lunedì 30 aprile 2018

"TONYA" (2017) DI CRAIG GILLESPIE

I biopic sono opinabili. I mockumentary sono molto opinabili. "Tonya" è un biopic/mockumentary ed è un film opinabile.
Partiamo dalla pre-supposta che la storia di una pattinatrice può essere declinata in varie direzioni e in mille sfumature. Però aggiungiamo che qui si sta parlando di una rocknrolla dei pattini, una personalità talmente marcata da impacchettare da sola un copione perfetto per il cinema.
La storia di uno sportivo di successo dà la succosa possibilità di farci capire la differenza tra noi comuni mortali e un...comune mortale, ma con qualcosa di sovrumano. Che sia il talento purissimo, l'ossessione per la vittoria o la maniacale ricerca della perfezione, siamo di fronte alla concretizzazione di un potenziale, in uno dei pochi casi in cui riesce ad essere incanalato nel modo giusto. 
Perché questa è la storia di Tonya: una redneck ai limiti dell'analfabetismo, sgraziata e selvaggia, ma irradiata da un talento cristallino e un machiavellico concetto di successo. Ma è anche la storia di un rapporto madre/figlia mai sbocciato o, viceversa, talmente intenso e simbiotico da porre il dubbio su quali elementi debba basarsi veramente l'amore di un genitore. 
Che piaccia o meno, il film ha il pregio di mettere a nudo la voracità di gloria che alberga nell'animo umano, perfettamente rappresentato dalle due protagoniste femminili. In tal senso risulta davvero meravigliosa la sequenza in cui la madre di Tonya, che sembra sottostimare continuamente il talento della figlia, ne è, invece, talmente convinta da spingere letteralmente la figlia a danzare sulla pista, di fronte all'insegnante che aveva rifiutato di prenderla sotto di sé.
Si diceva dello stile da falso documentario su cui è impostato il film, almeno per una sua metà, perché per l'altra si è optato per un tono da commedia piuttosto fastidioso. 
Non è chiaro se l'intento fosse quello di declinare al pop la storia di Tonya Harding; fatto è che la sensazione è che si cerchi di stemperare il dramma di un'esistenza ai margini e ai limiti ricorrendo a siparietti buffi e a un tono scanzonato. 
Il fulcro della seconda metà del film, ossia le circostanze che ruotano attorno all'aggressione a Nancy Kerrigan, pur ricostruite fedelmente, vengono messe in scena come una sorta di buffa spy story alla Lupo Alberto, alzando completamente le righe e abbassando contestualmente il pathos. Sicuramente emerge la volontà di raffigurare un ritratto di Tonya che si allontani dall'immagine infamata che l'ha accompagnata per anni, successivamente all'episodio controverso del 1994, e che la riabiliti sul lato umano; lo stesso mettere in discussione la sua colpevolezza, in modo sottile e ambiguo, ne è una prova. Ma il mezzo scelto non convince. 
Così come non convince la prova di Margot Robbie, troppo bella e troppo fortunata per recitare il ruolo di un freak. La questione si potrebbe liquidare parlando di una mancanza del classico phisique du role, ma, comparando, per esempio, la prova di Charlize Theron in "Monster" (seppur aiutata dal trucco) la risposta sembrerebbe essere che l'attrice australiana difetta di quel carisma e di quel fuoco oscuro che alberga in determinate personalità. 
Pur non essendo il film totalmente incentrato sulla pattinatrice americana, trattandosi di un biopic, toppare il casting della protagonista significa condannare il film stesso. Vedendo i filmati di repertorio della vera Tonya, ci si accorge di quanto il paragone faccia sparire Margot Robbie, e l'impressione è che proprio Tonya sarebbe stata perfetta per rappresentare se stessa. 
Siccome però dicevamo che il film vive della doppia anima femminile, al contrario Allison Janney, nei panni di Lavona Harding, è eccezionale, anzi, da brividi nel tratteggiare una personalità disturbata e parossistica. Ma questo (così come la buona prova del Winter Soldier Sebastian Sten, nel ruolo del marito di Tonya looser e mediocre) non bastano ad elevare il prodotto. 
"Tonya" non vuole eccedere nel dramma e vuole parlare il linguaggio più trendy, ma, così facendo, perde di vista l'obiettivo di sfruttare quel grande potenziale che una storia del genere è in grado di dare.
Pur potendo contare su elementi positivi che ne decretano la sufficienza, viene segregato all'anonimato da quelli negativi, e difficilmente questo film verrà ricordato.

Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 23 aprile 2018

"A QUIET PLACE" (2018) DI JOHN KRASINSKI

Di buoni horror nelle sale non se ne vedono in questo periodo (che strano), perciò vale la pena virare sul thriller/dramma con qualche venatura horror, se ci si trova di fronte a un buon prodotto. E "A quiet place" lo è, in tutto il suo minimalismo e nella sua semplicità.
Solita trama da invasione aliena, di cui non si sa come e perché. Lo scenario è già quello del post-apocalittico e seguiamo le vicende di una famiglia alle prese con la sopravvivenza agli invasori, creature le cui fattezze ricordano vagamente delle locuste; esse sono cieche ma possiedono un udito incredibilmente sviluppato e sono, quindi, in grado di captare ogni rumore più forte del normale.
Attorno a questo espediente, pur di una semplicità disarmante, si costruisce una trama sì inesistente, ma il tutto risulta essere efficace. In fondo, niente di impensabile, considerando che è il tipico caso in cui la riuscita del prodotto è affidata alla regia. 
Regia che è abile nel costruire una tensione costante, dovuta alla quasi totale assenza di rumori, alternata a strappi improvvisi e adrenalinici. Detta così potrebbe sembrare facile, ma oltre alla maestria nel giocare bene con il crescendo emotivo, tramite un sapiente uso di inquadrature ed effetti sonori, risulta pregevole la gestione del silenzio assordante: mai come in questo film un rumore in sala o uno starnuto rischiano di rompere la quarta parete e distogliere l'attenzione dal film. 
Ma Krasinski è abile nell'usare alcuni trucchetti che riportino il film su binari più canonici e che garantiscano quella comunicabilità necessaria tanto ai personaggi quanto allo spettatore. Perciò il film si può spaccare in due tronconi: una prima parte fatta di silenzi e gesti "zen" ed esasperati al dettaglio, ed una seconda parte in cui l'azione prende il sopravvento ed in cui diventa difficile distinguere "A quiet place" da un film di Shyamalan. Proprio il regista indiano è dichiaratamente una delle fonti di ispirazione di Krasinski e, sicuramente, la costruzione di molti momenti del film ricordano "The village".
Non mancano le incongruenze e le semplificazioni ardite: premesso che, saggiamente, non viene mostrato il preambolo, non convince il modo in cui, infine, si trova il bandolo della matassa. E questo è catalogabile tra le semplificazioni. 
D'altro canto appare abbastanza ridicolo e frustrante riproporre anche qui alcuni schemi classici del thriller: posto che solitamente un assassino cerca la sua preda in ogni pertugio della casa di turno, non si capisce perché lo faccia un alieno-locusta cieco; più volte verso la fine del film vediamo una delle creature setacciare la casa alla ricerca della fonte del rumore, quando fino ad allora il film ci aveva mostrato come gli alieni vi si fiondassero una volta identificato, per poi ritrarsi immediatamente.
Altra incongruenza? Gli alieni possiedono una corazza indistruttibile e li vediamo sventrare un silos d'acciaio con una spintarella. Peccato, però, che al momento della colluttazione con i due bambini protagonisti, si intrattengano a scuotere la macchina in cui sono rinchiusi come manco il peggiore degli hooligans.
Ottimo il cast, chiamato a al difficile compito di trasmettere le emozioni dei personaggi, senza l'ausilio della parola per gran parte del film; Emily Blunt è molto convincente e sofferente ed anche lo stesso Krasinki, nella parte del marito, risulta credibile. 
In conclusione un film che, difetti a parte, gioca bene la sua carta ed è credibile nel rappresentare le dinamiche familiari. Sfruttando gli stilemi più riusciti del thriller, mantiene alta la suspense e coinvolge il giusto. Un bel tappabuchi primaverile.

Habemus Judicium:
Ismail

giovedì 19 aprile 2018

CLAUDIO CALIGARI, L'OUTSIDER DEL CINEMA ITALIANO (PARTE I): DAI DOC AD "AMORE TOSSICO"


«La passione per il cinema nasce dall'appartenenza alle classi subalterne in un periodo in cui il cinema era ancora lo spettacolo popolare per eccellenza. Da bambino mi capitava di andare a vedere insieme a mio padre film come "Prima linea", "L'uomo senza paura" o "Roma città aperta" in televisione. Poi a 20 anni sono stato rapito dalla Nouvelle vague e dal clima politico di subbuglio che sentivo aleggiare. 
Il cinema di quel periodo era un cinema contro ed allora mi sono detto "ma perché non posso farlo anch'io?". Così, e siamo a metà degli anni ‘70, anni in cui tutto sembrava si potesse mettere in discussione, ho preso mezzi leggeri ed ho iniziato a girare cose davvero underground, ma pieno di animo ed entusiasmo»(1).
-Claudio Caligari-

