricordato quella meraviglia visiva di Repulsion (LINK) ), sostenuto da un corpo/mente in disfacimento datoci in pasto con le continue soggettive. Al momento la migliore esperienza cinematografica di questa stagione.

Giudizio:

Thomas

MANNAGGIA AL BASEBALL STYLE

Dead e Euronymous
Di storie strane nello showbiz se ne sentono. Una di queste proviene dalla Norvegia, più precisamente da Oslo. Yingve Ohlin, in arte Dead (nomen omen...), era un cantante di musica death e black metal, famoso per aver militato nel gruppo dei Mayhem. Come la maggior parte dei gruppi  di questo tipo, i Mayhem erano esponenti di un tipo di musica cattivaMorte, satanismo, oscurità, solitudine, disagio esistenziale, nichilismo, blasfemia sono alcuni dei motivi ricorrenti e più importanti del genere. 
Sicuramente l'ingresso nel gruppo del giovane Dead accentuò ed esasperò questo gusto. Lo screamer era talentuoso nel far risuonare versi gutturali intrisi di morte e disperazione
E come mai vi direte!? Chi lo conosce parla di lui come di un ragazzo solo, alienato dalla realtà terrena e di mente particolarmente instabile. Se poi ci aggiungiamo alcune stravaganze come la volontà di apparire un vero e proprio cadavere (si pittava il volto di bianco, rigirava gli occhi all'insù e spesso seppelliva i vestiti con cui sarebbe salito sul palco, riesumandoli poco prima di esibirsi) e l'uso di conservare animali morti per poter respirare odore di morte, si può avere un quadro completo del personaggio. 
Il 22enne svedese, faccia da bravo ragazzo, dava l'impressione di essere stanco di vivere, difficile però, per i più, ipotizzare ciò che avvenne l' 8 aprile del 1991, in un appartamento poco fuori Oslo; quando Euronymous, il chitarrista dei Mayhem nonché coinquilino di Dead, entrò in casa, trovò il corpo dell'amico riverso a terra con vene tagliate e cranio spappolato da un colpo di fucile. Accanto al corpo si trovava anche un biglietto su cui scritto: "EXCUSE ALL THE BLOOD".
Da qui in poi la storia assume una connotazione grottesca: Euronymous informò la polizia dell'accaduto, non prima però di essersi recato al primo negozio a comprare una macchina fotografica per immortalare l'evento (si vocifera inoltre che raccolse alcuni pezzi di cervello che in parte mangiò e in parte regalò agli amici più "degni"). Le foto si diffusero e finirono pure in rete, furono ritirate, ma una rimase in circolazione e divenne la cover del bootleg dei Mayhem "Dawn of the Black Hearts".
Lo stesso Euronymous fu vittima di un altro episodio efferato. Venne ucciso a coltellate da Varg Vikernes, membro anch'egli dei Mayhem; i due avevano divergenze politiche insanabili: lui era un comunista di stampo maoista, Vikernes era un razzista e nazista. Doveva finire così. 
Non che fosse uno stinco di santo, di cui dispiacersi particolarmente. Oltre al profondo senso di umanità di cui sopra, Euronymous era noto per essere implicato in omicidi, roghi di chiese ed altri atti vandalici-blasfemi. 
Ora, io in Norvegia ci sono stato e per carità, dopo un po' il clima e l'ambiente ti incupiscono, un lieve disagio comincia a sfiorarti l'animo e magari inizi pure a comprendere l'angoscia che pervade i quadri di Edvard Munch nella sua rappresentazione ossessiva di Oslo. Però dai è una città così bella e affascinante (me la sono fatta tutta in bici!) ed i norvegesi, a dispetto della loro compostezza tipica del carattere nordico, sono pure molto simpatici. O almeno quelli che ho conosciuto io (avessi incontrato Dead ed Euronymous magari oggi la penserei diversamente). 
Ma, probabilmente, le cause del malessere che portò Dead a tirare il calzino non erano dovute principalmente all'ambiente norvegese. Così come Luigi Tenco, che si dice che si suicidò perché a Sanremo nessuno riusciva a capire la sua musica, anche Yngve si sentiva un incompreso. Ed a spiegarcelo fu Euronymous, che in un'intervista, a proposito di Dead, disse: «voleva fare musica cattiva per gente cattiva, ma si sentiva circondato solo da persone che andavano in giro con tute, cappelli e scarpe da baseball. Li odiava tanto e non vedeva più una ragione per perdere tempo con loro».
Beh, quando si dice Fashion Victims...

Bob Harris

INCIPIT

Nasciamo un po' per noia, un po' perché sentiamo la necessità di dire e dirci qualcosa.
Parleremo di cinema in primo luogo, nostra grande passione, e di tutto ciò che coglie la nostra attenzione. L'Iperione da cui abbiamo preso ispirazione non è la figura mitologica greca, bensì l' Hyperion di Holderlin, opera romantica di fine '700 incentrata sul tema della ricerca.
A presto con i primi post.

Lo Staff de L'Iperione