lunedì 29 gennaio 2018

"ARRIVEDERCI AMORE, CIAO" (2002) DI MASSIMO CARLOTTO

«La solitudine di quella donna era agghiacciante, e la solitudine era l'unico lato dell'esistenza che mi faceva paura. Quando sei solo e privo di mezzi, diventi preda di qualcun altro. Come avevo fatto io con lei»

Non lo so se il romanzo sia frutto della sua sola immaginazione o che Massimo Carlotto abbia messo a frutto (come ci suggerisce la quarta pagina) le conoscenze fatte durante la militanza prima, la latitanza poi ed infine il carcere. L'unica cosa che ci è dato sapere è che con "Arrivederci amore ciao" fa centro.
Il protagonista, Giorgio Pellegrini, è un ex terrorista rosso. Latitante dapprima in Francia, si è poi riciclato come guerrigliero in una giungla del centro America. In realtà non è che abbia mai avuto chissà quali ideali e anche la sua ultima esperienza sta lì a dimostrarcelo. Mai sugli scudi, sempre in retroguardia nel tentativo di salvarvi la pelle.
Giorgio si rende conto di non poter continuare con questa vita. Deve lasciarsi definitivamente alle spalle l'esperienza politica che lo costringe a fuggire e nascondersi. Vuole tornare a casa. Ha un unico vero scopo: divenire un vincente, essere un uomo di successo.
E Come vi chiederete voi...la risposta è semplice, prevaricando il prossimo.
"Arrivederci amore ciao" è un opera che racchiude l'essenza del noir. Un romanzo che più nero non si può, plumbeo, privo di qualsiasi sentimentalismo e false speranze, un linguaggio secco e tagliente che sporca il lettore mettendolo nei panni di un pezzo di merda privo di qualsiasi morale.
C'è Pellegrini in primo piano e poi c'è il Veneto da bere sullo sfondo, una locomotiva economica, il frutto della sana della borghesia capitalista del nord-est. Quella che ci mostra Carlotto è una società isterica e corrotta che si crede à la page, ma che è saldamente ancorata in dinamiche provinciali da branco. Una provincia cattiva in cui tutto (o quasi) è ammesso, l'importante è non far scandalo e non dare adito a pettegolezzi. Giorgio Pellegrini ci sguazzerà alla grande in questa melma e continuerà a farlo in un secondo morboso ed asfissiante romanzo: "Alla fine di un giorno noioso" (2011).
Alla fine della lettura mi sento il lordume addosso, Carlotto mi ha reso complice del suo Pellegrini.
Questa è una pietra angolare del romanzo nero, c'è da spellarsi le mani.

