lunedì 27 agosto 2018

L'ANGOLO DEL CULT #12: "NIGHTMARE I-DAL PROFONDO DELLA NOTTE" (1984) DI WES CRAVEN

«È mezzanotte, e questa è Tele Krueger che vi dà la buonanotte...»
-Freddy Krueger-

Primo di una saga che darà alla luce 6 film di successo, “Nightmare on Elm Street” di Wes Craven segna l'inizio di qualcosa unico nel suo genere.
Il film è pioniere di un tema che verrà ripreso successivamente nel corso della storia del cinema e nelle forme più svariate: la geniale idea di porre il momento di maggior pericolo durante il sogno, la fase in cui si è maggiormente vulnerabili, inermi, abbandonati, e qui focalizzare temi horror e grotteschi
Una notte Nancy, si sveglia terrorizzata dopo un incubo: ha sognato che un mostro dalla mano artigliata tentava di ucciderla. Ma la cosa sconvolgente è che lo stesso è accaduto ai suoi amici. Ben presto sarà chiaro, per Nancy e gli altri, che dietro questa inquietante apparizione, si nasconde una terribile verità del passato con la quale dovranno fare i conti.
Wes Craven, da ottimo burattinaio sia nella stesura della sceneggiatura che nell'atto della regia, calcola ogni ciak creando fin da subito suspense e coinvolgimento, immergendoci in un'atmosfera in cui realtà e onirico vengono mescolati, in cui ognuno di noi può essere colpito.
Quale miglior luogo in cui attaccare se non quello dove ci si sente al sicuro e non si riesce a controllare la razionalità?
Sin dai titoli di testa lo spettatore viene catturato ed incuriosito da questo personaggio, di cui ancora non viene svelato il volto, ma che già in modo arguto, si caratterizza e si costruisce come un artista, che con calma forgia le sue armi e si prepara ritualmente a compiere la sua vendetta. Poche inquadrature e Craven costruisce una tensione perpetua, un contatto mediatico che ci cala rapidamente nell'atmosfera della narrazione.
Iniziamo subito a conoscere qualcosa di lui venendoci mostrate le sue armi; in che modo egli riesca a portare, con tanta sicurezza, a compimento i propri atti sarà svelato solo dopo.
Freddy Krueger, il killer, possiede una propria identità peculiare che lo contraddistingue da ogni altro collega del genere, nel vestire, nelle fattezze e nei tratti caratteriali: incalza con maestria e consapevolezza le sue vittime e le governa con dimestichezza e astuzia; contorce e riversa freudianamente l'inconscio.
Il film è un grande spettacolo dall'inizio alla fine. Grazie ai notevoli effetti speciali. Grazie a scene una più riuscita dell'altra; è un continuo susseguirsi di trabocchetti, inquadrature e momenti ricchi di pathos. Topica l'inquadratura in piano medio in cui dal muro sopra il letto artigli e silhouette del villain prendono forma nella camera della protagonista, la quale, ignara ma impaurita, ricorre alle preghiere abbracciando un crocifisso, oggetto feticcio di protezione iniqua.
Freddy Krueger è abile nel creare e far vacillare le convinzioni dei personaggi, minando la credenza stessa che egli possa dapprima essere placato e poi sconfitto, fino ad arrivare alla cruda verità che nulla, nel suo mondo, può distruggerlo. Poi emerge un ulteriore tema su cui ragionare: il linciaggio compiuto dai genitori che innesca la trama dell'intera saga e riconduce alle loro colpe che inesorabilmente ricadono sui figli. Chi combatte contro i mostri sta combattendo contro le proprie paure: o le si affrontano o si soccombe.
Questo, da qui in poi, sarà un leitmotiv costante della Metafora Krueger. E quando si guarda a lungo in un abisso, anche l'abisso ti guarda dentro: tra turbamenti adolescenziali e naufragi dell'inconscio,  “Nightmare-Dal profondo della notte” conquista il podio degli slasher movie.
L'uomo nero non è morto.
Welcome to Elm Street.

