giovedì 27 aprile 2017

"SALO' O LE 120 GIORNATE DI SODOMA": L'ANARCHIA DEL POTERE

 «Non c'è niente di più contagioso del male»
-L' Eccellenza- 
    
"Salò o le 120 giornate di Sodoma" è l'ultima opera girata da Pier Paolo Pasolini prima di essere trucidato sul litorale romano, il film che avrebbe dovuto aprire la trilogia della morte.
Proiettato in anteprima al Festival di Parigi il 22 novembre del 1975, tre settimane dopo la sua morte, giunge in Italia solamente nel gennaio dell'anno successivo rimanendo in sala solo per pochi giorni. Il motivo? Si aprono 31 contenziosi giudiziari a carico della produzione che dovrà rispondere di numerose ipotesi di reato, tra le quali quelle di oscenitàcorruzione di minori. Come inevitabile corollario giunge il sequestro della pellicola che sarebbe tornata nei cinema solamente il 10 marzo del '77.
Le vicissitudini non finiscono qui.
L'11 marzo un gruppo di neofascisti romani, tra i quali il NAR Giusva Fioravanti, fanno irruzione e devastano il Rouge et Noir, cinema romano che ha in programmazione il film.
Segue un nuovo intoppo processuale. Il 6 giugno, un pretore di Grottaglie, con un provvedimento d'urgenza, pone sotto sequestro "Salò" che allontanerà il film dalle sale sino al 1985.
"Salò" ha ottenuto una lentissima riabilitazione e solo nel 2000, in ricordo del 25° anniversario della scomparsa di Pier Paolo Pasolini, viene trasmesso per la prima volta in Tv su un canale a pagamento di "Stream". Ad oggi resta ancora inedito sulla TV italiana in chiaro.
L'ultimo capolavoro di Pasolini fu una sfida lanciata alla censura ed alla morale italiana.

La discesa nell'inferno del Marchese de Sade
«Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini della legalità. Nessuno sulla Terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti» 
-Il Duca-

"Salò" è la trasposizione cinematografica de "Le 120 giornate di Sodoma", un romanzo libertino di fine '700 del Marchese de Sade, opera imperniata sulla descrizione delle perversioni sessuali, dell' empio e dell'assurdo, della prevaricazione di un uomo su un altro.
L'ambizioso e complicato progetto viene partorito dalla mente del regista romano Sergio Citti, il quale decide di avvalersi della collaborazione di Pasolini e Pupi Avati (quest'ultimo non inserito nei crediti del film per controversie con la produzione) per la stesura della sceneggiatura. I lavori preparatori sono lunghissimi, interi pomeriggi trascorsi attorno ad un tavolo in un appartamento in via dell' Eufrate a Roma, a rileggere i passi dell'opera ed a stendere le bozze per la sceneggiatura.
Il progetto, in questa primissima fase, sembra però naufragare; Citti perde le sue convinzioni iniziali, non crede di potercela fare. E' un progetto troppo complesso e controverso.
Trascorre un po' di tempo e Pasolini ci pensa su. E' una storia troppo potente, sia nelle immagini che nel significato, per essere abbandonata: "Le 120 Giornate" diventano cosa sua.
Nella sceneggiatura definitiva l'intellettuale bolognese apporta due importantissime modifiche al testo originale. Attualizza l'ambientazione ponendo la storia in un momento non precisato del 1944 nei territori della Repubblica di Salò. Prendendo ispirazione dall'impianto dantesco della "Divina Commedia", struttura la narrazione in percorso verticale attraverso cui mostrare la discesa nella perversione; divide così "Salò" in 4 gironi: l'Antiferno, il Girone delle manie, il Girone della merda e quello del sangue.
La storia è semplice e geometrica.
I protagonisti sono quattro uomini di potere: il Duca, il Vescovo, il Presidente della Corte d'Appello ed il Presidente della Banca Centrale; questi vogliono costruire piccola comunità in una villa di campagna lontana dagli occhi indiscreti, dove poter liberare le pulsioni sessuali più infime ed atroci.
Incaricano così alcuni soldati, appartenenti alle SS ed all'esercito della Repubblica Sociale, di stanare e rapire ragazzi/e di famiglie antifasciste residenti nella zona di Marzabotto(1). Tutti i giovani catturati devono essere portati dinnanzi alle quattro autorità per essere selezionate accuratamente.
Il Duca, il Vescovo, il Giudice ed il Presidente chiamano quattro megere, quattro anziane prostitute, che con i loro racconti nella sala delle orge devono guidare i signori ed i ragazzi catturati verso l'eccitazione sessuale. Ogni girone diventa un saggio sulla perversione, un nuovo insegnamento da apprendere e mettere in pratica.
La costruzione della nuova società è scientifica, niente è lasciato al caso.
I ripensamenti non sono più ammessi ed i signori si legano per sempre tra di loro: si scambiano le rispettive figlie e le prendono in moglie, trasformando le giovani in schiave.
Ideano un codice giuridico: i signori, per tutto il soggiorno, potranno disporre liberamente della vita e del corpo dei giovani catturati. Per i ragazzi non resta che dar loro la piena obbedienza. Non è permessa a loro alcuna implorazione di perdono, nessuna preghiera disperata da fare ad un qualche dio. La pena è un'atroce morte.
Pasolini ci porta in un inferno fatto di abusi sessuali, sesso e coprofagia, in cui il mondo libero non è più possibile.
***
Giunti a questo punto, cari lettori, vi proponiamo due nostri commenti al film, due visioni che avranno probabilmente dei punti in comune (e di questo ciascuno di noi se ne rammarica visto che ci stiamo abbastanza sulle palle a vicenda).

