martedì 17 luglio 2018

L'ANGOLO DEL CULT #11: "ROCKY" (1976), LA QUINTESSENZA DEL SOGNO AMERICANO

«In fondo chi se ne frega se perdo questo incontro, non mi frega niente neanche se mi spacca la testa, perché l'unica cosa che voglio è resistere»
-Rocky-

Che poi prima di "Rocky" c'è un incontro vero.
Muhammad "The Greatest" Ali viene sfidato dal bianco Chuck "il Sanguinante di Bayonne" Wepner, uno di quelli che nella vita ha sempre incassato e tanto, conquistandosi il truculento soprannome per via di due arcate sopraccigliari quanto mai fragili.
E' la notte del 24 marzo del 1975 ed Ali è già Leggenda. Pochi mesi prima, a Kinshasa, nell'incontro del secolo, ha sfinito con i suoi veloci colpi "Big" George Foreman laureandosi campione del mondo dei pesi massimi. 
Ma Chuck Sanguinante Wepner non ha paura. Cinque anni prima il suo volto si era trasformato in una maschera di sangue dove solo il bianco degli occhi era riconoscibile. Era passato sotto le mani di Sonny Liston, il Minaccioso Orso Nero. Un combattimento furioso, il più cruento della storia della nobile arte. Wepner veniva sconfitto per KO tecnico, nulla aveva potuto contro il più rabbioso dei pugili. 
Il Sanguinante è sempre stato così, ogni volta che è salito sul ring ci ha messo il cuore.
Incassa, barcolla, sanguina, rincula, resiste, non molla mai e riparte all'assalto. 
Ma torniamo a quell'incontro con Alì.
Wepner mostra il meglio di sé, incassa e colpisce.
Al 9° round è ad un passo dalla storia. Sfodera un gancio sinistro formidabile che butta a terra Il Più Grande. Alì rischia di divenire semplicemente uno dei.
L'arbitro inizia a contare.
1, 2, 3...
Davanti agli occhi del Sanguinante di Bayonne passa tutta la sua vita.
Il quadrato, gli allenamenti, le troppe botte prese e l'assenza di un padre con cui condividere tutta questa avventura. Alì è a terra ed il titolo mondiale si avvicina. Potrebbe divenire qualcosa di più di un buon incassatore buono giusto per fare lo sparring partner.
4, 5, 6 ed Alì si rialza.
Non ha più pietà del suo avversario, i suoi colpi diventano macigni.
Wepner deve sfoggiare specialità di casa: resistere, non cadere a terra e tentare una reazione. E ci riesce fino al 15° ed ultimo round. Oramai è imbambolato, è un bersaglio fin troppo facile per Il Più Grande. Wepner non molla fino a 19" dalla fine. L'ultima gragnola di colpi tingono il suo volto di rosso. Cade a terra, è knockout.
Alì mantiene intatto il suo buon nome.
Ecco cari lettori la vita a volte disegna traiettorie strane.
Tra il pubblico televisivo c'è un semisconosciuto, un trentenne affamato e con una leggera paresi al lato sinistro del volto; il tipo è un mezzo fallito che, con ostinazione, mira a divenire un grande attore nonostante sia circondato da gente ben più talentuosa.
Wepner lo ha ispirato. Si chiude in casa per tre giorni e butta giù 90 pagine di sceneggiatura, l'embrione di "Rocky".
Va detto che la prima stesura redatta da Stallone è assai diversa da quella che di lì a poco avrebbe sbancato i botteghini di mezzo mondo. Inizialmente l' Italian Stallion è un antieroe cupo e violento circondato da pezzi di merda; primo fra tutti il vecchio allenatore Mickey che veste i panni del razzista più che del vecchio saggio quasi adorabile. C'è di più, Rocky non fa neanche il suo combattimento, decide di abbandonare l'incontro ed uscire definitivamente da quel mondo.
E si, se ben costruito, la mancanza di riscatto avrebbe dato al film un tono che faceva tanta Nuova Hollywood; "Rocky" sarebbe potuto essere un'opera autoriale, (forse) degna di molti grandi lavori dell'epoca. Poi però la moglie convince Stallone a cambiare le carte in tavola, ed il risultato lo conosciamo tutti.
Gonfio di entusiasmo Sylvester fa il giro dei produttori. Ad Hollywood sono anni intensi quelli. Si sperimenta e si investe in tanti nomi nuovi, ed il nostro Silvestrone riesce a strappare un bel milioncino per mettere in piedi il suo film. Poco, ma tanto basta.
"Rocky" è un miracolo, in soli 28 giorni viene portato a compimento.
Nel mezzo tante scene improvvisate. Lo sono quelle in cui Stallone/Rocky si allena correndo; oppure la scena della locandina con i colori sbagliati, un errore della produzione che per una cassa oramai quasi vuota non permette correzioni di altro tipo.
La storia del film?
Beh quella la conoscono anche i muri. 
Siamo a Filadelfia nel 1975. Qui vive Rocky Balboa, un pugile fallito che non è riuscito a sfondare. L'ultimo a voltargli le spalle è il suo allenatore Mickey che lo umilia sequestrandogli l'armadietto. Il motivo? Balboa non sarà mai un campione e non merita nulla. La sua vita è squallida, vive in un monolocale fatiscente e fa l'esattore per un gangster italo-americano di Filadelfia.
