lunedì 11 dicembre 2017

L'ANGOLO DEL CULT #3: "EASY RIDER" (1969) DI DENNIS HOPPER

« Una volta questo era proprio un gran bel paese, e non riesco a capire quello che gli è successo »
-George Hanson-

E via con un trip da acido in un cimitero. 
La macchina da presa si fa occhio soggettivo e, sostenuta da un montaggio psichedelico in cui si alternano brevi fotogrammi, travalica i normali canoni portandoci dinnanzi ad una scena allucinata e sacrilega.
C'è poco da fare, "Easy Rider" (1969) di Dennis Hopper, vincitore nel tripudio generale della Palma d'Oro al Festival di Cannes, fu il film giusto al momento giusto: pur imperfetto, si impose come vero e proprio spartiacque nella cinematografia made in USA, spalancando definitivamente le porte alla Nuova Hollywood. Per capire il ruolo di questa pellicola e del perché sia divenuto un mito intergenerazionale, si deve però fare un piccolo passo indietro e vedere il contesto in cui si mosse il buon Hopper. 
Hollywood era in crisi nera. Le produzioni cinematografiche avevano raggiunto costi insostenibili ed anche un gigante come la Fox rischiò di chiudere bottega a causa del colossale peplum "Cleopatra". 
A complicare le cose ci avevano pensato i registi europei. La nouvelle vague francese ed il cinema italiano con il neorealismo e la commedia, avevano rinnovato profondamente il linguaggio cinematografico dando vita ad una concorrenza spietata. 
Si aggiungeva a ciò il codice Hays, un regolamento interno alle case di produzione che imponeva una sorta di censura preventiva. Niente violenza, niente sesso, niente droga, il cinema doveva rassicurare il suo pubblico e farlo arrivare al più rincuorante happy ending
E proprio quando tutto sembrava essere finito e la televisione stava diventando la prima forma di entertainment delle famiglie americane, arrivò la svolta: una gragnuola di giovani attori e registi irruppero sulla scena e le case produttrici, come ultimo colpo di coda, gli diedero fiducia, concedendo loro qualche spiccio e spazi di manovra più ampi rispetto ai colleghi più anziani. 
Il simbolo di questo strappo, avvenuto in modo più graduale di quanto si possa immaginare, è "Easy Rider", vero e proprio catalizzatore di quella nuova corrente cinematografica che aveva visto i suoi prodromi ne "Il Laureato"(1967) ed in "Gangster Story"(1967). 
La trama è delle più semplici. 
Due ragazzi, Wyatt (interpretato da Peter Fonda) e Billy (Dennis Hopper) trasportano un carico di cocaina dal Messico agli USA e con i ricavi acquistano due moto chopper. Il loro obiettivo è attraversare il paese, un viaggio dalla California a New Orleans dove andare a festeggiare il carnevale. 
"Easy Rider" è il film on the road per eccellenza, dove il classico tema del viaggio viene mescolato con la controcultura esplosa con la contestazione giovanile del '68. 
Quella di Wyatt e Billy è una fuga dal sapore di libertà, il ripudio di quella società borghese, votata anima e corpo al profitto, pronta a calare in ogni momento la maschera del perbenismo per scatenare la propria violenza verso il diverso (i protagonisti del film sono invisi all'uomo comune, modi di vivere, comportarsi e vestirsi non inquadrabili negli schemi comuni e perciò considerati deprecabili). E' l'epilogo del sogno americano, suggellato da un un finale che lasciò, e lo fa tutt'ora, gli spettatori ammutoliti con un grido di rabbia bloccato nella gola. Una cavalcata epica accompagnata dalla bellezza dei paesaggi naturali, fotografati da Laszlo Kovacs, e dall'esplosiva colonna sonora che va dai Byrds ad Hendrix fino alla grinta blues degli Steppenwolf.
"Easy Rider" mostrò un modo nuovo di fare cinema.
Un film indipendente, con un budget ridotto all'osso, girato fuori studio, che si avvaleva di giovani attori (tra cui un Jack Nicholson ancora semisconosciuto) e distribuito nei circuiti alternativi. Una storia originale in grado di dialogare con il politicizzato pubblico giovanile e che mostrava con forza una realtà socio-politica percorsa da droghe, violenza e sesso. Il nuovo cinema d'autore americano si faceva largo, niente (o quasi) sarebbe stato più come prima.

Habemus Judicium:
Ismail

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