L'anarchia al potere (1°commento):
Un affresco dell' anarchia del potere. Questo è "Salò o le 120 Giornate di Sodoma".
Un pezzo di storia di Italia, la più buia ovviamente, anche se dipende sempre da che punto la si guardi, la faccenda. Ma coloro che gradiscono mirare la storia da una certa ottica, diciamo, nostalgica, coloro che invocano un passato glorioso e prosperoso, ed iconificano taluni personaggi, forse dovrebbero dare un occhiata a questo film. La mia frase è pleonastica, non mi aspetto certo che un idiota siffatto possa capire alcunché.
Ad ogni modo la parentesi oscura della Nostra Storia è dietro l'angolo e la forza nichilista del film di Pasolini non perde vigore neanche a distanza di decenni.
Possiamo cercare qualsiasi sottotesto, rimando, allegoria, citazione ecc., ne avremmo da sbizzarrirci; già solo un confronto filologico con De Sade è di primaria importanza.
Il film è strutturato in modo speculare al libro e le tematiche sessuali/estetiche/edonostiche riflettono chiaramente la visione del sommo marchese. Motivo per cui non manca una parte di puro divertissement (vi confesso che, rivendendolo a spezzoni a distanza di anni per stendere queste quattro righe, mi è balzato all'occhio proprio questo aspetto).
Che poi non è cosa così accessoria. Epurando per un momento il film dalla sua sacralità, lo si apprezza per la sua genuina ed entusiasta esposizione del campionario di perversioni tanto care a De Sade, da sempre e per sempre suo marchio di fabbrica.
Gli intermezzi coloriti di una navigata baldracca scandiscono i tempi del film: i suoi racconti incuriosiscono lo spettatore non meno di quanto incuriosiscano i quattro poteri.
Dicevamo delle tante chiavi di lettura a cui si presta l'opera. Fondamentalmente però ciò che, secondo me, si pone al centro dell'analisi è la potenza delle immagini.
Personaggi grotteschi (resi ancora più tali da attori non professionisti e poco espressivi) inseriti in una cornice formalmente maestosa: la messa in scena è totale eleganza e simmetria.
La nudità e la sessualità, ancora più che in un'opera, per citarne una, come "Non Violentate Jennifer (I Spit On Your Grave)" viene ridotta ad atto meccanico e inanimato, privato di qualsivoglia componente erotica, ridotto al banale e inespressivo.
Ciò che appare sullo schermo crea una discrasia tra l'immaginario sessuale comune e il rigoroso e freddo formalismo della sua rappresentazione: in una parola, straniante. Corpi mercificati e mandati al macello: allo spettatore non viene risparmiato alcuno scempio, sevizia, umiliazione.
Che il potere sia rappresentato da un governo fascista o una società di massa che impone uniformazione e annichilimento del pensiero e spersonalizzazione nei rapporti umani, non fa differenza. Siamo indifesi e in balia del più forte. Il potere è anarchico.