Una manciata di documentari (quasi) introvabili e tre soli film.
Nel mezzo tanti progetti saltati ed un coraggio rarissimo da trovare nel nostro cinema.
Claudio Caligari muove i primi passi nella metà degli anni '70, il suo è un approccio militante che muove dal mondo underground. Dirà dei suoi primi lavori: «Due cose caratterizzavano quei documentari: i mezzi leggeri e il sommovimento ideale compreso fra, diciamo, il 1968 ed il 1978. Mi piaceva entrare a contatto con aspetti estremi della vita e riprenderne le dinamiche e la forma documentaristica era l'ideale per mantenerne viva la veridicità e la portata» (2).
Nel 1976, assieme a Daniele Segre e Franco Berbero, gira nel quartiere torinese di Mirafiori "Perché Droga", il primo doc italiano tutto incentrato sul mondo della tossicodipendenza. Pochi mesi più tardi è la volta di "Alice e gli altri", racconto di quella sinistra extraparlamentare che di li a poco avrebbe dato vita al movimento del '77.
Seguono altri lavori, tutti dello stesso tenore: "Lotta nel Belice" (1977), "La macchina da presa senza Uomo" (1977) e "La follia della rivoluzione" (1977), testimonianza della contestazione al Convegno sulla psicanalisi del 1976 che gli vale un posto, seppur in una sezione marginale, al Festival di Berlino.
Nel 1978 arriva l' ultimo documentario, "La parte bassa", che divide in in tre movimenti(3): le immagini delle strade del '77 animate dai cortei di studenti; le interviste ai compagni dei circoli proletari (i prodromi dei centri sociali) della Statale di Milano; una terza parte di fiction in cui ricostruire la giornata tipo di un giovane militante. Si immortalava su pellicola la Milano prima di Craxi e dall'edonismo degli anni '80.
Questo attaccamento al reale si evolve, l'approccio documentaristico comincia ad andargli stretto.
Le ragioni? Da un lato la risacca politica, il fallimento dei movimenti, immortalato al festival del parco Lambro, e la conseguente fine della spinta dei sotto-circuiti; per proseguire la propria carriera deve necessariamente entrare nel mercato cinematografico. Dall'altro lato il desiderio di una nuova declinazione del reale: partire da un fatto, introiettarlo e costruire uno sguardo personale su di esso; e l'ultimo movimento de "La parte bassa" sta lì a dimostrarcelo.
Caligari fa da aiuto regista a Ferreri e Bellocchio.
Si propone anche a Pier Paolo Pasolini per quel capolavoro di "Salò o le 120 giornate di Sodoma"[LINK]. Ma non se ne fa niente, oramai il set è già stato chiuso e tutto è pronto per le riprese. Riceve solamente una promessa, il posto per "Porno-Teo-Kolossal". Il secondo capitolo della trilogia della morte non arriverà mai, poco dopo aver finito Salò, Pasolini verrà assassinato sul litorale romano dal ragazzo di vita Pino Pelosi.
***
"Amore tossico" (1983):
«Il film lo ambientammo nelle borgate romane per due motivi. Uno strettamente cinematografico. Quegli ambienti, quei posti, e i personaggi che li popolavano, erano già  entrati nella storia del cinema con i primi film di Pasolini. Ora noi li filmavamo nuovamente, ma dopo che erano stati investiti dalla droga pesante. Il secondo motivo risiedeva nel fatto che nelle borgate romane, come in ogni altra periferia l’eroina, al di là del consumo della sostanza, entrava subito nel circuito economico con gli effetti devastanti che cercammo di mostrare» (4).


La genesi:
Va fatto il grande salto.
Caligari si butta a capofitto nella scrittura di un film tutto suo e partorisce "Suicide Special", uno scontro tra bande immerso in una Roma notturna popolata da banditi, prostitute e travestiti. Alla fine non se ne fa nulla, la produzione non se la sente di dar fiducia al giovane regista; questa è roba per chi ha già un nome e tanta esperienza sulle spalle.
Poi gli balena in mente un'altra idea che si rivelerà vincente.
L'Italia e le sue periferie sono funestate dal boom dell' eroina, un problema che ha conosciuto da vicino. Immagina un film che parli alla gente in modo realistico della droga senza autocelebrazioni di sorta. E lo stimolo giusto arriva dall'incontro con il sociologo Guido Blumir, autore del best seller "Eroina", al quale propone di scrivere una sceneggiatura a quattro mani. Prende corpo "Street Heroin", titolo cambiato in corso d'opera in "Amore tossico" per evitare veti da parte della censura.
E' un lavoro difficilissimo.
Caligari, assieme ai suoi collaboratori, si addentra nel mondo dei tossici, vuole capire i meccanismi dall'interno.
Si reca ai SerT e frequenta i loro luoghi di ritrovo. Studia il gergo e la gestualità. Osserva il giro di malavita che ruota attorno ad essi. La sceneggiatura nasce così, attraverso la frequentazione del sottoproletariato post-pasoliniano, un mix di soggetti da cui farsi raccontare storie ed aneddoti, chiedere consigli e correzioni delle bozze; un lavoro certosino che porterà, compresa quella definitiva, alla stesura di 15 sceneggiature diverse.
In ultimo arriva la scelta dell'ambientazione, che quasi inevitabilmente cade sulla periferia romana; ed il cast, tutti attori non professionisti con un trascorso nel mondo dell'eroina.


La scena tagliata:
Le difficoltà non finiscono nella fase di pre-produzione. 
Durante le riprese alcuni attori vengono arrestati ed altri scompaiono, costringendo Caligari ad ingaggiare avvocati o a sostituire gli interpreti con dei sosia. Ed in mezzo a questo marasma salta anche una scena tratta da un fatto di cronaca(5).
Cesare, uno dei protagonisti del film, viene fermato dalle forze dell'ordine e condotto in una cella assieme ad altri eroinomani. Qui trova un giovane ragazzo in crisi di astinenza. I compagni di cella cercano di attirare l'attenzione dei secondini, ma niente, nessuno si reca da loro.
La mattina seguente il giovane viene trovato impiccato e scatta la protesta. Arrivano dei secondini con il volto coperto da un fazzoletto bianco, prelevano alcuni dei presenti, tra cui Cesare, e li portano in una cella liscia (6) dove subiscono un pesante pestaggio.
La scena non viene mai girata. Il carcere minorile visionato e scelto dal regista, nonostante l'iniziale ok della direzione, posticipa ripetutamente le date delle riprese; Caligari e la produzione non possono procrastinare ulteriormente i lavori, il budget è ridotto all'osso e si vedono costretti a tagliare definitivamente la scena. Con essa finiscono al macero le scene collegate già girate: l'arrivo di Cesare al carcere di Regina Coeli; lo spaccio di eroina dentro l'istituto circondariale; il montaggio parallelo degli amici rimasti in libertà.

