lunedì 26 novembre 2018

"7 SCONOSCIUTI A EL ROYALE" (2018) DI DREW GODDARD

Esiste, seppur raro, un cinema capace di raccontare una storia. Non parlo semplicemente dell'abilità nel farlo, ma della magia, insita nella mano di alcuni sceneggiatori, di creare un'atmosfera suggestiva e coinvolgente. Tra questi sceneggiatori rientra sicuramente Drew Goddard, già abile storyteller di uno degli horror più bizzarri e geniali degli ultimi anni, "Cabin in the wood" (da noi distribuito con il titolo "Quella Casa nel Bosco"), nella doppia veste di sceneggiatore e regista. 
Trama: siamo alla fine degli anni sessanta e l'hotel El Royale nasconde diversi segreti. Qui si ritrovano tre sconosciuti: una giovane cantante, un anziano prete e un venditore di aspirapolvere. Il gestore dell'albergo illustra loro una piantina della struttura facendogli scegliere se alloggiare in Nevada o in California, visto che l'hotel è esattamente sopra il confine tra i due stati. Ad un certo punto una ragazza hippie entra nell'hotel con comportamenti ambigui. Tutti diventeranno sospettosi gli uni verso gli altri ed ognuno dei presenti si troverà in quel posto per delle ragioni precise. 
"Bad time at the El Royale" suona decisamente meglio della insulsa traduzione italiana ("7 Sconosciuti a El Royale") e rende perfettamente l'idea di ciò che succederà nell'arco della pellicola.
Il film è strutturato in modo circolare: fin da principio vengono principalmente presentati i due personaggi che ci accompagneranno fino al pirotecnico epilogo della pellicola. Ed a conti fatti El Royale si avvicina molto a prodotti quali "Hateful Eight" e "Identità", riprendendone gran parte della struttura del primo e l'ambientazione del secondo.
A differenza dell'opera di Tarantino, El Royale non si avvale di dialoghi particolarmente brillanti ed incisivi, ma sicuramente si giova di una grande attenzione nella caratterizzazione dei personaggi, vero punto di forza della pellicola. 
La regia di Goddard è poi abile nel giocare sui diversi piani temporali che vanno poi a comporre il mosaico dell'intreccio narrativo e si nota una certa abilità (di cui abbiamo già avuto prova in "Cabin in the wood") nell'orchestrare le sequenze più concitate e ad alto tasso di violenza. Nonostante la sua durata corposa (più di due ore), la capacità di tessere una trama così complessa, ma accattivante, evita di far ballare l'occhio sulla lancetta dell'orologio. Tanta tanta roba davvero. 
"7 sconosciuti a El Royale" non è né un film politico né racchiude in sé particolari rimandi ipertestuali, eppure riesce a tratteggiare dei caratteri che, pur nell'assurdità delle situazioni, sono realistici ed alcuni concetti, di cui sono portatori, risultano essere molto ficcanti, pur nella loro intuitività. Discorso a parte per il charachter impersonato da Chris Hemsworth che è, almeno in parte, una stonatura: introdotto tardivamente da fanfare Tarantiniane, dovrebbe portare un ulteriore scombussolamento dell'intreccio, ma risulta stereotipato e superficiale; tutto sommato però, la trovata si digerisce e garantisce un ultimo atto adrenalinico, per quanto sovrabbondante rispetto a gran parte dell'intreccio. 
Colorato, stiloso, canterino (ma serioso) e ben interpretato da un cast di livello (Cynthia Erivo gran bella rivelazione), El Royale non è niente di rivoluzionario, quindi, né eccessivamente pretenzioso, ma ha diverse carte vincenti e se le gioca tutte egregiamente. 
Fin quando ci garantiranno il diritto di andare al cinema a vedere prodotti di questo tipo, che ci ammaliano fino a trascinarci totalmente nel loro mondo per due ore e più, beh allora saremmo soddisfatti di aver speso quella manciata di denari, liberati per una serata dalla schiavitù di una piattaforma totalizzante.

Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 19 novembre 2018

"OVERLORD" (2018) DI JULIUS AVERY

Quanto ci piace vedere i nazisti, brutti e cattivi, seviziati e trucidati nei modi più disparati? 
Siamo nel 2018 ed a stento si diffonde una visione alternativa della WWII che possa fare eco ad opere come "Europa" di Lars Von Trier. Sicuramente l'origine dei piani alti delle case produttive hollywoodiane tende ad assecondare una certa ottica ancora oggi. E sicuramente diamo volentieri completa licenza a un B-movie come questo di intrattenerci con scienziati pazzi, nazisti immortali (e infinitamente sadici) e ubermensch da laboratorio. 
Trama: alla vigilia dello sbarco in Normandia, un gruppo di paracadutisti statunitensi finisce in uno sperduto villaggio dove i nazisti stanno conducendo esperimenti su esseri umani, trasformandoli in creature feroci e soprannaturali.
Se B-movie deve essere, che sia fottutamente gioioso. E questo è "Overlord": prodotto stiloso di grande manifattura, scritto da fior fior di mestieranti, con enorme e fruttuosa esperienza alle spalle (Billy Ray e Mark L. Smith), incalzante più di quanto ci si possa desiderare.
Partiamo da un prologo stile "Private Ryan" che subito immerge, in modo adrenalinico, lo spettatore nel concitato e drammatico scenario di guerra. Sorprendentemente "Overlord" si rivela essere un credibile film di guerra; per i primi due atti viviamo tutto il pathos di un incursione militare, della paura e dell'inesperienza di semplici ragazzi mandati al macello, dell'esasperazione continua per la perdita di vite umane. Insomma ci sono tutti gli elementi di un ottimo war-movie. Scordatevi perciò i supernazisti, almeno per ora.
Piano piano viene sapientemente introdotto l'elemento fantascientifico e orripilante. Si fa davvero fatica a individuare il numero di commistioni di generi di questa opera così bizzarra, ma perfettamente centrata.
La costante del film è sicuramente l'abbondanza di violenza spinta e una certa drammaticità che poco si sposa con la tipicità del prodotto B-movie. Ed ovviamente, arrivati all'ultimo atto, risulta difficile rimanere troppo seri di fronte al profluvio di gore e scazzottate di ultrauomini chimicamente modificati.
"Overlord" è un'americanata di quelle che ci piacciono, da rivedere e rivedere: gli yankee sono buoni e ganzi, i nazisti sono degli assassini seviziatori e lascivi, fine. Prendere o lasciare. E quando ad una certo punto del film vedi un personaggio picchiato a morte, accoltellato e sparato in faccia correre, picchiare e sparare all'impazzata poco dopo, ti rendi conto che è il momento di spegnere il cervello e godersi lo spettacolo a mente sgombra.
Inevitabile, poi, lo scontro finale tra supereroe e supercattivo.
"Overlord" è in parte dramma bellico e in parte fantatamarrata, diverte parecchio, incalza e si bella di una certa grossolanità e spensieratezza. A questo B-movie 3.0 di qualità, che ha anche l'ambizione della verosimiglianza, perdoniamo volentieri la pretesa solennità e drammaticità di alcuni passaggi e lo collochiamo tra quei prodotti di entertainment ad uso e (ri)consumo che mai dovrebbe mancare nella videoteca di un appassionato.

Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 12 novembre 2018

MADE IN NETFLIX #3: "APOSTLE" DI GARETH EVANS

Netflix fa temere.
Fa temere l'eventualità che dia il via a una lunga serie di prodotti non scadenti, peggio: prodotti di qualità sì, ma tanto anonimi da essere di trascurabile e dimenticabile mediocrità. 
A dire il vero, che siano trascurabili, beh, pare proprio di no, dal momento in cui il colosso californiano è riuscito nel suo intento di conquistare le menti torpide del volgo cinetelevisivo casalingo, tanto da imboccare i fedeli abbonati a sciropparsi tutta una serie di produzioni poste in rilievo dalla piattaforma: due grafiche, un font accattivante e via con il binge watching (di sto cazzo).
Questo "Apostle" sembra avere tutte le caratteristiche del classico prodotto della piattaforma ammazza cinema: accattivante, dal cast interessante, poco pubblicizzato (se non su Netflix) e vuoto dentro. Ma vediamo.
Trama: un tizio, Thomas, si imbarca su un'isola abitata da una setta di invasatiofcourse (capitanata da Micheal Shannon) per salvare la sorella Jennifer, rapita dalla setta medesima allo scopo di estorcere soldi al ricco padre dei due. Poi sull'isola ci sono sermoni, omicidi brutali, passioni represse, misteri poco stimolanti e tanta voglia di menare le mani, mal celata.
Il regista Gareth Evans si è fatto conoscere per dei film d'azione indonesiani che hanno rivoluzionato il genere, per via della ventata innovativa nella costruzione delle scene action (si vedano "Merantau" ed i due "Raid"). Questo film, però, sembra mettere da parte le scazzottate a favore di una trama horror/thriller paranormale. 
Ho detto horror
Ma dove e quando? 
Non si costruisce la benché minima atmosfera horror e non è solo una questione di jump scares. Tutto il film sembra un accozzaglia di generi fusi tra loro in singole sequenze: si va dall'horror di poche poche scene verso 3/4 del film al thriller, passando per il dramma puro e l'action
Ebbene si, Gareth non si è dimenticato il piacere di far scazzottare allegramente i personaggi, perciò il terzo atto del film è un bel continuo di spintoni, coltelli, prese stile judo e tanto, tanto sangue. Il lato gore non difetta e più di una volta ci si troverà di fronte ad insistite e morbose inquadrature che appagano tale gusto. 
Per quanto riguarda il dramma non si va oltre il tema del sacrificio, e, seppur reso in modo formalmente impeccabile, lascia abbastanza indifferenti. Il punto è che la costruzione dei personaggi è assente: assente un qualsivoglia approfondimento psicologico (non basteranno mica due pillole da un lato o due bacetti dall'altro?), assente ancora di più un'interazione convincente tra i main charachters. 
Pare funzioni solo il personaggio di Malcolm, interpretato da Shannon: a lui si che è concessa qualche sfumatura psicologica degna di nota e, d'altro canto, il purissimo talento britannico riempie già di per sé la scena. 
Dicevamo dell'horror. 
Se questo voleva essere un film di mistero o di ambientazione orrorifica, non vi riesce minimamente: non c'è costruzione della tensione, non viene intessuto alcun mistero, tutto viene banalmente preannunciato o mostrato (quando non appare scontato di per sé); i due o tre momenti horror, invece, per quanto convincenti, sono alquanto estemporanei, questo perché il film apre troppi filoni per poi non riuscire a mantenerne saldo uno che sia uno in modo coerente dall'inizio alla fine. 
"Apostle" è un'accozzaglia di generi che sfocia in un epilogo in stile Gareth Evans. Ebbene sì è proprio quel tipo di prodotto insipido targato Netflix che frulla diversi ingredienti di qualità, per creare un piatto che può sembrare gustoso al primo assaggio, ma che non ha un sapore suo che lo distingua in modo particolare e risulta davvero poco incisivo in quanto esperienza visiva. Invochiamo il fuoco purificatore anche noi.

P.s.: Ma cazzo nel trailer si capisce già tutto!

Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 5 novembre 2018

SPECIALE R&R (PARTE V): "NON VIOLENTATE JENNIFER-I SPIT ON YOUR GRAVE", OSSIA L'APICE DELLA VIOLENZA

Incipit: 
E' l'ottobre del 1974 e Zarchi è in macchina assieme ad un suo amico. Lungo il ciglio della strada vedono una ragazza: ha gli abiti strappati ed è coperto di sangue. Si stava recando ad un appuntamento con un amico dell'università, poi due uomini l'hanno assalita.
Zarchi e l'amico le prestano soccorso e, pensando di far la cosa giusta, decidono di portarla al vicino comando di polizia.
Il regista dovrà fare i conti con una seconda disumanità.
La ragazza ha una mascella rotta ed ha difficoltà a parlare. 
Il solerte poliziotto che prende il caso inizia ad interrogarla: vuole avere una risposta a tutte le sue domande. 
Per le cure mediche si troverà il tempo.
***
"Non Violentate Jennifer-I spit on your grave"(1978) di Meir Zarchi

«Mettiti nei miei panni, quello che ho fatto con te chiunque lo avrebbe fatto» 
-Jhonny il benzinaio

Un minorato mentale, due perdigiorno che infilzano coltelli nella terra ed un benzinaio. 
Il bowling rompe le palle dopo un po' ed al cinema c'è sempre il solito film. 
È una merda essere dei rednecks
Poi però il branco trova il progettino che può rompere la routine. Nel paese è arrivata Jennifer, una bella biondina di New York e, si sa, «da quelle parti le donne si vendono per un soldo». La tipa ha preso in affitto una casetta isolata lungo il fiume dove poter scrivere in tutta tranquillità il suo primo romanzo. 
Il branco ha spazio libero, si prepara e si lancia nello stupro. 
Ecco cari lettori, "I Spit on Your Grave" ci propina un'interminabile mezz'ora di disagio visivo: una violenza maschilista senza precedenti che umilia, massacra e lascia un copro inerme sul pavimento. Viene voglia di riempirsi i polmoni e gridare tutto l'orrore a cui si è dovuto assistere: "Non violentate Jennifer" non è un'opera cinematografica, è violenza un tanto al chilo. E' robetta tirata su solo per far scandalo ed assetare i palati sanguinolenti. 
O forse no? 
"I Spit on Your Grave" segue il canovaccio di molti suoi predecessori: la contrapposizione tra la gente di campagna e quella di città; l'autodeterminazione femminile; la contrapposizione tra il vecchio e nuovo; il conflitto tra le classi sociali. 
Ma "Non violentate Jennifer" è molto di più, è una degenerazione/esaltazione di tutti i suoi predecessori; e Zarchi osa a tal punto che il rischio di travisare il messaggio è dietro l'angolo. 
Torniamo a quella interminabile mezz'ora. 
La messa in scena è incredibilmente cruda e realistica
Manca ogni stacco sonoro che dia una almeno una parvenza cinematografica alle scene. Lo stesso si dica per la regia: Zarchi indugia sulle violenze con una telecamera fissa che pare esser rimasta accesa lì per caso. Lo spettatore diventa irrimediabilmente un voyeur che rimane invischiato nella melma che sta guardando. 
Il messaggio arriva forte e chiaro e non solo attraverso il comparto visivo. Basta pensare alle raggelanti parole che Zarchi mette in bocca al benzinaio Johnny: «mettiti nei miei panni, quello che ho fatto con te chiunque lo avrebbe fatto [...] fai credere ad un uomo che con te ci può provare [...] e un uomo è sempre un uomo.[...] mettevi in mostra le tue dannate gambe passeggiando avanti e indietro come fa una gatta».