Habemus Judicium:
Ismail

giovedì 25 gennaio 2018

"ULTIMO SAMURAI" (2003) DI EDWARD ZWICK

Nel 2003 esce nelle sale cinema "L'ultimo Samurai", ovvero la storia di come Tom Cruise è così figo da aver timbrato sia la battaglia di Little Big Horn sia quella dei Samurai contro il capitalismo che avanza.
Ovviamente, in entrambe le occasioni, sempre sugli scudi e bello impettito e, ovviamente, uscendone da figo, ma, soprattutto, con due graffietti, mentre gli altri stronzi correvano verso il suicidio agonizzanti e in preda a deliri di onnipotenza.
Il film comincia con il generale Tom reduce dalla guerra/massacro degli indiani che si ricicla a promuovere fucili per la Winchester ed è perennemente ubriaco.
Cazzo! Un film che ridicolizza la figura di un alto grado dell'esercito!
Cioè, ci mostra come la guerra sia uno stupido gioco di potere che manda al macello dei burattini e rende dei reietti i reduci che hanno la fortuna di sfangarla... Questa si che è una bella critica!
...E invece no!
Tommy non ha nulla contro la guerra, cioè, si sente in colpa perché ha notato che, forse, gli indiani hanno fatto la parte degli agnelli sacrificali e i suoi capi erano dei beceri imperialisti. A questo punto non è un povero ubriacone. Eh no, diventa automaticamente il bello e dannato, genio e sregolatezza e, quel cicchetto, fa anche molto figo, a pensarci bene.
Comunque arrivano dei tizi che gli propongono alte cifre per andare in Giappone ad addestrare l'esercito dei capitalisti. A sto punto Tommaso si scorda della sua crociata no global e della sua critica all'imperialismo e cede al vile denaro giapponese.
Ricapitolando, abbiamo Tom alias capitano Algren; Mr. Graham, sua spalla buffa deputata al ruolo; Omura, cioè un CiccioGiapu, primo ministro dell'imperatore, quello cattivo cattivo che ha messo su la spedizione; infine, il colonnello Bagly, cioè il rivale di Algren, anche lui reduce assoldato da Omura, ma stronzetto e spietato, che, durante il film, punzecchia Algren che manco la capo Cheerleader con la sfigata del college.
L'allegra comitiva arriva in Giappone e parte l'addestramento.
A un certo punto c'è un'imboscata dei Samurai, che fanno il culo agli uomini di Omura non ancora addestrati per bene. Tommy, manco a dirlo, combatte come un toro, senza mollare un centimetro, pur essendo uno contro tutti. Manco a dirlo, la sfanga anche stavolta con una pacca sulla spalla.
Fatto sta che viene catturato dall'esercito di Samurai guidati dal nobile Katsumoto, interpretato da Ken Watanabe, che ha un figlio mongoloide. Costui, ben lungi dal giustiziare Algren, o anche solo dal semplice imprigionarlo, gli fornisce un ryokan in cui vivere.
Casualmente, è lo stesso ryokan in cui abitava uno dei samurai uccisi da Tommy, adesso occupato dalla vedova e dai figli. La famigliola la prende subito bene però: i figli del defunto vedono già Tommaso come un padre meraviglioso e la vedova, Taka, dopo aver fatto un po' la difficile, se lo stratromba.
La vita nel villaggio dei Samurai procede bene: Katsumoto si prende bene del trascorso di Algren, dopo essere venuto a conoscenza del suo passato e del suo legame con il generale Custer e si lascia andare in lunghi dialoghi con il nostro beniamino, in un inglese degno di un madrelingua, seppur imparato in pochi giorni; per di più Algren viene istruito all'arte del Kendo e, con la stessa prodigiosa velocità di Katsumoto, diventa un Super Samurai in pochi mesi.
Ad una certa c'è un attacco di Ninja cazzuti,  assoldati da Omura,  al villaggio di Katsumoto. Questi si nascondono e si muovono nell'ombra bardati e pitti  di nero. Insomma, i classici Ninja. Peccato che vengano quamati da chevelodicoafa Tommy e,  dopo pochi minuti, hanno praticamente stirato le zampe tutti, senza peraltro aver seccato quasi nessuno e con Algren che se li beve facile facile. Lo scontro kitsch da z-movie Samurai-Ninja termina con un rotondo 3 a 0.
Ma il rumore del nemico si leva nell'aria e lo scontro è alle porte.
Tommy decide di sposare la causa dei Samurai e assurge subito al rango di braccio destro di Katsumoto. Poi, dopo aver fottuto la vita e la moglie al povero Samudead, gli fotte pure l'armatura e si presenta, così bardato, allo scontro.
Per farla breve... Algren infilza Gelby (glielo aveva promesso) e muoiono tutti i Samurai, tranne... Vabbè.
Katsumo, ormai in delirio totale, incarica Algren di dire all'imperatore che erano morti per lui. Algren prende seriamente l'incarico e riferisce all'imperatore, che è un bamboccione lievemente autistico. Questi infine caccia Omura e si rende conto del sacrificio di Katsumoto.
Il film si chiude con Tom che fa ritorno al villaggio per dare altri due colpetti a Taka: in sottofondo le note, malinconiche ed orientaleggianti, di Hans Zimmer.
Nel frattempo Edward Zwick è tornato a fare filmacci testosteronici di terza scelta.
Amen.

Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 22 gennaio 2018

"LA SPOSA SIBERIANA. LE VENDICATRICI: KSENIA" (2013) DI MASSIMO CARLOTTO E MARCO VIDETTA

«Prendere le bestie coi lacci e accerchiare coi cani ampie radure per seguirne le tracce»
-Seneca"De Vita Beata"-

Sullo sfondo una Roma fatta di cravattari e piccoli commercianti con l'acqua alla gola, un regno corruttivo che trasuda criminalità e figure marginali.
Qui, in fuga da povertà e violenza, si ritrova una giovane ed ingenua siberiana, Ksenia. E' giunta per sposare un bel 40enne in carriera, un uomo dai tratti gentili che ha visto solamente in fotografia. Il suo tramite è Lello Pittalis, tipo distinto dai capelli lunghi e ben pettinati, che ha fatto le sue fortune con un'agenzia matrimoniale per cuori solitari. Ma ad attendere la ragazza ci sarà Antonio, goffo e viscido omuncolo di 60 anni che mantiene uno alto standard di vita in modo tutto suo.
Lontana da casa, in un paese che non conosce e senza più il passaporto, la siberiana si ritrova invischiata in un incubo: la tratta delle spose.
L'idea di un revenge tutto al femminile stuzzica sin dalla lettura della quarta pagina. Ed il progetto è di quelli avventurosi, quattro romanzi editi con Einaudi nel corso dello stesso anno, il 2013, con al centro la vita di quattro donne (Ksenia, Luz, Eva, Sara) che si svincolano da uomini che le vorrebbero trasformare in pedine nelle loro mani.
Dietro c'è una premiata ditta: Massimo Carlotto, il nome per eccellenza del noir italiano, autore di "Arrivederci amore, ciao" [LINK] pietra angolare della letteratura nera italiana; Marco Videtta, sceneggiatore recentemente assurto nel nutrito gruppo di avventurieri del romanzo di genere.
"La sposa siberiana" non potrà assurgere tra i capolavori del genere ma ha molte frecce al suo arco.
Vidotto/Carlotto fanno emergere quei piccoli mostri che scivolano nel silenzio della società che viviamo. E poi, questione tutt'altro che secondaria, questo primo capitolo si legge che una meraviglia. Merito dello stile, un linguaggio asciutto e tagliente, che cala abilmente il lettore nel narrato avvolgendolo in un clima sporco e plumbeo. Merito delle scelta narrativa che cede la scena alle donne liberando il genere dal maschio silenzioso, bello e maledetto. Merito della capacita di costruire e sfumare le zone d'ombra/luce.
Questo primo capitolo intriga/disgusta attraverso passaggi spietati e cinici, simboli di una certa letteratura italiana che sa muoversi nel genere senza incappare in autocompiacimenti, stereotipi e strizzate d'occhio al lettore; non è un caso che le poche sorprese positive portate del nostro cinema vedano il loro punto d'origine in questa letteratura.
Tocca avere coraggio, anche nelle piccole cose, e qui ce n'è.