Il film:
"Amore Tossico" viene presentato in una sezione marginale del Festival di Venezia e si aggiudica il Premio De Sica. 
Al Lido, durante la conferenza stampa di presentazione, succede il finimondo. 
Il critico Tati Sanguinetti si lamenta dell'audio in presa diretta e della qualità del film in generale. Si apre una diatriba con Marco Ferreri che difende la pellicola ed accusa il critico di non aver capito un cazzo, sto criticozzo ha appena assistito ad un capolavoro senza neanche rendersene conto. 
Scoppia una violenta lite tra i due.
Nel contempo sbuca fuori Cavallo Pazzofiglio dell'ala creativa del movimento del '77, che va gridando di volersi fare una pera, lì, davanti a tutti. Il film gli ha fatto venir voglia. 
Attorno una serie di facce attonite.
Poco dopo arriva un processo in tv nella trasmissione Rai "Giudicatelo voi".
L'accusa è guidata da Alberto Farassinio, critico cinematografico de "La Repubblica", rimasto deluso dalla pellicola. Alla difesa, ancora una volta, il corpulento Marco Ferreri. Al banco degli imputati Caligari, il sociologo Blumir, i produttori ed il cast del film (7)Di "Amore Tossico" in quei giorni se ne parla tanto. E non solo qui da noi, la pellicola supera i confini nazionali e trova una critica attenta che non lesina negli apprezzamenti. Il regista di Arona ha fatto centro.
La storia del film è delle più semplici. 
In una Roma periferica bruciata dal sole, assistiamo alla quotidianità di un gruppo di tossici cadenzata dalla spasmodica ricerca del flash e da timidi tentativi di riprendersi la vita.
Tutto ha inizio al Pontile di Ostia. Qui troviamo Enzo e Ciopper impegnati nella conta dei soldi necessari pe' svortà. La telecamera si sposta di qualche metro ed appare Loredana, intenta nel prepararsi una siringa su un muretto in mezzo alla gente. Arriva Cesare, che rimbrotta Enzo e Ciopper, colpevoli di essersi dati a spese superflue (du' gelatini) quando sono già a corto di soldi  con l' astinenza che bussa alla porta. 
Assistiamo ad una sequela di battute in bilico tra il grottesco ed il comico, scandite attraverso un curioso modo di parlare strascicato in cui si mescola dialetto romano, il gergo della malavita e quello del tossicodipendente. Battute comiche, gesti sconclusionati e quel ticchettio degli zoccoli indossati dai protagonisti che diventano un preavviso sonoro del loro arrivo in scena.
Ed il lato grottesco per certi versi aiuta. Un po' come accade sullo schermo per Cesare e co. che provano a sopravvivere al loro quotidiano, qui si trova un appiglio per digerire quel senso di tragico e morte che si respira dinnanzi ai volti scavati ed ai denti mangiati. E Caligari, con una regia documentaristica ed asciutta, non ci risparmia nulla. 
Ci sono tanti schizzi, le preparazioni delle dosi nei minimi dettagli, aghi che spertusano vene in favore di telecamera . Scene così realistiche che al tempo crearono non pochi dubbi interpretativi. Ed attorno ai tossici entra in scena un mondo schifoso.
Il pappone che dà dosi di eroina a giovani ragazze per farle prostituire con la Roma bene; la nonnetta che abita alle baracche di Ostia e che svolta la giornata spacciando.
Si assiste a sequenze tanto dure quanto rare nel nostro cinema più recente. Penso all'intenso monologo di Cesare che racconta una notte di droga terminata in un quasi suicidio; la scena del quadro in cui vediamo la poetessa avanguardista Patrizia Vicinelli interpretare una pittrice amica di Cesare.
E' vero, una volta giunti ai titoli di coda ci si capacita di un finale brusco e pietoso, evidente frutto di un budget ridotto all'osso che non poteva permettere ulteriori giornate di lavoro; altri ancora si potranno lamentare della recitazione strascicata degli attori e dell'audio non perfetto. 
Ma "Amore Tossico" è anche questo, un film limpido e crudo che, per mezzo della narrazione e di una cifra stilistica spietata (pensiamo a quegli aghi che bucano la pelle in favore di telecamera), prende per la gola lo spettatore costringendolo ad una presa di coscienza indesiderata; lo spiazza, lo cala in una visione straniante a cui non è abituato, una Roma sporca e decadente che il cinema (e la cultura italiana) aveva abbandonato in fretta e furia, in favore di narrazioni borghesi e rincuoranti. E la grandezza di "Amore Tossico" è qui, nella capacità (e nel coraggio) di percorrere la strada dell'interazione e della scoperta dell'altro [Continua...].