Habemus Judicium:


Bob Harris
                                                                                                                                 

L'allegoria di Pasolini (2° commento):
Un film violento, terrificante, spaventoso e rivoltante.
Prepararsi alla visione del film, sapere quello che ti attenderà non serve a nulla.
Una sequela di immagini che mai penseresti di trovare impressa su pellicola.
10 minuti finali, l'apice del "Girone del sangue", sono al limite del sopportabile.
Ma si rimane lì, a sbirciare da una finestra torture e soprusi, complici del loro voyeurismo.
"Salò" è tremendo e magnifico al contempo, un impatto visivo da cui non ci si può distaccare, calpesta la lucidità e conduce ad una presa di coscienza indesiderata.
Il film è una discesa nella malattia, un percorso rigoroso, formalistico e (quasi) del tutto privo di un'analisi psicologica dei personaggi.
"Salò" è ambientato nel 1944 nella RSI, ma come lo stesso Pasolini ci tenne a precisare poco prima della sua morte, lo si sarebbe potuto collocare in un qualsiasi momento della storia.
Il fascismo è solamente una tetra allegoria, un espediente narrativo con mostrare le devianze di ogni potere; quella di Pasolini è una lucida e drammatica analisi delle oscenità e dell'anarchia del potere (2), una furia che colpisce corpi inermi, imprime la sua forza sull'individuo, lo appiattisce (si veda della scena dei ragazzi/e al guinzaglio) e gli impone nuove necessità.
Ed il Pasolini di "Salò" è quello di "Petrolio" e del siamo tutti in pericolo. Non c'è speranza, il sesso (ed il corpo), espressione di una forza eversiva/vitale irriducibile dal potere, diviene oggetto di dominio e prevaricazione.
Quella di "Salò" fu un'accusa precisa e circostanziata. Pasolini era prima di tutto uno scrittore, le cose le intuiva, le osservava, le comprendeva. Sapeva ed era pronto ad accusare ancora.
Ma è stato abbandonato dalla società italiana su quella lurida spiaggia.
Il mondo "uccide imparzialmente i molto buoni e i molto gentili e i molto coraggiosi" e sarà sempre pronto a farlo.

Habemus Judicium:

Ismail
                                                                           
                                                                                                             



Note:
(1) La scelta di Marzabotto ha un valore altamente simbolico. Il paese fu uno dei più colpiti dall'eccidio di Monte Sole (conosciuto impropriamente come eccidio di Marzabotto), dove tra il 29 settembre ed il 5 ottobre del '44 vennero rastrellate ed uccise 770 persone dalle forze nazifasciste.
(2) Cfr. "La dialettica dell'illuminismo" di Adorno e Horkheimer, dove in uno dei saggi, dal titolo "Juliette, o illuminismo e morale", i due filosofi affrontano anche la figura del marchese de Sade. 
In quest' opera l'illuminismo, ossia il pensiero razionale moderno, viene descritto come l'imposizione di una forza (la volontà di potenza) manifestata ed esercitata da un elitè di potere. Il marchese de Sade rappresenterebbe secondo Adorno ed Holkheimer l'altra faccia dell'illuminismo (contrapposta a quella garantista e liberale di Kant) che avrebbe comportato la supremazia assoluta dell'individuo e del suo potere al punto da emanciparlo da obblighi morali e normativi; in altre parole l'esercizio del potere si delineerebbe come manifestazione di una quasi anarchia.

domenica 23 aprile 2017

SENZA TITOLO

Scarponi al Tour de France 2015
Sabato mattina, come spesso accade nei giorni di riposo, me ne stavo in bicicletta.
Un bel giro, tanto verde, strade bianche, qualche ciclabile e poche automobili, una città del tutto diversa da quella caotica e trafficata che sono costretto a vivere quotidianamente.
Una bella giornata di sole. Di libertà. Si il ciclismo per me è sostanzialmente questo, libertà.
Un caffè da bere assieme a qualche ciclista che incontri lungo la strada. Una chiacchierata.
Una radio accesa nel bar che ti dà una notizia che mai avresti voluto sentire.
Se ne va Michele Scarponi, forse per una precedenza non data.
Se ne va un padre di famiglia, un ciclista che mi ha fatto emozionare in strada e divertire tanto con le sue interviste.
Un pugno allo stomaco, un po' come quando in auto, bici, bus o a piedi vedo per la mia città le ghost bikes, quelle bici dipinte di bianco messe nei luoghi degli incidenti stradali nei quali un ciclista ha perso la vita. 
La speranza è che queste tragedie non rimangano maledettamente inutili e possa sorgere una seria discussione politica in tema di prevenzione e sicurezza stradale. Un piccolo passo avanti nella cultura di questo paese. Il garantire spazi adeguati per tutti coloro che decidono quotidianamente di inforcare una bici. 