Habemus Judicium:
Ismail

giovedì 18 gennaio 2018

L'ANGOLO DEL CULT #7: "IL CORVO" (1994) DI ALEX PROYAS


"Can't rain all time". Una frase scelta come leitmotiv del film manifesto del movimento dark.
Questo film, come successo per altri nella storia della settima arte, si trascina con sé un alone di  mistero e l'etichetta di film maledetto.
Ciò è dovuto alla morte di Brandon Lee, il protagonista della pellicola nonché figlio di Bruce, stroncato dalla pistola che avrebbe dovuto uccidere solo il suo character. Lasciando stare il pattume delle speculazioni per cui la morte di Lee sia stata voluta dalla Triade cinese per punire il suo rifiuto di lavorare nell'industria cinematografica cinese bla, bla, bla... La teoria più accreditata e confermata è che la pistola era stata caricata a salve per girare la scena della morte del suo personaggio, Eric Draven (Eric the Raven? Ma che bel gioco di parole!) per mano di Fun Boy, interpretato da Michael Masse. Pare che il tamburo contenesse un proiettile inesploso che era rimasto incastrato e che, malauguratamente venne azionato da quello a salve. Risultato: Masse spara, Lee cade a terra. 
Buona la prima, è molto realistica. 
Lee però rimane a terra e tutti pensano a una burla dell'attore, ma dopo un po' risulta chiaro che la situazione è drammatica. Morirà a seguito delle ferite riportate allo stomaco e il suo omicida involontario, Masse, finirà in depressione per anni. 
However, il film viene completato: le poche scene che riguardano Brandon Lee, non ancora girate, vengono ultimate grazie all'ausilio di una controfigura e degli ultimi ritrovati della CGI, che all'epoca permetteva già di manipolare digitalmente un volto. Qui si chiude il mistero de Il Corvo.
Parlando del film, il regista dell'adattamento dell'omonimo fumetto è Alex Proyas, onesto mestierante senza arte né parte, che nella sua carriera ha girato poco e spesso male. 
Qui tra sovrimpressioni, fermi immagine e rallenty eterni si appesantisce la pellicola. Rimangono le scene d'azione sono girate davvero bene e coinvolgono emotivamente.
Il film è  assistito da una colonna sonora leggendaria, unisce il rock di pezzi come Burn dei Cure o Dead Souls rifatta dai Nine Inch Nails, Violent Femmes, Rage Against the Machine, Jesus and Mary Chain, Pantera, al sacrale e funebre canto delle musiche di Graeme Revell.
Rispetto al nichilismo soffocante del fumetto di James O'Barr, il film risulta essere abbastanza agli antipodi. Se per O'Barr, Draven era un freak pazzo e sadico almeno quanto i suoi assassini, quello di Proyas è un gran bel moralista che si incazza se fumi e se, anche solo, brindi con lo spumante. 
Perciò un po' di disagio lo spettatore lo prova nel vedere questa maschera clown che si aggira lungo la pellicola ammonendo buoni, cattivi e meno cattivi ad adottare un corretto senso civico ed uno stile di vita sano; ma che, dall'altro lato, disegna corvi piantando le siringhe di un tossico sul suo stesso petto, idem con patate con i coltelli del cattivone di turno, per poi raggiungere l'apoteosi in una sequenza davvero ad affetto con protagonista T-Bird (interpretato da David Patrick Kelly. Si proprio lui: "Guerrieeri, giochiamo a fare la guerra?). 
Perciò, oltre a non essere molto coerente, non è molto credibile. 
Il personaggio di Lee è costruito in modo da portare lo spettatore a riconoscersi in esso e da far apparire le sue azioni giuste ed espiatorie e mai efferate. Insomma alimenta quel populismo teso al giustizialismo sommario e al sadismo nascente dall'indignazione collettiva. 
Invece O'Barr lo sapeva che chi compie tali gesta è pazzo tanto quanto un gruppo di spietati criminali e perciò il fumetto, col suo tratto grezzo e quasi trasfigurante, rimane un apice irraggiungibile di lucida e torbida violenza, mista a passione dolorosa e malinconica. 
Viene poi meno l'ambiguità della morte di Eric: nel film esplicitamente risorge dalla tomba, nel fumetto rimane sempre in bilico la possibilità che egli sia o non sia un morto che cammina. Senza dubbio un colpo di genio. 
Per fortuna la produzione si è astenuta dal proporre un personaggio presente nel fumetto, una sorta di cowboy scheletro, The Skull Cowboy; ci hanno provato eh! Ma in fase di montaggio devono aver avuto un lampo di lucidità e si sono astenuti dal buttare dentro un elemento che si sposava bene con l'anarchia del fumetto, ma che avrebbe ridicolizzato il tono epico e serioso del film. 
Per il resto possiamo dire che i personaggi, dai buoni ai cattivi, sono tutti grandemente stereotipati e, specie i villain, risultano essere delle macchiette. Ma si può storcere il naso per una mancanza di realismo, oppure si può assaporare il gusto di tratti stilosi e, sicuramente, molto più fumettosi del fumetto stesso. Noi siamo del secondo partito. 
"Il Corvo" è un cult con i suoi pregi e i suoi difetti, che senz'altro, ha avuto il merito di dettare uno stile poetico/decadente ed allo stesso tempo energico e trasgressivo, che ha fatto tendenza e ha ispirato intere generazioni di adolescenti in rabbia con il mondo.

Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 15 gennaio 2018

"LE STREGHE SON TORNATE" (2013) DI ALEX DE LA IGLESIA

«Dicono che Dio creò l'uomo a sua immagine e somiglianza...ma chi diavolo credono di essere gli uomini?! Dio creò la "donna" a sua immagine e somiglianza»

Per alcuni è un film femminista.
Per altri invece profondamente antifemminista ed al limite della misoginia.
Nella realtà ci troviamo dinnanzi ad un'opera che si libera da ogni schema, muove da un inizio roboante e ci trascina verso lidi inaspettati.
Siamo nella centralissima Puerta del Sol a Madrid, come sempre affollata di turisti ed artisti di strada che cercano di accalappiare qualche spiccio. Tra questi c'è un Gesù Cristo, al secolo José, interamente dipinto di grigio, munito di corona di spine e croce gigante d'ordinanza; con lui un soldatino giocattolo, tale Antonio, pitturato di verde.
I due, accompagnati dal figlioletto di Cristo, entrano all'interno di un compro oro armati sino ai denti.
Il loro obiettivo? Dare una sterzata decisiva ad una vita insoddisfacente fatta di storie d'amore mal gestite e di poca pecunia.
Prendono il malloppo e, tra colpi di pistola, auto della polizia che volano nel traffico ed un sequestro di un taxi, corrono verso la libertà: il confine francese. Lungo la loro strada si imbattono però in un ameno paesino basco, il cui nome, Zugarramundi, è indissolubilmente legato con la stregoneria, i roghi e la Santissima Inquisizione. I loro piani verranno del tutto scombinati dall'irruzione energica di un gruppetto ben nutrito di donne, manifestazione fattuale della rigida dicotomia che intercorre tra i sessi.
Alex De La Iglesia gioca sulla crisi economica e sull'incomunicabilità tra uomo e donna, tirando su un bizzarro e caotico ibrido filmico. Muove da un action-movie dal ritmo frenetico, mescola ripetutamente le carte sul tavolo, ci dirige verso un horror (?) esoterico dalle scenette niente male e trova la giusta amalgama nel contagioso humor nero che pervade tutta la pellicola.
C'è poco da dire, guardando il film si percepisce il divertimento di Iglesia nel mettere in scena lo script e se ne rimane amabilmente contagiati.
"Le streghe son tornate" appare come un gran calderone in cui è ammesso tutto ciò che crea piacere all'occhio dello spettatore, dalle corse pazze, ai combattimenti, sino alla sessualità che trova il suo apice in quella meraviglia simil-fetish di Carolina Bang.
Un cazzeggio questa è l'impressione principale, un film che non ha la pretesa di prendersi troppo sul serio, ma che al contempo ci appare credibile dall'inizio sino alla fine.
Unico neo il finale, che se da un lato appare coerente con il clima smargiasso e caotico della pellicola, dall'altro tende ad annacquarsi in una durata (forse) esagerata.
In pillole...?! "Le streghe son tornate" è un divertissement talmente fresco, furbo, fracassone, grottesco e divertente che non si può non vedere.