Habemus Judicium:
KiaEsse

lunedì 20 agosto 2018

L'IPERIONE IN ORIENTE #6: "VIAGGIO A TOKYO" (1953) DI YASUJIRO OZU

Ozu è stato una chicca. Poco esportabile per via del suo stile so nippo, la sua filmografia è stata falcidiata dagli eventi bellici della WWII, tant'è che più di una 20ina di suoi film sono andati persi. Entrambi questi fattori, uniti alla morte più o meno prematura nel 1963, hanno condizionato la distribuzione della sua arte, mai arrivata in Italia ed in generale uscita di rado fuori dal Giappone. 
Ma, piano piano, di cinefilo in cinefilo e di festival in festival, è avvenuta un'opera di rivalutazione, fino al culmine di un Wim Wenders che, da sempre estasiato dal regista giapponese, gli dedica un  documentario, "Tokyo Ga", e del riconoscimento dei registi di tutto il mondo che eleggono "Viaggio a Tokyo" miglior film di sempre. 
Ma "Viaggio a Tokyo" è il miglior film di sempre?
No. O meglio... 
Trama: Shūkichi e Tomi Hirayama, alla soglia dei settant'anni, decidono di andare a trovare i figli a Tokyo. Lasciano dunque la loro città, Onomichi, nei pressi di Hiroshima, e si apprestano ad affrontare un lungo viaggio in treno alla volta della capitale.
Arrivati a Tokyo, trovano ospitalità prima nella casa del figlio Kōichi, un pediatra, e poi in quella della figlia Shige, parrucchiera. Si rendono però conto che i figli, alle prese con il lavoro e la famiglia, non hanno tempo per loro. L'unica che ha davvero a cuore i due anziani coniugi, anche se non legata a loro da alcun legame di sangue, è Noriko, vedova del secondogenito Shōji, morto in guerra. 
Il motivo per cui molti registi vanno pazzi per l'opera di Ozu risiederebbe nel minimalismo espressivo del regista. Movimenti di macchina inesistenti, inquadrature fisse e messa in scena ricchissima: in una singola inquadratura succedono molte cose nei film di Ozu. Vari personaggi si alternano a riempire la scena di "Viaggio Tokyo", e nella loro semplice e rituale gestualità celano molteplici significati. È chiaro che il ritmo lento e rilassato dei genitori si contrappone alla nevrotica ed ipercinetica presenza scenica dei figli. 
La metafora è quella dei tempi che cambiano, della perdita di valori antichi e secolari, spazzati via dalle nuove generazioni borghesi e dalla modernità di una Tokyo alla deriva occidentale, identificata (in diversi cambi di scena) con delle ciminiere fumanti, simbolo di un progresso autodistruttivo.
Col senno di poi possiamo dire che quelle di Ozu non erano semplici paure verso un progresso inarrestabile. La società di massa che spazzerà via una tradizione millenaria è dietro l'angolo e il regista, da grande osservatore dei suoi tempi e della  società, lo capì subito. 
Potremmo dire che in "Viaggio a Tokyo" non succede nulla, ed è vero, ma proprio in questo sta la grandezza di questo autore: riuscire a rappresentare, semplicemente tramite fitti dialoghi ed espressioni corporali (da ciò l'importanza per il regista di avere attori feticcio come Chishū Ryū), le sfumature più impercettibili dell'essere umano, senza dover ricorrere a espedienti cinematografici o adrenalinici stile Hollywoodiano, o calcare la mano ricorrendo alla straziante (e spesso patetica) visione drammatica, tipica del cinema neorealista italiano
L'approccio di Ozu alla morte e alla disgregazione ha un gusto tipicamente orientale. Si assapora nell'arco di tutta la pellicola un senso di delicata nostalgia e un lento avviarsi verso l'ineluttabile fine di un'era. La morte viene affrontata come un qualcosa di naturale e rassegnato, non è mai enfatizzata. 
Nel mondo contemporaneo ci dice Ozu, non c'è spazio nemmeno per la pietà filiare, non ci si può girare un secondo a rimirare il passato e ciò che esso ci porta in dote. La parola d'ordine è tabula rasa: chi non si adatta o non è considerato, o è solo un peso, alla meglio un nostalgico. 
A cavallo tra la guerra ed il boom economico, Ozu consegna alla memoria futura un'opera che, intrisa di poetica malinconia, riflette sulle mutilazioni della modernità. "Viaggio a Tokyo" non è il miglior film di sempre, ma, forse, potrebbe esserlo.

Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 13 agosto 2018

"LA BAMBINA CHE AMAVA TROPPO I FIAMMIFERI" (1998) DI GAETAN SOUCY

«Essendo io il segretariano quel giorno, avevo il diritto d'indulgiare a uscire dal letto dei campi dopo una notte all'addiaccio e mi ero appena messo a tavola davanti all'incunabolo quand'ecco che fratellino scende da basso».
Segretariano, incunabolo, addiaccio. Seguiranno misteriosi Giusti Castighi, teche e donne da collocare tra le Puttane o le Sante Vergini.
Poche righe e ci ritroviamo in un mondo altro, cadenzato da una scrittura sopraffina che mescola un linguaggio arcaico a sconcezze, un neo-volgare che ci pone in un tempo indefinito che può essere oggi o l'alto medio evo.
Il luogo è anch'esso indefinito, una grande casa, circondata da campi con una pineta fitta che le si staglia dinnanzi e la isola da ogni forma di civiltà.
I protagonisti sono due, anzi tre.
Padre è un'entità evanescente. E' morto nella pagina bianca, prima ancora che l'inchiostro abbia iniziato a tracciare la storia, eppure impera moralmente e fisicamente. E' stato un uomo violento, un Dio folle e dispotico che ha generato due figli, gli ha imposto il proprio codice etico-religioso, li ha salvaguardati da ogni contatto con l'esterno rendendoli dei selvaggi.
Ciò che sanno i due fratelli della vita lo hanno appreso dalla bocca del padre o dai poemi cavallereschi presenti in libreria. La morte di Padre è quella del dio nietzschiano, il crollo dei valori e del senso delle cose che li costringerà a prendere in mano le redini della vita. E uno dei due fratelli, quello più portato alla parole, ci scriverà in prima persona la (sorprendente) storia.
"La bambina che amava troppo i fiammiferi" è un tumulto che scuote la coscienza del lettore, un thriller dalle tinte grottesche e macabre che non smette mai di stupire.
Secco quanto la "Trilogia della città di K." (LINK) della Kristoff (con il quale condivide la forza straniante e spersonalizzante della violenza), Gaetan Soucy centellina gli indizi con parsimonia ed edifica una nebulosa narrativa in cui ci si smarrisce. Sono i piccoli dettagli a fare la differenza, fatti accennati, lasciati e ripresi, che mettono alle corde il lettore portandolo a vivere la meraviglia del sublime all'interno di un orrido mistero che sembra non aver mai fine.
Un ultimo consiglio cari lettori. Come avrete notato, non ho messo (come mio solito) la copertina del libro. Il motivo è semplice, questa dice troppo. Fate una cosa, andate dal vostro libraio di fiducia (o mandate un ambasciatore al vostro posto) e fatevi mettere una fodera di carta come si faceva ai tempi della scuola. Sarà necessario per non rovinarvi questa festa della lettura.