Alcuni qui ci videro una qualche giustificazione alle violenze; ma la giustificazione non c'è e vedendo il film si fa davvero fatica a comprendere questa critica. I membri del branco sono descritti come animali che mirano solo a dominare il più debole. Le scusanti, che si affrettano a cercare i quattro, non sono altro che l'esercizio di un'insopportabile e più che palese retorica sessista. L'immedesimazione per lo spettatore è impossibile.
Ma "I Spit on your grave" non è solo una violenza senza precedenti; se così fosse il tutto si ridurrebbe in una corsa a chi fa il film più crudo, sconvolgente ed esibizionista.
La vera forza dell'opera sta nella seconda parte, nella ricomposizione psicologica e fisica di Jennifer, nel trovare la soluzione più grottesca e violenta possibile.
Zarchi qui ribalta la scena e stordisce lo spettatore: cambia il linguaggio cinematografico che si allontana dal crudo realismo; e con esso muta lo sguardo di Jennifer, divenuta la personificazione di un desiderio di vendetta femminista, fatto di adescamenti volutamente sopra le righe, perfetti per mostrare la nullità degli uomini che ha di fronte, ed evirazioni.
A fine visione ci si chiede dinnanzi a cosa ci si sia ritrovati.
E' così esagerato, gratuito e ragionato che si fa difficoltà a mettere a fuoco le idee.
L'unica certezza è che si è lontani anni luce dalle tante macellerie orrorifiche propinateci negli ultimi anni.
***
"I Spit on Your Grave"(2010) di Steven R. Monroe:
Sputare sul remake di "Non violentate Jennifer" sarebbe troppo facile. Ma, siccome le cose troppo facili ci piacciono perché sono lì a portata di mano come il telecomando, spareremo qualche colpetto sulla croce rossa. 
Anche questo "I spit on your grave" sconta il peccato originale di voler marciare sul clamore e la notorietà di una produzione vecchia come il cucco. Tra tutti gli inutili (o utili) remake di qualcosa, questo proprio non l'avevo considerato. A differenza mia, però, il triangolo è molto considerato dai mascalzoni campagnoli protagonisti di questa mutazione genetico-cinematografica. E quindi si ripeta la storia once again. 
C'è la scrittrice Jennifer, ci sono i giovani rednecks arrapati e poi, siccome sempre e comunque more of the same, c'è lo psyco sheriff. Chissà se Bob abbia immaginato, quando cantava "I shot the Sheriff", che avrebbe potuto impallinare lo sceriffo nel culo. Ma tant'è. 
Dicevamo del peccato originale: già perché "Non violentate Jennifer" traeva consistenza dal suo uso sperimentale della violenza brutale e sessista. Poco ci faceva la critica al bigottismo e all'ammorbante istinto animalesco provinciale. Fanculo era uno dei tanti. Ma quel freddo voyeurismo documentaristico no. 
Quella protratta e asettica rappresentazione di uno stupro di gruppo, straniante al vomito, era qualcosa di unico e impensabile. Il messaggio arrivava forte sul mento. 
Perciò togliamoci subito il sasso del confronto: questo remake spettacolarizza tutto, indugia in modo cinematografico, ma sempre nello stesso modo taglia, cuce e si intimidisce anche solo a mettere a fuoco il sesso della protagonista. Tutto lo scomodo fuori campo. 
I veri bigotti siete voi!
Detto ciò va preso a sé e valutato come film(etto). 
Spogliato della carica scenica (e quindi sociale) dell'originale, rimane un Rape and revenge girato malissimo, scritto da schifo e recitato peggio. Ma almeno sfrutta un po' il materiale da cui attinge a piene mani (e qualche sequenza). 