Habemus Judicium:
Ismail

giovedì 11 gennaio 2018

"METALLO URLANTE" (1998) DI VALERIO EVANGELISTI

Particolare di un' illustrazione di Philippe Druillet usata per la copertina di "Metallo Urlante"
«Era diventato Eliminatore di Erbacce quando ancora apparteneva alla polizia, e uccidere bambini non gli sembrava affatto immorale. Quelle piccole canaglie, quando non si stordivano fiutando sacchetti di colla, rubavano tutto ciò che potevano e infastidivano i passanti. Lasciarle crescere avrebbe significato generare una nuova leva di criminali, come se in giro non ce ne fossero abbastanza»

Iconico è la parola che meglio lo definisce.
Lo è nella copertina dominata da un disegno di Philippe Druillet, uno dei fondatori di "Métal Hurlant", rivista di fumetti francese incentrata su tematiche fantasy, horror e sci-fi.
Lo è nei titoli dei quattro brevi romanzi (VenomPantera, Sepoltura e Metallica) che compongono l'opera, omaggio alla musica metal.
Non basta però una bella copertina ed i titoli giusti, son fin troppi gli impacchettamenti ruffiani che si aggirano nelle librerie e fanno cadere in tediosi errori una moltitudine di lettori. Per un buon libro serve ingegno, stile e contenuto. E "Metallo Urlante" di Valerio Evangelisti è un notevolissimo condensato di tutto ciò. 
Quattro racconti si diceva, quattro storie che infrangono lo spazio/tempo ed idealmente unite da un filo conduttore, la mutazione del corpo.
Il primo del lotto è "Venom" costruito su un doppio piano temporale; da un lato la Spagna del 1353, dove incrociamo il celebre e spietato inquisitore spagnolo Nicolas Eymerich alle prese con un caso di demonolatria; dall'altro un futuro in cui l'umanità è falcidiata da un morbo africano, frutto del connubio del virus Marburg e l'AIDS, che ha trasformato i corpi in un ammasso di carne e metallo vivo. Un dialogo a distanza che turba, inquieta ed affascina.
Poi è il turno di "Pantera"; ci ritroviamo nel Far West alle prese con un messicano, pistolero e un ministro di culto del Palo Mayombe, chiamato da un ricco proprietario terriero per difendere i propri possedimenti ed il paese da alcuni minacciosi cavalieri ciclopici, i Cowboys dall'inferno, misteriosamente materializzatisi su una collina poco distante.
Con "Sepoltura" si finisce in un carcere di alta sicurezza brasiliano, dove alcuni prigionieri politici, ultimi membri di una tribù indigena, sono sommersi nell'ectoplasma, una sostanza che si fonde con la carne dei detenuti e ne rende impossibile la mobilità.
E si giunge così a "Metallica", gelida conclusione distopica dove una futura New Orleans fa da campo di battaglia alle milizie bianche cristiane ed a quelle nere musulmane, specchio di un paese, gli States, spaccato tra nord e sud a seguito della diffusione dell'anemia falciforme.
Evangelisti propone tempi e luoghi distanti tra di loro che si accavallano e compenetrano, un'ibridazione narrativa eccezionale che salta tra i generi e costruisce una potente indagine sulla disumanizzazione apportata dalla modernità e dai falsi miti.
"Metallo Urlante" è il primo atto del cd. Ciclo del metallo (sarà seguito da "Black Flag" e "Antracite"), una lettura dal grande fascino che non mostra mai il fianco a noia e stanchezza (rischio che si incorre solitamente con la lettura spezzettata delle raccolte), un'opera dal clima pestilenziale capace di lasciare senza fiato e privi di qualsiasi speranza.
Signore e signori siamo dinnanzi ad uno dei picchi della nostra letteratura di genere.
In alto i calici per Valerio Evangelisti.