Ciao Michele.


Ismail

venerdì 14 aprile 2017

L'ANGOLO DEL CULT #1: "CANNIBAL HOLOCAUST" (1980) DI RUGGERO DEODATO


In uno speciale sul cinema splatter scritto tempo fa, Saw e i suoi fratelli: che la mattanza abbia inizio (link), citammo un po' di film, tra i quali l'italiano "Cannibal Holocaust", opera del 1980 del regista lucano Ruggero Deodato
"Cannibal holocaust" rientra nel filone del cannibal-movie, un sottogenere dello splatter legato alle tematiche del cinema di avventura e talvolta portato, in curiosi ed originali progetti, nell'alveo dell' erotico/porno (un esempio su tutti "Emanuelle e gli ultimi cannibali" di Joe D'amato).
Questo sotto-genere nasce e si sviluppa in Italia a partire dagli anni '70 ed a fare da apripista è "Il paese del sesso selvaggio" (1972) di Lenzi (il quale tornerà sul genere nel 1980 con "Mangiati vivi") dove si vede la prima scena di cannibalismo.
Il cannibal-movie, a prescindere dai gusti personali, è un'innovazione importante per il genere horror, lo allontana dalle tipiche ambientazioni notturne, portando la violenza e l'orrido ad una piena esposizione visiva.
Il film di Deodato è, a torto o ragione, il più celebre del lotto, una pellicola da alcuni considerata un vero e proprio cult, da altri un'esposizione gratuita di violenza infarcito di razzismo e imperialismo, reso oggetto di culto più dalle censure che subì (tagliato pesantemente in oltre 50 paesi, bandito in Sud Africa, Regno Unito, Filippine ed Islanda) che da pregi cinematografici.
Fatta questa doverosa premessa passiamo al film.