Nella prima mezz'ora è lo spettatore, in primis, che vorrebbe seviziare la protagonista (blocco di tufo espressivo), che corre da spastica, non esprime un concetto uno di senso compiuto e fa cadere vino, acqua e il cellulare nel cesso (geniale espediente). 
Poi la riunione dei campagnoli che l'hanno notata: il capo è un manzo che tipo ci guadagna lei, ma pare che lui voglia usare metodi più primitivi e svezzare il ritardato del gruppo (almeno il valore della solidarietà). Dopo il discorso motivazionale e una serie di avvisi scenografici alla giovane scrittrice, il branco entra in azione.
Il gruppetto indugia sadicamente nel preparare il misfatto (quale immedesimazione possibile di fronte a queste macchiette? Quale spietato ritratto sociale?) e, toh, lei scappa. 
Arriva guarda caso dalle parti dello sceriffo che, però, è il sadico per eccellenza. Violenza di gruppo, tentano di seccarla, ma lei si getta nel fiume. 
Passa un mese e Jennifer torna per vendicarsi. 
Come da copione ci riesce. 
Se dicevamo di una prima parte pudica rispetto all'originale, non si può che sgranare gli occhi per l'elevata quantità di scene gore della seconda tant'è che, a un certo punto, sembra di essere dentro l'ennesimo "Saw-L'enigmista" (e la collocazione temporale di questo remake mostra chiaramente come il film si sia rifugiato dietro la gonnella del brand arcinoto). 
Gli americani sono sempre stati così: vituperano il sesso e ostentano la violenza. Ma, tutto sommato, funzionano nell'innestare la vendetta su un' ingegnosa legge del contrappasso (tanto ormai siamo completamente fuori realismo). 
C'è poi da annotare l'aggiunta dell'elemento mediatico a dare un tocco in più al remake: Jennifer è stuprata e seviziata a favore di camera...Bell'aggiunta rispetto all'originale eh? No. Triste menata. 
Regia, due parole: se nell'originale il regista sembrava essersi dimenticato la telecamera accesa, in questo remake gli stacchi di scena sono così repentini e continui da indurre il mal di testa e smontare la tensione. 
E come non farsi mancare l'occasione di ciccare tutti i dialoghi e i tempi drammatici? E la vagonata di scene inutili e grossolane (quelle con la famiglia dello sceriffo ad esempio)? 
Se ci mettiamo un po' di intrattenimento gore di qua, un po' di ritmo di là e ci tappiamo (volentieri) un po' il naso, tutto sommato alla fine ci si arriva, magari con un leggero appagamento. 
Ma niente impatto.
Niente realismo.
Fateci il piacere, cambiategli il titolo.
***
Explicit: 
Rudimentale, esagerato, spesso fuori fuoco. 
Eppure il cinema americano degli anni '70, così ardito e sfrenato nel mostrare l'essenza perversa dell'animo umano, ce lo sogniamo di questi tempi. Ed il filone del Rape and Revenge è una perfetta cartina di tornasole.
C'era la voglia e la forza di di sperimentare, di superare i reticolati non (solo) per mostrare, ma anche e sopratutto per raccontare sé stessi e la società. 
Oggi seppur abituati a violenze cinematografiche ben più credibili e sempre più esposte ai nostri occhi, pensiamo a brand di successi come "Saw" e Hostel, è (quasi) impensabile trovare titoli che abbiano tanta forza. 
Nell'America puritana è lecito ostentare la violenza.
La sessualità la si butta tranquillamente sotto al tappeto. 

