lunedì 4 giugno 2018

"A BEAUTIFUL DAY" (2017) DI LYNNE RAMSEY

Sogno o son desto? Si starà chiedendo lo spettatore che si trova di fronte a un'opera così cucciolosa come "A Beautiful Day".
Ciao cucciolotta! Ma come sei bella e pacioccosa.. Vieni qui che ti stringo quelle guanciotte!
Partiamo dal titolo che, nell'era dell'adattamento italiano 3.0, si pone ad uno step successivo rispetto al passato: non più storpiatura di titolo inglese con titolo italiano, ma, addirittura, storpiatura from inglese to inglese; la qual cosa è già di per sé bizzarra, ma va aggiunto il fatto che, in questo caso, è un'operazione migliorativa: "You Were Never Really Here" è qualcosa di terribile, specie considerando il fatto che rende bene l'idea del flipper onirico dentro cui viene sballottato lo spettatore. Ma forse stiamo anticipando un po' troppo della presente disamina. 
Tornando al principio esponiamo la trama: Joe (Joaquin Phoenix) è un ex militare ora killer di professione, ormai stanco del suo lavoro e infestato dai suoi traumi pregressi. Il senatore John McClean gli affida un incarico delicato: trovare la figlia Nina, rapita da alcuni trafficanti di schiave sessuali.
Pronti, via il film si spara tutto il bagaglio synthwave anni '80. E la regia, fatta di continui stacchi alternati a riprese statiche, strizza l'occhiolino alla moda Refn.
Parlando terra terra siamo di fronte ad un classico action iperrealista che cita diverse opere del passato (un modo come un altro per dire che prende un pezzo di quà e uno di là per poi assemblarli). La particolarità, che almeno in parte gli va riconosciuta, sta in quello stile evanescente e naif. 
Il film vuole trasmettere il candore di menti limpide (Joe, la madre e Nina), devastate dalla brutalità del prossimo, ma, pur sofferenti e claudicanti, deformate nel corpo della e nella mente, sempre custodi del proprio io incontaminato. 
Il rapporto tra Joe e la Madre è tra le più belle rappresentazioni cinematografiche. La mano femminile del regista, Lynne Ramsey, può aver aggiunto quel tocco di sensibilità in più nel rendere la meraviglia di un amore incondizionato, rimarcato nelle piccole gestualità del quotidiano. 
Viceversa il rapporto del protagonista con la lolita del film, Nina, non solo non aggiunge nulla a quanto già visto nei citati predecessori ("Léon" e "Taxi Driver"), ma è di una debolezza evidente, sia a livello di dialoghi che nella sua costruzione. 
L'impressione complessiva del film è di un'opera con del potenziale, che però calca troppo la mano su elementi emotivi e scene ad effetto: per citarne un paio, si può dire che sentire rimbombare fuori campo, per tutta la pellicola, il conto alla rovescia di Nina (già di per sé espediente grossolano) , per ricordarci continuamente il suo modo di distrarsi dagli abusi a cui era stata sottoposta, significa andarci giù di pennellone.
E che dire della, pur concettualmente magnifica, scena della sepoltura in acqua? Un approccio evocativo e intenso nel suo mistico e doloroso richiamo pagano, che sfocia in una lunga  e scadente inquadratura new age, non degna nemmeno di una pubblicità di acqua minerale. 
Ma la regia di Miss Ramsey va bocciata, sopratutto, per quei continui stacchi fotonici, che dovrebbero creare un cortocircuito nella visione e rendere così più traumatici i flashback del protagonista: il risultato più che impattante è confusionario. Sfido chiunque a capirci compiutamente qualcosa. 
Dall'altro lato assistiamo a eccessivi rallentamenti: momenti eccessivamente statici e riflessivi che tanto vanno di moda. Fin quando lo fa Refn lo si accetta perché è coerente con la visione e lo stile del regista (e che stile). Ma poi arrivano questi epigoni non all'altezza e il risultato è stancante.
Viene da chiedersi perché Phoenix abbia accettato di recitare in questo film, che sicuramente, risulta totalmente incentrato sulla sua presenza scenica (anche fisica). A giudicare da come rende il personaggio, pare che lo abbia preso seriamente, in quanto sfodera l'ennesima prova d'attore. E il che non può che dare una disperata mano a risollevare un po' il giudizio complessivo. 
In conclusione siamo di fronte ad un tentativo non riuscito di creare un film sui generis, pur attingendo dal più classico tema action del giustiziere. Qualche potenzialità, un'atmosfera a tratti coinvolgente, ma tanta foga grezza di coinvolgere il pubblico, che, di fronte a questo insipido ibrido, non può essere identificato né nella nicchia né nella media dei fagocitatori di action.
Né carne né pesce.

Habemus Judicium:
Bob Harris

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