martedì 11 aprile 2017

UN FRAMMMENTO

La maggior parte delle persone con le quali abbiamo condiviso un’esperienza non fanno parte della nostra vita attuale. Cosa ci hanno lasciato dentro? Cosa proviamo nel rivederle? Mi fa davvero uno strano effetto quella sensazione che si prova quando rivedi qualcuno che credevi di non conoscere più, ormai espunto dalla nostra quotidianità già da molto tempo.  E’ come se il tempo se ne fosse fottuto di tutte le tue struggenti e dolorose evoluzioni psicofisiche. Tu sei diverso, dentro e fuori. Magari quando eri piccolo a scuola ti sfottevano perché eri grasso, o magari eri tu ad accanirti sul prossimo. Forse una certa, tremenda e infantile battuta ti aveva fatto sghignazzare per anni con i tuoi compagni di merende. Non come adesso che sfoggi una sottile ironia dopo anni passati ad affilarla con l’arrotino. Eppure quando incontrerai quella persona entrambi ritroverete quello che eravate. Vi sentirete come vi sentivate. E riderete ancora una volta per quella cazzo di battuta.
Per quanto le scuole medie siano considerate una delle esperienze scolastiche più trascurabili, per via della sua relativamente breve durata, personalmente sento di averle vissute in modo intenso e ho molti ricordi, un po’ sfumati certo. Ne ho fatte tante di cazzate allora. Cazzate positive si intende. Di quelle che, a pensarci, ci ridi ancora. Da quando in classe un mio compagno costruì un cazzo di carta e nel piegarmi in due dalle risate (e mimando un servizietto) piantai una scorreggia epica e fragorosa. Vergogna e ilarità generale. Oppure di quando, dopo aver rubato un manifesto della via crucis, all’ora x improvvisammo un corteo funebre in mezzo alla lezione di matematica. Era stata una mia idea. Ne avevo un sacco in quegli anni, una piccola mente criminale. Ahimè ero anche un po’ bulletto. Quanto avrà sofferto quel compagno che si sentiva dare del finocchio ogni giorno, in modi sempre più meschini e arguti? Quanto avrà sofferto la compagna in evidente sovrappeso per quelle battute da codice penale? Ma soprattutto lei.
Si chiamava Ali. Era bella, ricca, elegante e sportiva. Una borghese di razza. Le facevamo tutti il filo. A ripensarci strano perché allora era molto maschiaccio con quel capello spesso tenuto corto, l’assenza di trucco, le tute e la pallacanestro nel dna. Ma perciò era una bellezza particolarissima, raffinata. A dire il vero non so neanche cosa ci facesse in quell’istituto sporco e grigio, a contatto con i bulletti delle popolari, quelli si bulli veri.
Se noi tutti, chi più chi meno, sembravamo sguazzare nel fango, lei no, ci puoi giurare. Fluttuava costantemente in un alone di superiorità, linda e intoccabile. Giocava a basket e sudava certo, ma il suo ci pareva essere distillato di gardenia. In un sondaggio ufficiale maschile di classe era risultata piacere a tutti. Tutti tranne me. Già perché ero proprio un tipo orgoglioso e bugiardo. Probabilmente ci morivo dietro più di tutti gli altri messi assieme. Ma presto scoprì che non era lo stesso per lei. Non avrei mai potuto averla, lo sapevo. Ma come reagisce uno che ambisce a fare il capetto sminuito di fronte a un tale smacco? Deturpa ciò che non può avere. Se non provava nessun sentimento positivo per me, al diavolo, ne avrebbe provati di molti negativi.  La feci stare male per diverso tempo giocando sulle insicurezze di un’adolescente ancora non pienamente consapevole della sua grandezza. Oh ma si rifece con gli interessi: finì per dichiararmi con lei apertamente, con consapevole rassegnazione. Le diventai amico perché era tutto ciò che poteva darmi. Voilà friendzonato.