Ismail


Note:
(1) Cit. Claudio Caligari, in Alessio Bacchetta, "Cladio Caligari: Intervista ad un regista cult", Link Articolo
(2) Ibidem
(3) Ibidem
(4) Ibidem
(5) Cfr. "Amore Tossico, intervista al regista Claudio Caligari", Link Video
(6) Le celle lisce (o celle zero) sono quelle completamente vuote e senza finestra. Sull'argomento cfr. Chiara Rizzo, "Benvenuti nella cella liscia. Ecco dove vengono torturati i detenuti nelle carceri italiane", Link Articolo
(7) Link Video (il filmato inizia a 15:20) 

lunedì 16 aprile 2018

"READY PLAYER ONE" (2018) DI STEVEN SPIELBERG

Pippe. Pippe dappertutto. 
Masturbazioni virtuali per palati nerd/cinefili/gamers/giappofili/bimbominkiologi e nostalgici.
A sto giro caro Spielberg hai esagerato davvero. Ci hai affascinato creando nuovi mondi e portandoci in isole lontane e (forse) mai esistite. Ci hai proiettati in futuri cyberpunk e ci hai fatto immaginare lo spazio con gli occhi di un bambino. Quanti mostri, quante creature entrate nell'immaginario, ma anche un sapiente uso di una regia sobria e quadrata, al servizio della storia con la S maiuscola.
Hai vinto due Oscar per la regia, ma facciamo che sono tutti tuoi da almeno 30 anni, perché Oscar sei tu, perché sono i tuoi piedini ad essere sbaciucchiati da chi vuole ambire alla statuetta, basta ricordare, ultimo in ordine di tempo, Guillermo Del Toro. Eppure eri partito rifondando la mecca del cinema, eri uno dei ragazzacci della New Hollywood. Ti ricordi quando con due penny giravi "Duel" e "Lo Squalo"? Tanto tempo fa in una galassia lont... Vabbè non aggiungiamo altre pippette a quelle che dobbiamo commentare.
Allora ok, siamo ancora nell'ondata revival 80's e, francamente, si stanno iniziando a spulciare i testicoli anche i più aficionados tra i nostalgici. Però ok ok tocca ancora a Steven, last but not least.
Siamo in un futuro (2045) in cui tutti sono flippati con la realtà virtuale (olleè) e passano le giornate a gozzovigliare su Oasis, una sorta di Second Life del futuro.
Praticamente il creatore di questo mondo virtuale, James Halliday, un nerd patologicamente introverso, muore, ma prima decide di disperdere tre chiavi all'interno di Oasis. Colui che le troverà, dopo aver superato alcune prove, diventerà l'unico proprietario del mondo virtuale.
Un giovane di nome Wade Watts tenterà di compiere l'impresa.
Prendi "Tron Legacy", copia e incolla la trama (ma impoverendola ulteriormente) e, nel mezzo, ficcaci un bel frullatone di icone del cinema, dei videogiochi, ecc. Praticamente appaiono quasi tutti, e per tutti intendo tutti. Già vero perché nella realtà virtuale puoi metterci chi vuoi no? Finalmente una trovata pensata per tutti i fans/nerd del mondo. Vuoi vedere un chestbuster di Alien uscire direttamente dal petto di Goro di Mortal Kombat? Voilà! Mecha Gozilla versus Gundam? Freddy Krueger?
Ma fin qui roba da dilettanti. Il capolavoro di Spielberg è quando si prende la libertà di stuprare "Shining". Non rompessero i testicoli quelli che la menano dicendo: "È un gustoso omaggio al film! Siete i soliti ottusi ai quali non si possono toccare certi mostri sacri!". Il problema è che la trovata di rivivere "Shining" non è minimamente funzionale al film, è solo un pretesto per sfruttare l'ambientazione del classico Kubrickiano e garantire il box office, presumibilmente assaltato anche dai fans del celebre horror. 
Questa operazione di citazionismo trasversale significa barare bassamente (controcitazione): se togli la parte di rimandi vari cosa resta? La storia ovviamente è la più scontata e sbiadita che mai: il ragazzotto sfigato che, dopo mille peripezie, trova amici nuovi, la figa, il successo e sconfigge il cattivone di turno, ovviamente seguendo una rigida morale buonista
Da un blockbuster non si pretende tanto il cosa, perché una produzione del genere nasce per riempire le sale, ma il come, ossia che ci si sforzi di essere originali o, quantomeno, di non abusare, sempre in dosi più massicce, di certi espedienti. 
Che poi qui manca persino quella componente ironica che salva il fondello a certe produzioni melense ma paraculette; sul punto si veda "The Shape of Water"[LINK] Del Toro. Tecnicamente c'è un personaggio che vorrebbe farci ridere parlandoci dei suoi acciacchi fisici, ma qualsivoglia tempismo comico è spazzato via dal ritmo ipercinetico e ipernauseante delle millemila scene d'azione tra boom, crash, sbam! Ecc ecc.
Il risultato è che si esce dalla sala con il mal di testa, provati fisicamente da un'ingiustificata dose di effetti speciali e di scene d'azione titaniche. Se poi si aggiunge il fatto che, ad un continuo esplodere e sgretolarsi degli scenari, si mischia quell'orgia sconclusionata di icone fantasy e scifi, davvero non si capisce più niente.
Un film che non soddisfa neanche la voglia più viscerale di lasciarsi trasportare dalla visione; invece che appagare i sensi, li martella per più di due ore, senza alcuna motivazione.
Spielberg in passato ha saputo essere innovativo come pochi e rimarrà una leggenda del cinema, ma, purtroppo,  nel cavalcare l'onda e nel ricercare solo il consenso del pubblico, scivola sulla buccia di banana di un opera derivativa e posticcia.

