Siamo partiti dalla fine, dal "Revenge" [LINK] di Coralie Fargeat che attualmente imperversa nelle nostre sale; ora però bisogna fare un balzo all'indietro, muoverci tra le pieghe della storia ed immergersi in una Hollywood in bianco e nero che soccombe agli scandali ed alle bollette. Sembra strano ma è solo volgendo lo sguardo così lontano che si può capire la nascita e l'evoluzione del filone cinematografico più ambiguo e discusso di sempre.
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Siamo nei 60s, anni difficili per Hollywood.
Il peplum "Cleopatra" sta mandando con il culo per terra un gigante come la Fox: scenografie colossali e costumi sfarzosi che aumentano di giorno in giorno. La Taylor che fa le bizze. 44 milioni di dollari spesi contro i 2 inizialmente previsti. 6 ore di film, ridotte a 4 contro il volere del regista Joseph Leo Mankiewicz. Ci vogliono un paio d'anni per rientrare della spesa ed iniziare a guadagnarci qualcosa, e ciò nonostante che il film sia un successo planetario clamoroso. E se alla Fox va di schifo non è che agli altri stiano meglio.
Oltre l'aspetto economico c'è una questione squisitamente cinematografica che trae origine da una tediosa storia, risalente ai ruggenti anni del proibizionismo, fatta di giudici, codici e morti.
Per prima arriva la Corte Suprema federale che nel 1915 esclude il cinema dalle tutele del I Emendamento. Ah gli States, la culla della libertà. Poi, a complicar le cose, giungono omicidi e scandali.
Il 5 settembre del 1921, durante una festicciola messa su dalla star delle comicità americana, il pingue Roscoe Arbuckle, muore la giovane attrice Virginia Rappe. Forse la causa è un mix letale di alcolici e stupefacenti. Forse la ragazza ha subito una violenza carnale. E' certo, se si considerano valide le parole del vice-medico legale di San Francisco, Micheal Brown, che ci sia stata un'attività di copertura con tanto di distruzione di prove.
L'indiziato principale è Roscoe, monta lo scandalo e gli Yankee reagiscono a modo loro: alcuni inneggiano alla tanto cara pena di morte, i più estrosi decidono di impallinare tutti gli schermi su cui si osa proiettare le comiche di Roscoe.
I legali dell'attore in un primo momento si battono affinché l'accusa di omicidio volontario venga declassato a preterintenzionale. Poi, con l'inizio del processo, cambiano versione: Arbuckle non ha fatto nulla, anzi se guardate bene la storia è quella Virginia ad essere stata una poco di buono, una che andava con tutti. Se un omicidio non bastava, è il contorno a rendere ancor più disgustosi gli eventi.
La giustizia condanna in un primo momento Roscoe per omicidio e violenza carnale, poi si rimangia tutto e lo assolve. Seppure tornato ad essere un uomo libero, per Roscoe è finita: le folle lo odiano, la Paramount ha mandato al macero tutti i suoi film non ancora distribuiti e nessuna casa produttrice lo vuole. Arbuckle cade nell'alcolismo e, pochi anni, dopo muore d'infarto.
Poco dopo Virginia, è il febbraio del 1922, la morte bussa alla schiena dell'attore/regista William Desmond Taylor sotto forma di una pallottola. Seguono sospetti e chiacchiericci su numerose star dell'epoca. Anche qui nessun colpevole accertato. Ancora qualche mese e muore un'altra stella di Hollywood: Wallace Reid; la causa un amore troppo stretto con la morfina.
Droga, morti sospette ed omicidi.
Gli scandali si sa, richiedono delle risposte, ed i principali studi cinematografici decidono di ripulirsi la coscienza stilando dei regolamenti interni a cui attenersi; poi fanno di più, aderiscono volontariamente al Codice Hays, innovativo strumento che indica la strada da seguire per girare un film: niente sesso, nessun accenno a malattie veneree o devianze sessuali, niente omosessualità, niente alcol, droghe e violenza. Via dai cinema a stelle e strisce tutto ciò che è considerato immorale.
I registi avrebbero dovuto ingegnarsi per non essere puniti dalla becera mentalità puritana.
Ecco cari lettori, vi chiederete il perché di questo salto indietro nel tempo.
La risposta è semplice e per capirla bisogna fare nuovamente un passo avanti e ritornare ai tempi di "Cleopatra". Si lo sappiamo, la nostra è una narrazione fatta di semplificazioni e salti temporali che faranno storcere il naso a chi ne sa più di noi; ma non possiamo tediare ulteriormente quei quattro lettori che ci leggono.
Se il cinema americano, nel secondo dopoguerra, si ritrova imbrigliato nei legacci dell'autocensura e cade in un vortice di schemi ripetuti, quello europeo si rinnova profondamente. La Francia esporta quella meravigliosa creatura che è la Nouvelle Vague. L'Italia propone la sua commedia ed il neorealismo. Poi gente come Leone, Damiani, e Corbucci, liberano il western dalla retorica americana: al posto di eroi senza macchia trovavano spazio reietti che fanno della vendetta e della rivoluzione un ideale irriducibile. La corsa verso il west diventa una fotografia lurida, cadenzata da inimmaginabili esplosioni di violenza.
