«[...] il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e di obiettività. Amare le noci e amare nostra madre, non può voler dire la stessa cosa. La prima formula designa un gusto gradevole in bocca, e la seconda un sentimento.
Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe: è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti»
Siamo in guerra, in un luogo qualunque dell'est europeo. La grande città è schiacciata dai bombardamenti ed una madre, rimasta sola con i suoi due gemellini, non sa più cosa fare.
Come unica speranza c'e la nonna dei due piccoli; lei abita nella piccola città e lì il conflitto è lontano. L'anziana donna è però l'ultima persona a cui pensare di lasciare dei bambini, è brutta, sporca e cattiva, un' avara e violenta che i suoi compaesani usano chiamare la strega.
Per la madre non c'è altra alternativa, i suoi gemelli dovranno andare lì e resistere alle angherie dell'anziana donna.
Come unica speranza c'e la nonna dei due piccoli; lei abita nella piccola città e lì il conflitto è lontano. L'anziana donna è però l'ultima persona a cui pensare di lasciare dei bambini, è brutta, sporca e cattiva, un' avara e violenta che i suoi compaesani usano chiamare la strega.
Per la madre non c'è altra alternativa, i suoi gemelli dovranno andare lì e resistere alle angherie dell'anziana donna.
"Il Grande Quaderno" quando uscì nel lontano 1986 fu una potente scudisciata sul mondo della letteratura, una prosa secca e tagliente per un racconto che pulsava perfidia e cinismo ad ogni rigo.
Dietro l'opera una signora nessuno, Agota Kristof, una scrittrice magiara di lingua francese che si era dedicata alla poesia da giovanissima ed alla scrittura di qualche spettacolo teatrale. Nel mentre una vita da esule. La sua Ungheria l'aveva abbandonata nel 1956 a seguito dell'invasione sovietica. Il primo marito, un professore di storia sposato a 18 anni, temeva di finire in carcere e di rimanere lì non aveva alcuna voglia; di quel matrimonio e della fuga successiva la Kristof se ne sarebbe pentita, «due anni di galera in Urss erano probabilmente meglio di cinque anni di fabbrica in Svizzera».
Dietro l'opera una signora nessuno, Agota Kristof, una scrittrice magiara di lingua francese che si era dedicata alla poesia da giovanissima ed alla scrittura di qualche spettacolo teatrale. Nel mentre una vita da esule. La sua Ungheria l'aveva abbandonata nel 1956 a seguito dell'invasione sovietica. Il primo marito, un professore di storia sposato a 18 anni, temeva di finire in carcere e di rimanere lì non aveva alcuna voglia; di quel matrimonio e della fuga successiva la Kristof se ne sarebbe pentita, «due anni di galera in Urss erano probabilmente meglio di cinque anni di fabbrica in Svizzera».
Ma lasciamoci alle spalle le questioni biografiche e torniamo al caso letterario.
Il "Grande quaderno" è difatti solo l'inizio. Nel 1988 viene pubblicata "La Prova" e nel 1991 "La Terza Menzogna", gli altri due tasselli della "Trilogia della citta di K.".
Bastano poche righe e si rimane imbrigliati in un vortice dal quale non è più possibile fuggire.
"Il grande quaderno" altro non è che il diario tenuto dai due gemellini nella loro nuova dimensione di vita. Un racconto cadenzato da fatti e persone, colpi secchi e ben calibrati che ci trascinano verso la normalità dell'orrore.
E' un austero processo di disumanizzazione, opera di quel conflitto che rimane minaccioso sullo sfondo ed in cui l'umanità e l'amore diventano ostacoli per un unico bisogno primario: sopravvivere; non importa che per raggiungere tale scopo si debbano prevaricare i corpi altrui.
Ne "La prova" e "La terza menzogna", mutano temi, stile e prospettive. I pensieri si articolano, non limitandosi più solo ai fatti, così come il tema della guerra lascia spazio alla solitudine ed a quel sentirsi esule. Eppure rimane vivo quel turbine scioccante accarezzato nel primo libro, acuito da una Kristof che si prende gioco del lettore mescolando continuamente le carte in tavola.
Capolavoro.
Una parola da tenere sempre a debita distanza.
Un suo abuso ne svilirebbe la portata.
Stavolta lo possiamo tirare fuori dalla naftalina, qui il suo impiego è pienamente legittimo.
Lo è per la prosa, immediata e visiva, che è degna dei migliori.
Lo è per il contenuto, una favola nera fatta di ombre e fantasmi che muove da un determinato contesto storico, se lo scrolla di dosso e ci pone dinnanzi ad un disfacimento esistenziale universale.
Lo è per quel cinismo ai limiti del surreale, che perfettamente rende la naturalezza del male, una forza incontrollabile che giunge senza preavviso sconvolgendo le esistenze.
Lo è perché "La trilogia della città di K." colpisce alla pancia e ti entra sotto la pelle.
Il "Grande quaderno" è difatti solo l'inizio. Nel 1988 viene pubblicata "La Prova" e nel 1991 "La Terza Menzogna", gli altri due tasselli della "Trilogia della citta di K.".
Bastano poche righe e si rimane imbrigliati in un vortice dal quale non è più possibile fuggire.
"Il grande quaderno" altro non è che il diario tenuto dai due gemellini nella loro nuova dimensione di vita. Un racconto cadenzato da fatti e persone, colpi secchi e ben calibrati che ci trascinano verso la normalità dell'orrore.
E' un austero processo di disumanizzazione, opera di quel conflitto che rimane minaccioso sullo sfondo ed in cui l'umanità e l'amore diventano ostacoli per un unico bisogno primario: sopravvivere; non importa che per raggiungere tale scopo si debbano prevaricare i corpi altrui.
Ne "La prova" e "La terza menzogna", mutano temi, stile e prospettive. I pensieri si articolano, non limitandosi più solo ai fatti, così come il tema della guerra lascia spazio alla solitudine ed a quel sentirsi esule. Eppure rimane vivo quel turbine scioccante accarezzato nel primo libro, acuito da una Kristof che si prende gioco del lettore mescolando continuamente le carte in tavola.
Capolavoro.
Una parola da tenere sempre a debita distanza.
Un suo abuso ne svilirebbe la portata.
Stavolta lo possiamo tirare fuori dalla naftalina, qui il suo impiego è pienamente legittimo.
Lo è per la prosa, immediata e visiva, che è degna dei migliori.
Lo è per il contenuto, una favola nera fatta di ombre e fantasmi che muove da un determinato contesto storico, se lo scrolla di dosso e ci pone dinnanzi ad un disfacimento esistenziale universale.
Lo è per quel cinismo ai limiti del surreale, che perfettamente rende la naturalezza del male, una forza incontrollabile che giunge senza preavviso sconvolgendo le esistenze.
Lo è perché "La trilogia della città di K." colpisce alla pancia e ti entra sotto la pelle.
Ismail
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