Habemus Judicium:
Bob Harris

giovedì 12 aprile 2018

"NELLE MANI GIUSTE" (2007) DI GIANCARLO DE CATALDO

«[...] Non si trattava che di estrarre, attraverso un paziente lavorio maieutico, il peggio che gli italiani si portano dentro da sempre. In passato l'impresa era riuscita a fascismo.»

Non è all'altezza di "Romanzo criminale".
Giancarlo De Cataldo come ha potuto solo pensare di fare un seguito? Oramai il Libanese, Nembo Kid, il Freddo e compagnia bella, o sono cibo per vermi oppure uomini oramai isolati e deboli.
E poi cosa dire di Nicola Scialoja? Come può tenere botta senza la continua tensione con il Vecchio?
Manca il coro, manca l'animo da strada che tanto aveva appassionato noi lettori.
Quel mondo doveva essere lasciato lì dov'era. Questa è solo un'operazione commerciale con cui cavalcare il successo dell'illustre precedente. "Nelle mani giuste" non suscita alcun interesse.
O almeno è questa l'opinione di quell'ammasso informe di recensioni che, dal 2007 ad oggi, hanno imperversato su internet. E visto che le cause perse mi piacciono, qualche tempo fa mi sono fiondato in libreria per accalappiarmi una copia.
Intendiamoci, De Cataldo decidendo di creare un seguito (attenzione "Nelle mani giuste" può essere letto indipendentemente dal primo) mostra un gran coraggio. Quello di sottoporsi agli inevitabili paragoni con una pietra angolare della nostra più recente letteratura, capace di entrare nell'immaginario collettivo anche grazie ad un film (mediocre) ed ad una ottima serie tv.
Ma di cosa parla questo romanzo?
Al centro della narrazione c'è l'Italia dei primi anni '90 scossa dal terremoto di Tangentopoli: Craxi fugge dall'hotel Raphael sotto un fitto lancio di monetine; la DC è prossima alla liquefazione; i comunisti si apprestano a vincere le elezioni dopo decenni di confino all'opposizione; la destra si dirige verso Fiuggi per ripulire anima e corpo, ed intravvede in un noto imprenditore di Arcore l'uomo giusto per vincere. Dietro Cosa Nostra cerca di capire dove andrà il potere e nel contempo gioca a braccio di ferro con lo Stato inaugurando una nuova strategia della tensione.
Il protagonista è sempre Nicola Scialoja, non più nei panni del commissario stradaiolo, ma in quelli di un nuovo vecchio che, da dietro dietro la scrivania, dirige i servizi segreti. Riappare poi il suo amore di sempre, oramai libera dal Dandi, Cinzia Vallesi per tutti Patrizia. E dietro di loro un nuovo cosmo in movimento. Un killer romantico. Un imprenditore discusso, Ilio Donatoni, che ha scalato l'azienda del Fondatore. Stalin Rossetti, un ex Gladio ritiratosi a vita privata, che cerca di scompigliare i nuovi e poco graditi equilibri politici.
E poi, poi c'è il miglior De Cataldo che, attraverso quel suo stile asciutto e diretto, prende la storia, l'intreccia, e ci propone uno sguardo verosimile (e non per forza reale) sulle zone grige della politica italiana. Un affresco di uomini e fallimenti, un preludio perfettamente orchestrato del paese che di li a poco avremmo scoperto.
Trattare gli eventi in questo modo, dare profondità a date e fatti, rendendoli appetibili e ricchi di suspense, è cosa che non riesce a tutti. E la percezione di ritrovarsi dinnanzi ad un gran lavoro la si ha già dal prologo, una potenza d'immagini che nulla (o quasi) ha da invidiare all'urlo di apertura di "Romanzo Criminale".
Si fa difficoltà a comprende la cattiva reputazione che "Nelle Mani Giuste" si è fatto. Forse ciò sta nel profondo e necessario cambio di direzione dato da De Cataldo. Se in "Romanzo Criminale" a farla da padrona erano le strade, qui dominano gli interni, i palazzi di potere. Si lascia una moltitudine di luoghi e persone in favore di un approccio più ristretto ed intimo. E i cambiamenti spesso a noi lettori non piacciono; ci facciamo prendere da uno spirito termidoriano, ci abituiamo agli schemi, cerchiamo rassicurazioni nel loro ripetersi, sempre pronti a spedire lettere minatorie al Conan Doyle di turno che decidesse di uccidere la sua creatura più famosa per dedicarsi ad altro...