Il cinema del vecchio continente pulsa di vitalità e fa una concorrenza spietata. Poi ci si mette di mezzo anche la televisione che entra prepotentemente nelle case degli americani e sta per divenire la prima forma di entertainment.
Bisogna fare qualcosa per salvare Hollywood.
Bisogna rinnovarsi.
Arrivano opere che segnano il cambio di passo.
"Il Laureato" che porta alla fama un Dustin Hoffmann che rappresenta un'intera generazione. "Gangster Story", firmato da quella vecchia volpe di Arthur Penn, che propone la violenza della società americana. E poi lui, "Easy Rider" [LINK], così carico della controcultura della contestazione, che ci lascia con un grido di rabbia bloccato nella gola e segna l'epilogo del sogno americano.
Poi, per mezzo di una noiosissima questione legale di cui non c'importa na sega, i produttori mandano a fanculo Hayes ed il suo codice.
Hollywood finalmente osa: dà fiducia ad un'allegra combriccola di giovani registi/attori che sono cresciuti con il cinema europeo; tirano su, con pochi spicci, opere che fanno irrompere sulla scena la violenza, il sesso, la guerra e la demistificazione del mito americano. Nasce così il cinema d'autore americano, un' un'atmosfera creativa che sarà sintentizzata nel nome di Nuova Hollywood. Roba perfetta per il politicizzato pubblico giovanile americano.
E' in questo clima che inizierà a muoversi il Rape and Revenge, sguazzando tra rednecks e tabù da sfondare, un percorso che asseta i palati più truculenti e, sopratutto, vuole mostrare il volto più disturbante della società occidentale.
E' Curioso poi che il canovaccio dello stupro/vendetta provenga da un film del 1960 firmato da quel genio di Ingmar Bergman...
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"La fontana della vergine-Jungfrukällan"(1960) di Ingmar Bergman:
«Ma tu vedi, Dio! Tu vedi, vedi la morte di un innocente, vedi la mia vendetta e non l'hai impedito. Io non ti capisco! Eppure adesso chiedo il tuo perdono».
-Töre-
Siamo nel 1960 ed il medioevo torna a splendere sulla pellicola in B/N.
Bergman per questi lidi ci era già passato tre anni prima con "Il Settimo Sigillo", film geniale che è molto di più di un uomo che si gioca le sue ultime chances di vita in una partita a scacchi con la morte.
Ma torniamo a noi. E' il 1960 ed è il turno de "La fontana della vergine", la riproposizione di una leggenda del XIV secolo che ci conduce in una Svezia ancora in bilico tra paganesimo e cristianesimo.
Töre (Max Von Sydow), un ricco proprietario terriero, insiste affinché la figlia Karin porti dei ceri alla Madonna, come da tradizione. La giovane, accompagnata dalla Ingeri, serva pagana e disonorata, si mette in viaggio con il suo cavallo, per attraversare la foresta e giungere alla chiesa. Qui Karin incontra dei pastori che la irretiscono, violentano ed infine uccidono. Ingeri non ha potuto né voluto far nulla, bloccata dalla paura e dall'invidia che prova verso la giovane ragazza. Gli assassini, la sera, giungono nella casa del padre che scoprirà l'accaduto e mediterà vendetta.
Il dado era tratto. O meglio lo sarebbe stato nei primi anni '70. Wes Craven prenderà Karin, Töre e tutti gli altri, li porterà nella società dei giovani contestatori e dell'emancipazione femminile, e darà alla luce "L'ultima casa a sinistra": sarà il primo dei tanti figli, più o meno legittimi, dell'opera di Bergman.
Nella "Fontana della Vergine" c'è il plot del R&R. Non solo, anche la scelta stilistica fatta dal regista svedese è fondamentale: le violenze avvengono con un realismo impensabile per l'epoca, una potenza espressionista che ci piazza davanti un urlo di dolore disumano davanti agli occhi.
"La fontana della vergine", così come i futuri figliocci, è basico, lineare e brutale.
Poi però, la Vergine, vive anche di una profondità tipicamente bergmaniana, un susseguirsi di simboli scuri ed angoscianti in cui riecheggiano alcuni temi della sua narrazione:il rapporto tra l'Uomo ed un Dio lontano ed imperscrutabile, colpevolmente silenzioso dinnanzi al mistero del male; il solenne Töre che si purifica con un rito pagano, si trasforma in un giudice supremo ed aggiunge al finale quella crudeltà che non ti aspetti. Nel proseguo della sua filmografia, il male diverrà un mistero insondabile e si trasformerà in un ponte che condurrà Bergman verso l'assenza/abbandono di Dio. Ma questa è tutta un'altra storia [Continua...].
Bob Ft. Ismail
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