Habemus Judicium:
Ismail



lunedì 8 gennaio 2018

"ACROSS THE RIVER-OLTRE IL GUADO" (2014) DI LORENZO BIANCHINI

Il cinema italiano di genere è vivo! 
I tentativi di diversi registi nostrani di approcciarsi al genere è sempre ben accetto, anche se i risultati sono per lo più deludenti, senza fare nomi. Ma la tradizione horror italica è sempre lì a ricordarci che c'è stata un'epoca, non troppo lontana, in cui la scena internazionale era dominata da autori quali Bava, Fulci e Argento, fonti di ispirazione per i registi di tutto il mondo. 
Ebbene, il film di Lorenzo Bianchini, "Across the River", è una gemma dal valore inestimabile, che si colloca lassù nell'olimpo del cinema horror. 
La trama, scarna, narra di un etologo, Marco Contrada, che si avventura nelle foreste friulane per svolgere uno studio sui comportamenti degli animali del luogo, tramite delle riprese, ottenute posizionando su di essi delle microcamere. Nel suo lavoro di studio si spinge, un giorno, oltre il guado di un corso d'acqua, rimanendo bloccato, causa la piena del fiume, in un paese abbandonato arroccato tra le montagne. 
Giocando con le paure ataviche dell'uomo, la solitudine, la minaccia irrazionale/brutale e l'impotenza totale, Bianchini confeziona una pellicola gelida e terrorizzante. È talmente elevata l'immedesimazione in cui viene calato lo spettatore, che si può quasi sentire il gelo, l'umidità e l'odore di legno stagnante che penetra nelle narici. 
L'espediente delle microcamere, che offrono una visuale soggettiva e frenetica, catapulta nel pieno dell'azione e aumenta progressivamente la tensione di un qualcosa che è lì ad aspettare e che si palesa gradualmente, tramite oscuri e inquietanti presagi di morte. 
Il piglio documentaristico non è casuale. Per buona parte del film vengono rappresentate situazioni verosimili e ipotizzabili nel contesto di una natura selvaggia, che divora l'essere umano e lo rende fragile e totalmente in balia degli eventi. L'evoluzione tecnologica e il progresso mettono a disposizione dell'uomo una serie di mezzi per dominare l'ambiente circostante e ciò è ben rappresentato dal furgone attrezzato di strumentazione altamente specialistica del protagonista. Ma basta un evento naturale dei più comuni quale è la piena di un fiume, per rendere vulnerabile ed esposto alla furia degli elementi anche il più esperto avventuriero. 
In questo contesto si innesta l'elemento paranormale. Si sono sprecati i discorsi sul concetto di orrore e cosa, diffusamente, è in grado di evocare le paure, sepolte nell'abisso più profondo dell'animo umano. 
Sicuramente la ghost story ha sempre il suo fascino, ma unita alla trasfigurazione dell'elemento femmineo risveglia un terrore primordiale
Lo script di "Across the River" ci mette di fronte ad un'entità paranormale che non è semplicemente una minaccia psicologica per lo spettatore, ma si palese come forza violenta e incontenibile, ineluttabilmente destinata a fare scempio delle sue vittime. 
Da questo punto di vista il lavoro di make up della produzione, pur con i pochi mezzi a disposizione, tratteggia delle figure e delle immagini talmente orripilanti da infestare il pensiero ben oltre i titoli di coda. Qualcosa che, senza svelare troppo, supera di gran lunga l'effetto di "The Ring". 
Il film, a visione ultimata, lascia intatto un alone di mistero sugli eventi scatenanti. 
L'intuizione geniale di Bianchini è quella di svelare la verità tramite pochi flashback, ma lasciando la spiegazione dell'origine del male al racconto di due anziani friulani. 
Peccato però che tale narrazione avvenga nel loro dialetto incomprensibile. 
La soluzione è lì a portata di mano, ma non possiamo comprenderla. 
Probabilmente, ciò che fa leggermente scricchiolare questa piccola gemma è un finale un po' troppo stroppiante, che smorza leggermente l'idea di una minaccia che si concretizzi nei momenti di solitudine: una forzatura inutile per la trama e controproducente. 
A parte questo, più di una persona, dopo la visione del film, sarà costretta a dormire con la luce accesa, infilandosi velocemente sotto le coperte per evitare di essere afferrata da sotto il letto da una mano tozza e rugosa, deturpata e insanguinata, pronta a stringersi con rabbia animalesca sulla sua vittima.
Fatelo ad Hollywood un film così!