Habemus Judicium:
Ismail

lunedì 9 aprile 2018

"BALLATA DELL'ODIO E DELL'AMORE" (2010) DI ALEX DE LA IGLESIA

Una risata vi seppellirà, o almeno ci si prova.
Spagna, 1937. Fuori dal tendone gli echi delle bombe fanno tremare le gambe. Dentro due clown cercano di strappare un sorriso ai bambini presenti per fargli dimenticare, anche solo per un attimo, la guerra civile che sta logorando il paese.
In scena irrompe la realtà. Un graduato dell'esercito repubblicano coopta tutti coloro che hanno l'età per imbracciare un'arma. Cambio di sequenza e ci ritroviamo in mezzo ad una carica da selvaggio west, con un pagliaccio che si fa largo tra i fascisti di Franco a colpi di machete.
Granate che esplodono, pistolettate e schizzi di sangue a non finire; il tutto condito con una leggera spolverata di humour nero. Una manciata di minuti e ritroviamo tutti gli ingredienti del cinema di Iglesia, così esagerato, caciarone e grottesco, uno di quei registi che manda al diavolo le mezze misure...Prendere o lasciare, o lo si ama o lo si odia!
Salto temporale e ci ritroviamo nel 1973.
Javier, il figlio del clown col machete, decide di proseguire la tradizione di famiglia e trova un ingaggio come pagliaccio triste, unico ruolo possibile per chi non ha mai avuto un'infanzia. Qui incontra il suo alter-ego, Sergio (Antonio de la Torre), un violento ed alcolizzato pagliaccio scemo; e la compagna di quest'ultimo, Natalia (interpretata da Carolina Bang), una più che mai sensuale e masochista acrobata. Ed ecco a voi servito il più classico triangolo amoroso, che poi di consono in quello che si vedrà c'è ben poco. A fare da contorno al terzetto una colorata ondata di freaks.
Ciò che mette in scena Iglesia ricorda "Il Labirinto del fauno" [LINK] di Guillermo Del Toro; una favola nera, nerissima, un frullato di generi fatto calare all'interno di un contesto storico doloroso, che di tanto in tanto, si affaccia in scena con immagini di repertorio; e qui il franchismo appare sotto una duplice luce, quella della violenza fascista e quella trendy fatta di starlet, lustrini e tuffi al mare, perché si sa, in superficie deve apparire sempre tutto pacificato e normalizzato.
Ed il circo diviene così il palcoscenico della sopraffazione franchista, un germe incontrollato che si irradia tra la popolazione e che porterà ad una vera e propria trasfigurazione dei pagliacci.
Iglesia mette in scena un calderone in cui tutto è ammesso, un caleidoscopio orrorifico, grottesco e visionario, un fumettone pop in dar spazio anche ad un Franco vecchio ed imbolsito (trovata che ricorda l'Hitler tarantiniano nel cinemino francese) intento al tiro al piccione.
"Ballata dell'odio e dell'amore" è un film ipertrofico (si veda anche il finale), è vero, eppure è capace di travalicare il suo caos; è una bestia mutante, che ci porta verso un'essenza che difficilmente ci si può immaginare: una danza macabra e malinconica, la messa in scena di ferite ancora non del tutto rimarginate; non è un caso che sino agli anni 2000 la guerra civile ed il franchismo siano stati il tabù del cinema spagnolo...
La pellicola venne presentata nel 2010 al Festival di Venezia e, tra gli applausi generali, si portò a casa i premi per miglior regia e sceneggiatura. Poi la nostra poco attenta distribuzione, lo lasciò in naftalina per 2 anni e quando uscì non se lo filò nessuno (neanche mille euro di incassi).
Volete un consiglio? Accaparratevi il Dvd, difficilmente resterete indifferenti.