Non ha alcuna prospettiva, Rocky è un perdente circondato da perdenti. 
Il suo miglior amico? E' un certo Paulie, un mezzo alcolizzato e depresso che lavora in un mattatoio, un personaggio in cui, lo Stallone scrittore, riversa gran parte dei toni cupi del film. Il grande pregio dell'amico? La sorella Adriana, una ragazza troppo timida, per la quale il pugile/esattore brocco perderà la testa.
Nel frattempo, il campione del mondo dei pesi massimi, Apollo Creed, decide di sfidare un pugile a caso a Filadelfia, e tra tutti quelli presenti la scelta cade su Balboa.
Il vecchio allenatore, Michey, dopo aver umiliato Rocky, si trasforma in suo adulatore e si reca dal suo pugile. E quest'ultimo, che alla fine è un simpatico e bonaccione incapace, si rimette sotto la sua ala protettrice perché solo con lui ce la può fare.
La pellicola, con la conciliazione tra l'allenatore e Balboa, esce definitivamente dal solco più cupo ed autoriale. Da dietro l'angolo fa capoccella il riscatto.
"Rocky" puzza di sogno a stelle a strisce, quell'odiosa visione che fa della terra della libertà il luogo perfetto per chiunque abbia coraggio e forza di volontà; qui il successo è sempre a portata di mano.
Ed il grande sogno americano lo si respira anche fuori dal plot.
Per Stallone la pellicola sul pugile sbruffone rappresenta la tanto sperata svolta.
La sua vita sino ad allora era stata tutt'altro che agevole. Un'infanzia con una madre alcolizzata ed un padre troppo severo. Quella paresi al volto ed un fisico emaciato che lo hanno fatto soffrire da giovane. Gli studi di Arte Drammatica all'università pagati con mille lavori. La carriera d'attore che non decolla. I soldi che non bastano mai, l'indigenza e la parentesi da clochard.
Il nostro Stallone nel 1970, per tirar su qualche dollaro, si ritrova costretto a girare una terribile pellicola soft-porn: "Porno proibito". Di quell'esperienza avrebbe detto anni dopo: «O facevo quel film o derubavo qualcuno, perché ero alla fine - veramente alla fine - della mia capacità di resistenza. Invece di fare qualcosa di disperato, lavorai due giorni per 200 dollari, levandomi dalle stazioni degli autobus».
Ecco Stallone deve essere un tipo cocciuto, ostinato ed incosciente.
Basti pensare che quando presenta ai produttori il suo "Rocky", questi gli propongono il solo acquisto dello script; per il ruolo di Balboa vogliono un'altro attore, uno più capace. Ma Stallone non accetta, o tutto o niente. Con il conto in rosso ed una moglie incinta, molti avrebbero mollato da tempo.
"Rocky" deve essere la svolta.
"Rocky" è la svolta, un milioncino di budget ed un incasso da capogiro: 225 milioni di dollari.
Va bene okkay, il sogno si compie; e questo, come per la trama, è cosa nota a tutt*.
A questo punto la domanda da porci è solo una: ma cos'è questo film?
E' essenzialmente un'opera retorica.
Lo è nel suo messaggio, nelle corse sulle scale, nella tromba della colonna sonora, nella redenzione collettiva degli emarginati che giunge grazie ad un pugile campione del mondo in vena di scherzi.
"Rocky" è retorico eppure memorabile.
Lo è nella capacità di dialogare con il suo pubblico: lo prende per le viscere, lo emoziona e lo cala direttamente sul ring, facendogli vivere le sofferenze e la speranza di una vittoria impossibile. E' un film onesto e limpido, una storia che gode della dolcezza e di quel magnifico stupido entusiasmo che ha mosso Stallone nelle ore immediatamente successive all'incontro tra Ali e Wepner.
Durante la visione si è irrimediabilmente dalla parte di un incapace che ce la fa.
Tifiamo per Balboa; per la timida Adriana che alla fine si dimostra più forte e capace di quanto si potesse anche solo immaginare; per il vecchio allenatore che, con uno schiocco di dita, da stronzo opportunista si trasforma in un datato e saggio maestro da seguire. Non si può che essere dalla parte dei falliti di Filadelfia, che poi, alla fine, tutto 'sto destino segnato non ce l'hanno. E questa irrefrenabile onestà evita odiose virate (troppo) reazionarie e dona alla pellicola un eccezionale pathos.
"Rocky", a più di quarant'anni dalla sua uscita, mantiene intatta la sua carica, una favoletta irresistibile che conduce lo spettatore al successo. Mai e poi mai i sempre più furbi seguiti potranno scalfire la sua bellezza, "Rocky" è e rimarrà  Leggenda.

Habemus Judicium:
Ismail

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