Habemus Judicium:
Bob Harris

giovedì 4 gennaio 2018

"L'ARCHIVISTA" DI LORIANO MACCHIAVELLI

Uno scippo in via Rizzoli, nel pieno centro di Bologna, ad opera di alcuni malviventi a bordo di un'automobile, manda in coma una giovane studentessa, tale Norma Valini.
Un atto di criminalità comune che non lascia indizi e testimoni lungo la strada, o per lo meno nessuno sembra essere in grado di scovarli; lo scippo ha il destino segnato, divenire un fascicolo da collocare nell'archivio tra i casi irrisolti. Qui, a smistare le scartoffie, ci sta però Lo Zoppo. Di lui si dice che un tempo fu uno di quelli bravi, tra i pochi a portare i risultati a casa. Poi un incidente in servizio gli fece perdere l'uso della gamba e da allora è incastrato in un presente fatto di sole carte bollate e cadenzato dal rumore di un bastone. 
Si apre così "L'Archivista", romanzo noir di Loriano Macchiavelli.
Ma chi è questo Zoppo? Il vice ispettore aggiunto Poli Ugo, cosi è conosciuto all'anagrafe, è un uomo solitario, agisce dentro e fuori la polizia e talvolta sembra avere la capacita di poter aspirare anche alla femme fatale di turno. 
Ma non lasciatevi ingannare da queste parole. Egli è tutto tranne che fascinoso. Non ha il benché minimo senso dell'umorismo. Non ride mai, al massimo si lascia andare qualche impercettibile ghigno. Non è neanche l'investigatore maledetto che se ne sta in un qualche oscuro bar a bere whisky e fumare sigari. Figuriamoci, il Nostro è astemio. 
Ma allora chi è realmente costui? Nient'altro che un questurino dai metodi pontifici, uno, a detta dei suoi colleghi e del narratore, che è meglio tenere alla larga. 
Ma attenzione cari lettori, non bisogna pensare di ritrovarsi dinnanzi ad un Rocco Schiavone qualsiasi, Poli Ugo non è un (anti)eroe che strizza l'occhio al lettore rendendo agevole l'immedesimazione.
Lo Zoppo è una bestia, un ruffiano forte coi deboli e asservito ai potenti, un fascista dalle tendenze psicopatiche; per capire ciò basti pensare ad un racconto successivo a "L'Archivista", dove lo troviamo intento nello sperimentare una cura alternativa a quelle dei SerT: usare ripetutamente il suo bastone su un giovane tossicodipendente che per sua sventura si è imbattuto sulla sua strada.
"L'archivista", che uscì con Mondadori nel lontano 1981 nelle sole edicole, grazie ad Einaudi nel 2016 ha varcato finalmente la soglia delle librerie, permettendo a vecchi e nuovi lettori di (ri)avere tra le mani questo prezioso noir. 
Nonostante siano passato quasi quarantanni dalla sua pubblicazione, "L'archivista" mantiene inalterato il proprio valore, un romanzo che ci ricorda quanto la letteratura di genere, oltre ad intrattenere (e questo titolo lo fa egregiamente), sia uno strumento eccezionale per parlare della società che viviamo. Lo Zoppo ci cala in una realtà schifosa, fatta di piccoli borghesi dallo spirito prevaricatore, dando una poderosa spallata verso le molte produzioni nostrane che si tingono di nero ma che in realtà di questo colore hanno davvero ben poco.
Per anni mi sono sentito dire che, per un amante della letteratura di genere, la lettura di Macchiavelli era cosa necessaria. Ora il perché lo so.

Habemus Judicium:
Ismail

lunedì 1 gennaio 2018

DAJE DE DUMILAE18

«La mente non è un vaso da riempire, ma un legno da far ardere perché s'infuochi il gusto della ricerca e l'amore della verità»
-Plutarco-

E dai con un nuovo anno carico di grandi progetti.
Qualche esempio? Un'agognata laurea da strappare alle autorità borghesi, un desiderato viaggio nella terra di Mishima e Miyazaki ed un trasferimento sempre più vicino al concretizzarsi.
In un marasma di cose che ci vedrà protagonisti ci sarà anche la cura di questa tenera e misconosciuta creatura della blogosfera, un anno che promettiamo pregno di cinema e letteratura.
Buon 2018 a tutti i transitanti.

Lo staffe