Habemus Judicium:
Ismail

lunedì 2 aprile 2018

L'ANGOLO DEL CULT #10: "IL CORVO 2: CITY OF ANGELS" (1996) DI TIM POPE

A due anni dal successo de "Il Corvo"[LINK], quel porcello di Weinstein pensò bene di sfruttare il potenziale brand e mise su l'impalcatura produttiva di un sequel: "Crow 2: City of angels".
In definitiva il peccato fu originale, perché si sbagliò proprio concettualmente l'operazione.
Già, perché la sceneggiatura di David S. Goyer non si discostava quasi per nulla dal primo capitolo e già di per sé non era cosa saggia; poi aggiungiamo che pure le scenografie e l'ambientazione si basavano sull'ossatura del primo e poco fa che si era deciso di ambientare il sequel in una Los Angeles buia ma luminescente: da un lato l'originale con i suoi colori freddi, dall'altro questo colorato di un giallo saturo degno di "Element of crime". Ma sempre stessa sbobba: ambientazione distopica, decadente, ecc ecc... non so più come dirvelo.
E dulcis in fundo, la colonna sonora (ancora) di Graeme Revell, che è esattamente la stessa.... La stessa! Cosa siamo in un film di Bond??
Certo, a sto giro non c'è più il pucci pucci con la tipa che poi viene stuprata e trucidata, ma abbiamo a che fare con un rapporto padre/figlio stroncato. Stroncato da chi? Dall'ennesima combriccola di simpaticoni sociopatici punk, che qui sono più in versione biker (ed è questa una leggera variazione sul tema, anche nel look del protagonista) mentre nel primo erano in versione rocker. 
Già nel primo film simpatizzavamo con Fun boy, T-Bird e compagni, perché oggettivamente sono delle personalità colorite e genuine, fanno scassare dal ridere e, per fare serataccia, sarebbero sicuramente più piacevoli di quel bigotto moralista di Eric Draven, che ti fa la paternale se fumi. 
Stavolta che dire: abbiamo un segaiolo con parrucchino e troppo eyeliner, con l'hobby di girare filmini in videocamera, una cinese anonima che sembra Lucy Liu e, ca va sans dire, fa arti marziali e spara coltelli, un altro capellone qualsiasi e.... e... IGGY!
Oh my god che prestazione! Petto nudo (gilettato) scheletrico, tatuaggi luridi, zazzera biondo platino, stivalozzi speronati e pantaloni di pelle...oooh babyyyy; eppoi quell'aria da instabile guascone che si permette anche il lusso di imitare a Mia Kirschner (lo avreste voluto fare anche voi eh? Ma non ne avete le palle... Jimmy si), con sguardo meravigliosamente lascivo, una fellatio, inumidendosi ripetutamente l'indice. Poesia pura.
Ma per l'epicità dobbiamo aspettare una bella fetta di film, quando si arriva alla resa dei conti e parte l'inseguimento in moto con la Ducati del protagonista. E qui il nostro beniamino, con espressione isterica e allucinata (perché ne ha altre?) si rivolge ad Ashe: "Credi che ho pauraa? Credi che ho pauraaaa???" Fucilata sul serbatoio della moto, bum, sbam, addio Iggy. 
Il capo di questi burloni, Judah (Escariota. Non è uno scherzo! È proprio lui o almeno doveva essere. Non ci credete? Fate caso alla scena in cui Ashe lo manda all'inferno, Judah gli risponde:" grazie ma ci sono già stato e mi è piaciuto") è uno scemo che dovrebbe scimmiottare Top Dollar e già solo per questo non lo si sopporta: ogni volta che apre la bocca sembra che debba dire qualcosa di epocale. Poi ovviamente dice le solite cazzate da cattivo.
Inizialmente si era pensato di resuscitare Top Dollar e renderlo un anti corvo, anch'esso immortale, ma poi, fortunatamente(?), si accantonò l'idea. Si decise allora, in pieno spirito con il more of the same, di spingere sul lato sadico del boss con risultati ancora più esilaranti: di fronte alle sequenze di bondage mistico che intervallano un omicidio e quello successivo, solo qualche borghesuccio si potrebbe scandalizzare per due frustate e un po' di cera sciolta.
Come da idea iniziale, il cattivone lo si rende immortale, dopo che ha bevuto il sangue del corvo morente; ovviamente mossa inutile e fine a se stessa, che poi tanto lo steccano ten minutes later, of course. 
Poi c'è una veggente cieca inutile. Vabbè, passiamo oltre. 
Vincent Perez nella parte di Ashe? Più Pierrot che maschera Dark, funziona perfettamente. È molto meglio di Brandon Lee, perché questo è un signor attore che ha doti espressive e riesce a restituire il lato buffamente sadico, e più fedele al fumetto di O'Barr, del personaggio del vendicatore. 
Anche Mia Kirchner, nella parte di una Sarah cresciuta, ponte di collegamento con il predecessore, è azzeccatissima: quello sguardo abissale rapirebbe chiunque, figurati noi stronzi mediocri che guardiamo i film per svagare la mente, spalmati sul divano come dei coleotteri. 
Bisogna riconoscere che la scelta di abbozzare un'affinità erotica tra i due "buoni", senza che ciò si concretizzi nel canonico atto amoroso, è una scelta raffinata. 
Altro punto a favore è l'interazione padre/figlio che, di per sé, è un'ottima variatio sul tema, e regge in credibilità e dramma, pur esplicandosi in fotonici e striminziti flashback. 
Per il resto bisogna sopportare il fatto che la trama risulti sbrigativa e slegata; é un continuo alternarsi di dialoghi apocalittici, scene di violenza e riempitivi involontariamente comici (la scena della bambina tossica, che appare un paio di volte, rannicchiata e avvolta nel lerciume, in un angolo di strada, vorrebbe rendere l'idea di un degrado sociale, ma sfocia in un siparietto degno di una parodia del neorealismo), che, pur mantenendone alto il ritmo, smorzano l'enfasi sulla narrazione. Sotto questo aspetto pesa la differenza stilistica tra i due film della serie: il tono solenne e prosopopeico del primo aveva il pregio di coinvolgere, mentre quello più sommesso e decadente di questo "City of angels", pur avendo un suo perché, decisamente è scarso di pathos. 
Peccato che su un film del genere sia calata la spada di Damocle di un cult come "The crow". A guardarlo a mente sgombra è un film godibile, meno riuscito del primo (che non era manco quello merce pregiata) ma con alcune idee ed elementi qualitativi. Rivalutatelo e rigustatevelo di tanto in tanto, se non altro per aggiornare la vostra playlist di musica rock di qualità.

Habemus Judicium:
Bob Harris