Habemus Judicium:
Ismail

domenica 5 agosto 2018

"BIANCA" (1984) DI NANNI MORETTI

«A casa mia succedono cose strane. Le piante, io le annaffio ma loro muoiono lo stesso. La frutta marcisce. I muri, sembra che avanzino»
-Michele Apicella-

Con "Bianca" Nanni Moretti entra nell'olimpo del cinema italiano e si impone definitivamente quale autore con la A maiuscola. Lo fa portandosi dietro Michele Apicella (il cognome è quello della madre da nubile), l'alter ego che resisterà sino a "Palombella Rossa" (1989) e nel quale riversare dubbi, nevrosi ed amnesie.
In "Bianca", Michele è un giovane professore di matematica; da poco si è stabilito in una nuova casa a Roma e qui fa conoscenza con i suoi vicini: Massimiliano (interpretato da un giovanissimo Vincenzo Salemme) ed Aurora, una giovane coppia alle prese con i problemi di tutti i giorni, e Siro (l'immenso Remo Remotti), un anziano signore amante delle donne e della bella vita. Michele troverà l'amore nella professoressa di francese, Bianca (Laura Morante). Sullo sfondo una serie di delitti che sconvolge la quotidianità del suo palazzo.
In poco più di un'ora di film, Moretti riesce a condensare tutta la freschezza e la vitalità del suo pensiero, una visione della settima arte che si impone con uno stile e contenuti propri.
"Bianca" non è nient'altro che un giallo alla Agata Christie e, per caratteristiche, il Nanni protagonista, così arroccato nella sua ossessiva ma meditante superiorità, può ricordare un Ercule Poirot più logorroico e meno pacato. Moretti ci propone la sua visione del cinema di genere, una propensione hitchcockiana (si vedano I richiami a "La finestra sul cortile") in cui non ostentare il delitto. Un film su un serial killer non deve finire in una colata splatter à la "Harry-Pioggia di sangue"; è la telecamera ad uccidere, facendo semplicemente scomparire le persone dal suo obiettivo. 
Ciò che appare evidente nell'opera di Moretti è una ricerca costante del nonsense e del surreale, anche qui, quasi a richiamare un altro sommo confronto con il primo caustico Woody Allen.
Il raffronto con l'autore statunitense non è casuale e limitato: c'è l'idea dell'autore/protagonista, una visione cinica (ma a piccoli tratti incantata) della società contemporanea; c'è il suo interagire con una moltitudine di personaggi, piazzati lì lungo il suo percorso egotico, con lo scopo di giungere, tramite un costante dialogo maieutico, ad una ragionata ed rinnovata consapevolezza di sé. 
E poi quella visione così conflittuale e psicoanalitica della relazione sentimentale: l'attitudine di Moretti ricorda facilmente l'Allen di un "Bananas" o di un "Io e Annie". Personaggi in costante lotta con le proprie fisime, arrapati ed impauriti, sempre messi di fronte all'Amore, desiderosi e disillusi nella sua ricerca, ma incapaci di accettarlo veramente quando si palesa.
Michele Apicella, come Moretti, è un raffinato osservatore della realtà circostante e delle dinamiche umane. Tramite i vari personaggi comprimari ci offre un prospetto dei rapporti umani nelle loro varie declinazioni ed elabora una riflessione, piuttosto esistenziale, del sentimento umano. Dal particolare al generale/universale, come da manuale.
Tra una scena memorabile e l'altra (il barattolo gigante di Nutella con cui lenire le nevrosi d'amore, il monologo sulla torta Sacher) si giunge al dipanamento dell'intreccio. 
Il film riesce a mantenere saldo il proprio filo conduttore, nonostante la miriade di riflessioni ed episodi slegati dell'intreccio principale e, tutto sommato, Moretti ci porta per mano al finale con la trillante curiosità di scoprire il nome dell'assassino. 
Questo significa essere autori: piegare il genere alla propria visione, sfruttarlo per raccontare e raccontarsi, ma rispettandone la struttura e la forza narrativa. 
Moretti uber alles!

Habemus Judicium:
Bob ft. Ismail