Ali finì per un periodo a stare col mio socio di marachelle Gigi, l’apprendista playboy della classe. Ma allora era troppo anche per lui.  
Quella con Ali fu una storia di privazioni, un sentimento puro e ingenuo nutrito ma mai appagato. A ripensarlo adesso, sensazione di poesia pura decadente.  Soprattutto fu la nascita di un’icona, un paradigma di sentimento che mi portai avanti per moltissimi anni.Diventò un'icona per me.
Dopo le scuole medie la rividi poche volte. Andò ad abitare nella big city, cambiò compagnie.
Quelle poche volte era sempre viva in lei la tipica curiosità femminile di chi cerca conferma di una sua vecchia conquista. Non mi sentivo più piccolo e insignificante di fronte a lei: finalmente  negli anni avevo preso consapevolezza di me stesso, finalmente potevo sedermi a quel tavolo e giocare le mie carte. Mi bastava questa sensazione. Non è detto che avrei vinto la partita. In quel momento non era neanche mia intenzione, preso com’ero dalle mie vicende attuali. Ma prima o poi avrei voluto rivederla, con la stessa morbosa curiosità della vittima desiderosa di vedere il suo carnefice. Questo pensiero mi ha sfiorato diverse volte negli anni, anche di recente.
Scomparsa dal mio ambiente, dalle mie cerchie e dai mezzi di comunicazione, faticai a ritrovarla tramite i social network, ma infine ci riuscì. Perciò di tanto in tanto scrutavo quel poco che appariva di lei dalla sua vita cibernetica.
E’ una quotidianità la nostra fatta di routine continue: i propri cazzi, le proprie cose. Vedere gli amici per berne una, ad esempio. Come quel venerdì. Il venerdì se ne bevono anche due o tre magari. E’ lo sfogo settimanale, lo Yes Weekend della persona media.
Dovevo essere un po’ brillo quando lessi il messaggio di quella vecchia compagna delle medie che non sentivo da anni. Cosa vorrà? Credo mi stia dando una notizia, qualcosa che evidentemente riguarda entrambi: " Ciao, ti scrivo per darti una bruttissima notizia…Ali è morta. Soffriva di un tumore da tempo ".
Non realizzi. Per molte ore, per alcuni giorni.
Hai sempre creduto che i tuoi idoli fossero immortali, non è così? Non andresti mai a pensare che la sorte umili l’effige di  colei che nella tua immaginazione era stata una dea. La più ambita e desiderata.
Ciò che venni a sapere successivamente mi aiutò a prendere consapevolezza, ma  dovetti pagare la pena dello strazio. Il cancro le aveva mangiato tutto. Ridotta a poco più che nulla. Un mostro i cui artigli si erano allungati tutto dentro di lei, provocandole insopportabili e continue sofferenze. Il più misero e ingiusto modo di morire. Da tempo non vedeva e non voleva vedere nessuno che non fossero i suoi familiari e il suo compagno di vita. Per anni durante le scuole mi domandavo quali fossero i suoi pensieri, me li immaginavo. Adesso mi trovavo ad immaginare cosa avesse provato negli ultimi periodi sapendo che avrebbe lasciato tutto e tutti, quanto la paura, la rabbia e l'angoscia scandissero il suo ultimo periodo. Questo fu per me un pensiero ancora più struggente.
Per volontà dei genitori non fu mostrato il suo corpo in camera ardente. Nessuno doveva vedere lo scempio attraverso  il quale il destino si era accanito, deturpandola. Tutti dovevano ricordarla per ciò che era: la ragazza per cui tutti perdono la testa a scuola.
Un’altra parte di me se ne era andata, all’indomani del  suo compleanno. Si dice che un genitore non dovrebbe vivere a lungo da veder seppellire il proprio figlio.
In questo mondo in cui i miti crollano e gli dei cadono no, non c'è spazio per alcuna regola.


                                                                                                                               Bob Harris

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