Bob Ft. Ismail

lunedì 29 ottobre 2018

"DRIVE IN-LA TRILOGIA" DI JOE R. LANSDALE

«Dopo di che, i cadaveri dei giustiziati sono scomparsi più in fretta degli scrupoli di coscienza di un maniaco sessuale»

Ad un certo punto della lettura vi imbatterete in un mare di lamiere e fango, con tanto di cartello in entrata che vi darà il benvenuto: eccovi nella Città di Merda. Ai lettori che ci saranno giunti sarà ben chiaro di trovarsi dinnanzi ad un opera che è perfettamente sussumibile in questo termine: "Drive In" è una trilogia eccessiva, volgare, in alcuni momenti gratuita ed in altri quasi cervellotica, piena zeppa di quegli effettacci da Z-movie fatti di figuranti con tute da mostro adornate da zip sulla schiena in bella vista. Non c'è niente di più finto eppure tutto è tangibile: "Drive in" è una melma appiccicosa in cui si rimane invischiati.
Colui che condivide con me questo spazio della blogosfera, parlando di Takashi Miike ha scritto: «quando ci si interroga sul valore artistico della sua opera, bisogna scegliere, senza mezze misure, due estremi opposti: considerarla spazzatura o massima espressione dell'ingegno umano. [...] tutta la filmografia del regista corre sulla doppia lama degli opposti, senza che l'uno possa scindersi dall'altro: non potremmo prendere in considerazione l'idea di giudicare Miike un genio, senza parimenti considerarlo come un artigiano di pessimo gusto». 
Ecco, Miike è giapponese e Lansdale è texano, uno gira film l'altro scrive libri, sembrano avere poco da spartire tra di loro eppure per entrambi si possono utilizzare le stesse parole.
Ma chi è questo yankee dalla lingua lunga?
E' un patito delle arti marziali, questione di non proprio secondo piano che capirete nel corso della sua lettura. E' uno che scrive a ritmi incredibili, per farsi un'idea basta fare un salto su wikipedia: una quarantina di romanzi all'attivo, una mole di racconti che è impossibile solo contare e, giusto per non farsi mancare niente, qualche sceneggiatura ed una manciata di graphic novel. 
Lansdale è una bestia rara della letteratura contemporanea, uno che incuriosisce e sfugge da ogni etichetta, si muove libero tra i generi mescolando il classico con il moderno. Lo fa con un'entusiasmo ed un divertimento che si respira pagina dopo pagina. E, nel suo inventare, sguazza nel putrido, superando i confini del sentir comune: il richiamo dell'immagine di un feto usato come randello, che beccai in un suo breve racconto, credo possa bastare per far capire chi si ha di fronte. Ma attenzione, Lansdale non è un provocatore che impasta immagini schifiltose giusto per scandalizzare; o almeno non è solo questo.
Ma vediamo brevemente la trama del "Drive-in": quattro amici, Jack, Bob, Randy e Willard, decidono di trascorrere il loro venerdì sera all'Orbit, un drive-in che trasmetterà lungo tutta la notte 5 film horror: "Ho fatto a pezzi la mamma", "La casa", "La notte dei morti viventi", "Utensili per l'omicidio" e "Non aprite quella porta". Tra giovani che sgranocchiano pop corn sanguinolenti e coppiette che fanno saltellare auto, fa la sua comparsa una cometa rossa che sovrasta l'Orbit e pare sorridere ai presenti. Dopo il suo passaggio una materia oscura, solcata da fulmini blu, si staglia tutt'attorno al drive-in: chi prova ad oltrepassarla viene sciolto. 
In poche pagine l'incubo si fa realtà, ritrovandoci in una storia cadenzata da immagini post-apocalittiche, appellativi e massime irresistibili con cui il Nostro costruisce un non-sense (che poi tanto non-sense non è) tragicomico al quale difficilmente si può resistere.  Quello che accadrà nelle pagine a seguire avrà il sapore dell'incredibile.
Il "Drive-in" di Lansdale è un'opera profondamente cinematografica: lo è per le ambientazione, per le citazioni, per i twist che si ricorrono tra di loro.
Lo si percepisce nell'attenzione verso una piccola comunità alla cinema western, perfetto luogo d'analisi dei comportamenti umani.  Viene naturale immaginare, mentre si legge, le esplosioni di violenza ed i volti luridi di Leone e Peckinpah. Nella notte infinita e nelle individualità che si sciolgono nella massa, elementi che sembrano uscire direttamente dalle sequenze horror di Romero o dal neo-noir Carpenteriano. E che dire delle trasformazioni dei corpi, dell'immagine cine-televisiva che si fa reale e di una nuova chiesa catodica? Il "Videodrome" di Cronenberg sta dietro l'angolo. 
Ed in questo mash-up orrorifico si percepisce la migliore tradizione del romanzo di formazione con quella duplice propensione di vita/morte che J.R. portata alle estreme conseguenze. 
C'è la sua passione per il cinema ed una storia folle che è una e propria calamita per il lettore quindi; poi c'è il Texas (e gli U.S.A.) con il suo carico di contraddizioni, un mondo così profondamente cristiano eppure perennemente sul chi va là, timoroso verso tutto ciò che è estraneo, sempre pronto a comunicare a forza di colpi di fucile. 
Ecco il "Drive-in" è una cloaca colma di liquame, lo specchio di una società così progredita, così civile, così legata ad animaleschi istinti di predominazione. E' una letteratura orgogliosamente di serie B e perfida che nulla ha da invidiare ad ipotetici fratelli maggiori. 
Questa merda è un materiale quanto mai prezioso.

Habemus Judicium:
Ismail