lunedì 15 ottobre 2018

"THE NUN-LA VOCAZIONE DEL MALE" (2018) DI CORIN HARDY

«Quando ero piccola avevo delle visioni e ogni volta che finivano qualcosa mi rimaneva impressa nella mente»
-Suor Irene-

"The Nun" (sottotilo ideale: Anatomia di una suora) è il nuovo spin-off/prequel della saga di "Conjuring", dopo i due "Annabelle". Diretto da Corin Hardy, ma prodotto dall'onnipresente James Wan, si è subito piazzato  nell'olimpo degli incassi.
Trama: siamo nel 1952, in Romania, due suore cattoliche che vivono nel monastero di Cârţa, vengono attaccate da una forza invisibile. La suora sopravvissuta, Suor Victoria, fugge dall'oscura presenza, un demone che appare come una monaca, e si impicca lanciandosi da una finestra. Il suo corpo viene scoperto giorni dopo da un giovane del villaggio detto il Francese.
Il Vaticano viene a sapere dell'incidente e convoca a Roma Padre Burke, al quale si chiede di recarsi con Suor Irene, una postulante nel periodo del noviziato, in Romania per indagare sulla situazione.
La suora cattiva era già apparsa in quel manifesto mod di "The Conjuring- il caso Enfield" (...we'll never walk aloneee... Ah no scusate) e, stringi stringi, si scopriva essere nientemeno che un demone: Valak. Memori di questa scoperta, gli spettatori si accingono alla visione curiosi di sapere come tutto cominciò. Per chi ha masticato i film di James Wan prodotti da Jason Blum, non dovrebbe essere difficile immaginare questo COME: tra serpenti in scarsa CGI fuoriuscenti da orbite, vetri che esplodono e jump scares vari, è tutto abbastanza telefonato. 
Ma allora mettiamoci d'accordo: bocciamo tutti i film successivi ad "Insidious"[LINK] o accettiamo il fatto che, sorretta da un crescendo sonoro, tra una finta e una controfinta, apparirà sempre, seguita immediatamente da un esplosione uditiva, la presenza malvagia pronta a spaventare più che ad uccidere il malcapitato; con tutto l'arsenale di una sala cinematografica il salto sulla sedia sarà inevitabile anche per i più scafati. 
Quella contro il jump scare fine a sé stesso è una polemica di lungo corso: è noto che film del genere sfruttino la potenza della sala cinematografica per tenere lo spettatore sulla corda e fargli prendere un coccolone al momento giusto; la controprova è data dal fatto che una visione casalinga toglie già la metà del gusto (e per capire quanto si possano rendere fini a sé stessi i jump scares è consigliata la visione di quel piccolo capolavoro di "Drag me to hell" di Raimi, dove il buon Sam gioca in continuazione con la paura dello spavento improvviso). 
Tolti i jump scares e il mistero sulla presenza oscura, cosa rimane? 
Potremmo dire i colpi di scena, ma ne abbiamo solo uno e, per di più, farlocco. Fino a metà film siamo convinti che il convento sia ormai abitato soltanto da Valak, invece si è, a un certo punto, forzati dalla trama a credere che ci sia la presenza di altre suore, per poi scoprire che, toh, in effetti era abbandonato fin dall'ingresso dei tre protagonisti. Perciò ben poca trama, che si concentra sul consueto schema apparizione demoniaca, protagonisti che la fronteggiano e contenimento finale della stessa (più twist obviously). 
Rimane un'atmosfera e un'ambientazione che ha gioco facile tanto si presenta suggestiva tra cimiteri campestri, vecchi caseggiati, montagne lugubri e un gigantesco convento spettrale. 
Lo stesso villain, interpretato dall'inquietante e anch'essa onnipresente Bonnie Aarons (parlavamo di Drag me to hell...), è un'azzeccatissima maschera del terrore, esaltata nella sua presenza scenica (la meravigliosa sequenza della prima apparizione nella cappella) ed è un peccato che non rimanga alcun mistero su di esso, essendo già stato rivelato il grosso in "The Conjuring". 
Osservando la regia è chiaro che Hardy è praticamente una bambola (californiana) manovrata dall'immancabile Wan, il cui tocco si percepisce chiaramente: jump scares, messa in scena, ironia stempera-tensione, flashbacks, timing perfetto dello spavento e movimenti di macchina (specie nell'uso della soggettiva) sono farina del suo sacco. Per non parlare del montaggio: il riuscitissimo prologo in carrellata all'indietro con le candele che progressivamente si spengono all'avanzare di Valak nel buio, mentre una croce in primo piano lentamente si rigira al contrario. Beh la mano è palese.
Sentimenti contrastati accompagnano le scene d'azione: si va dall'imbarazzante sequenza della colluttazione con il bambino posseduto, scontata e di fattura CGI pessima, passando per le incursioni di Valak, rese ottimamente per gran parte del film; infine, ahinoi, tocca mandare giù la risoluzione finale in perfetto stile "Underworld", che pare proprio essere inevitabile per il tipo di prodotto.
Nota davvero stonata è il personaggio di Padre Burke: posto innanzitutto che Demián Bichir ha più il phisique du role per apparire in "Expendables" che per interpretare il ruolo di un prete, il suo personaggio è totalmente inutile. Oltre a non conferire il minino apporto alla trama, assistiamo a un epilogo in cui viene completamente messo da parte e ridotto a spettatore; si poteva optare sicuramente per qualcosa di diverso che, comunque, facesse risaltare Taissa Farmiga, la vera protagonista del film nei panni di Suor Irene, (personaggio lei si ben delineato). D'altro canto funziona il personaggio del "Francese", elemento di comicità e alleggerimento (saggiamente dosato) e inaspettata chiave di volta per ricollegare questo prequel ai successivi capitoli.
In definitiva parliamo di un film ben diretto ed ambientato, poco pretenzioso nei contenuti e nell'originalità, ma dotato della giusta dose di tensione da un lato e ironia dall'altro. 
Quindi?! 
Si va a colpo sicuro, che domande.

Habemus Judicium:
Bob Harris

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