lunedì 11 giugno 2018

MADE IN NETFLIX #2: "CARGO" DI YOLANDA RAMKE E BEN HOWLING

Sette minuti di quasi assoluto silenzio. Un'apertura claustrofobica a bordo di una berlina incidentata da cui fuggire. Fuori di essa la desolazione degli spazi vuoti di un presente post-apocalittico.
"Cargo" viene presentato nel 2013 al Tropfest Australia, uno dei festival più importanti per i cortometraggi, e da allora il successo, di critica e pubblico, è cresciuto sempre di più. Ed è tutto meritato, va detto.
A tirar su l'idea con due spicci c'è la bionda Yolanda Ramke e l'occhialuto Ben Howling, due che circa dieci anni fa si sono conosciuti sul di lavoro nelle vesti di autori del Big Brother australiano. Poi, visto che pecunia non olet, hanno continuato a mettere mano su altra spazzatura televisiva come la versione australiana de La pupa e il secchione ed X Factor.
Ma solo lavoro e niente divertimento rendono Yolanda e Ben dei ragazzi annoiati. I due hanno una passione in comune: la settima arte. Hanno gusti affini ed entrambi si dilettano nei cortometraggi. Diventano amici e mentre collaborano per un festival, non ci importa quale, ai due viene l'idea: un soggetto semplice ed incisivo che parte da quella berlina bianca bloccata nella vegetazione australiana.
Un uomo, seduto sul sedile passeggeri, riprende i sensi. Dietro, nel suo seggiolino, c'è il figlioletto neonato. Sta bene. Accanto a lui, al posto di guida, la sua compagna si è trasformata in una zombie!
"Cargo" è una storia di morti viventi, quei triti e ritriti esseri dalla carnagione cianotica e dal viso pustoloso, che vagano per città semi distrutte alla ricerca della succosa carne umana. Un terreno minato che, con il suo mix di effetti e maquillage, può condurre facilmente ad esiti quanto mai scontati.
Ed invece i 7 minuti di "Cargo" spezzano ogni pregiudizio di sorta; dà allo spettatore la giusta adrenalina; la storia, quella del padre che cerca di salvare il proprio bimbo, tocca le corde emotive dello spettatore; e visto che anche l'occhio vuole la sua parte, il corto si fa apprezzare per un make-up quanto mai credibile. E vuoi che in giro non ci sia una produzione assetata di denaro desiderosa di metter su una versione extended?!

Il film:
Dal corto di cui sopra è stato tratto un lungo brodo direttamente fruibile su Netflix dal 18 maggio 2018. E meno male che si è evitato di occupare inutilmente sale cinematografiche, che poi, i grandi distributori ce lo avrebbero rinfacciato, magari facendo poi pagare lo scotto a produzioni (sempre indipendenti) di qualità superiore. Poi, ovviamente, sullo sfondo, procede incessante l'inesorabile risucchiamento su piattaforma online dei prodotti cinematografici.
"Cargo" riprende la struttura narrativa del suo corto di riferimento, senza modificare le parti essenziali del plot, ma estendendolo con qualche contenuto e qualche approfondimento qua e là: in sintesi trattasi di un'operazione di stretching narrativo.
Perciò, da questo punto di vista, ne esce, solitamente, nei casi di opera direttamente derivata da un corto, un qualcosa di pedissequamente ricalcato in certi punti ed in qualcosa di totalmente diverso in altri.
Nella fattispecie, il corto mostrava semplicemente il trittico famigliare classico (madre, padre, pargolo) in uno scenario australiano (ultimamente pare di tendenza) post-contagio. Il film, invece, innesta alcuni personaggi centrali, i quali portano con sé annesse tematiche.
Abbiamo, innanzitutto, la bambina aborigena dispersa nell'outback, la quale non si rassegna a considerare quell'essere infetto come un qualcosa di diverso dal padre che era. Sulle sue tracce c'è la tribù di appartenenza, capeggiata dal Wise Man anziano aborigeno di turno. Oltre ad articolare la trama, tale aggiunta conferisce un tono mistico al film (come resistere alla tentazione di filosofeggiare con gli aborigeni?) e si prende in carico il solito messaggio di sensibilizzazione verso la minoranza etnica in estinzione, senza per'altro eccedere nei moralismi o nelle idealizzazioni.
Perciò, a parte alcune inutili licenze di stile, bisogna dargliene atto. Ma sicuramente la ricerca di un contatto panico con la natura non viene espressa in un modo tale da trasportare la visione. 
Non si può poi prescindere dal villain (Vic); come da tradizione di genere il pericolo principale è rappresentato non dalla massa di infetti, ma dall'uomo, in questo caso un bifolco dal grilletto facile, che ha rielaborato un concetto tutto suo di sopravvivenza. Ma anche sotto questo aspetto "Cargo" ha il pregio di umanizzare la brutalità di chi, di fronte al caos dilagante, si è spogliato di ogni senso di colpa e si trascina con la sola forza dei suoi istinti. Il personaggio di Vic non fa che rispondere costantemente ai suoi bisogni primari, senza curarsi minimamente di calpestare il prossimo.
Ma in fondo ci viene mostrato come sia molto umano il suo attaccamento alla vita e a tutto ciò che possa essere bramato dall'uomo; la redenzione non può che essere dietro l'angolo. 
La vera particolarità di "Cargo" sta nella coerenza assoluta nel non voler mostrare: gli infetti non sono mai al centro della scena, sono relegati sullo sfondo della messa in scena ma anche della trama e, spesso, le loro azioni avvengono fuori campo. In generale il film evita di immolarsi alla violenza, sempre molto pervasiva e sensazionalistica nei film di settore (i Romero in primis, ma anche i recenti "28 giorni dopo" e "28 settimane dopo"). Ed anche l'accento sul macabro, presente nel corto e nel poster del presente film (ah il marketing!), viene edulcorato, specie riguardo al make-up degli infetti. 
Poi però ci pensa la regia di Howling e Ramke (chissà se si offende la seconda per non essere mai citata per prima) a banalizzare il film: scene senza senso, scene senza scopo, ritmo spezzettato e naufragante. Davvero si fa fatica a mandare giù l'inutilità di alcune sequenze e la banalità di altre: ecco che allora la morte di un personaggio viene resa in un modo semplicemente comico e grossolano, laddove doveva rappresentare un momento altamente drammatico; o, ancora, si indugia sull'elemento patetico e ridondante. Per non parlare poi di una scena verso la fine della pellicola, che vede protagonista un uomo e 6 proiettili; lasciamo allo spettatore lo sfizio di contorcersi. 
"Cargo" era semplice e intuitivo ma davvero riuscito come corto, commovente e adrenalico. Cosa che non riesce ad essere la sua emanazione cinematografica: dispersivo, a tratti fastidiosamente melenso, diretto stancamente e poco stimolante nelle sue novità. Sembra poi molto fine a se stessa la scelta di mettere in risalto la presenza, piuttosto stilizzata, degli aborigeni.
Resta la godibilità di un prodotto di settore che si avvale del viso sofferente di Martin Freeman e che ha la capacità di far empatizzare, almeno in parte. 
Niente di nuovo sotto il sole australiano. 

Habemus Judicium:
Bob ft. Ismail

1 commento:

  1. Già, scene senza senso , scene senza scopo. Un gran stretching del corto. Che peraltro non mi aveva convinta , Tropfest o no. Concordo, meno male che se l'è preso Netflix e non le sale.

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