Il viaggio nel "Cannibal Holocaust":
Iniziamo dalla storia.
Quattro giovani reporter si recano in Amazzonia per girare un documentario per la TV sulle tribù che praticano il cannibalismo. Trascorrono 6 mesi dall'inizio della spedizione e di loro non si ha più alcuna notizia.
Un antropologo newyorkese, Harold Monroe viene messo a capo di una spedizione, ed assieme a due guide locali, si addentra nella foresta per far luce sulla misteriosa scomparsa.
Monroe incontra belve feroci, tribù cannibali e tracce inquietanti che lasciano presagire qualcosa di tremendo. Attraverso un impervio percorso si giunge al ritrovamento dei giovani, delle loro attrezzature e di tutto il materiale girato.
Si apre una la discesa verso un'eccitazione malata mostrata nei più minimi particolari: villaggi incendiati, animali squartati, torture, abusi, stupri ed omicidi a danni degli indios. Si apre il "Green Inferno"di Deodato.
Il tessuto narrativo di tutta la seconda parte del film si basa sulla visione del materiale girato recuperato; siamo dinnanzi ad un mockumentary, espediente narrativo che anticipa di quasi 30 anni l'idea del celebre "The Blair Whitch Project" (1999). 
La metodologia seguita da Deodato è ingegnosa.
Per rendere il falso documentario più reale possibile, gira tutte le scene con la telecamera a mano, e, al posto della pellicola a 35 mm usata per il resto del film, opta per una meno cinematografica da 16 mm (1). Non ancora del contento del risultato prende le pellicole le butta a terra, le calpesta e le graffia.
L'obiettivo di Deodato è uno solo: trasformare la finzione cinematografica in una storia vera.
C'è di più, gli attori che muoiono nel film, per contratto, devono stare per un po' di tempo lontane dai riflettori: tutto deve essere il più credibile possibile.
A tutto ciò si aggiunge un'intensa campagna pubblicitaria con slogan promozionali ad effetto: «Avvertimento, gli uomini che vedrete mangiati vivi sono gli stessi che hanno filmato queste incredibili sequenze»; «Cruel * Barbaric * Authentic»; ed ancora, «in 1979 four documentary filmmakers disappeared in the jungles of South America while shooting a film about cannibalism... Six months later, their footage was found».
Il gioco del regista funziona. Pure troppo.
Ad alcuni sorge il dubbio che il film possa essere uno snuff movie ed in men che non si dica dai giudizi sul valore estetico della pellicola si passa ad una discussione dai toni sempre più surreali.
Nel Regno Unito il film viene inserito in una black list che ne impedirà la distribuzione per molti anni.
A Bogotà Deodato rischia il linciaggio. Il fonico del film, forse per farsi pubblicità, forse per scherzo, afferma che "Cannibal Holocaust" è una pellicola girata per denigrare la cultura degli Indios. Non contento rincara la dose descrivendo il regista lucano come un pazzo sanguinario che ha fatto realmente uccidere dei nativi sul set per rendere le riprese più veritiere.
Risultato: durante una festa Deodato è costretto a fuggire, rincorso da alcuni colombiani presenti. Si ripara in una fattoria per una settimana e scortato da un boss locale, prima con un'auto corazzata, poi con un elicottero, giunge all'aeroporto più vicino dove prende il primo aereo per Miami.
In Italia si apre un processo a carico del regista e dei produttori, i quali si vedono costretti a portare in tribunale gli attori assassinati per dimostrare la finzione cinematografica.
Deodato e soci si devono poi difendere dall'accusa di torture e sevizie su animali.
Tra questi una tartaruga gigante protagonista di una delle sequenze più brutali della cinematografia: la testuggine viene trascinata fuori dal fiume dai documentaristi che, in stato di eccitazione, la sventrano. Immagini reali queste.
La giustificazione? Sono riprese di valore documentaristico. Si rappresenta, spiega Deodato al giudice, niente di più di quello che le tribù locali fanno quotidianamente. A suffragare questa posizione il fatto che sia gli indigeni presenti sul set, nonché alcuni dei componenti della troupe, abbiano mangiato tutti gli animali uccisi.
Fatto sta che si devono attendere quattro lunghi anni prima che la Cassazione ponga fine alla storia assolvendo gli imputati, riabilitando la pellicola e facendola finalmente giungere nelle sale cinematografiche. Il lungo lasso di tempo trascorso ed il nugolo di proteste avevano però fatto perdere interesse alla pellicola ed allontanato il pubblico dalle sale. In Italia "Cannibal Holocaust" fu un mezzo flop. All'estero un successo clamoroso.
Un carnaio di polemiche, un processo e tante censure.
Ma cos'è in realtà "Cannibal holocaust"?
E' davvero, usando le parole di dizionari e della critica, una violenza fine a se stessa composta da scene di bassa macelleria volto a raggiungere un inutile e cinico sensazionalismo?
Per chi scrive la risposta è no, o almeno non è del tutto così.
E' un film crudele, con scene orribili, non si può negare. Deodato indugia tanto sulla violenza, facendolo sembrare quasi un esercizio sadico fine a sé stesso.
Ma "Cannibal Holocaust" è molto altro.
Gli aspetti tecnici, sottolineati in precedenza, lo fanno essere un laboratorio cinematografico di grande interesse. E' un film curato in ogni suo dettaglio, basti pensare all'intensa colonna sonora di Riz Ortolani che accompagna perfettamente l'incalzare delle immagini.
Poi c'è il contenuto narrativo. La brutalità non è gratuita, ma viene piegata e diviene strumento critico. "Cannibal Holocaust" non è altro che una cruda e lucida critica ai mass media, sempre pronti a strumentalizzare la violenza ed a distorcere la realtà ai fini di audience; un percorso contenutistico che sarebbe stato seguito un decennio dopo da Oliver Stone con "Assassini nati", anche'esso caratterizzato dall'utilizzo di più formati di pellicola (35 mm, 16mm e 8mm).
"Cannibal Holocaust" dietro il suo impatto visivo orripilante e destabilizzante, è un'opera di demistificazione, rovescia il punto di osservazione e mostra una visione pessimistica della società occidentale, così sicura della propria superiorità rispetto ai selvaggi eppure ancora governata da leggi primitive e sanguinarie.
Cari lettori, prendetevi un gastroprotettore e guardatevi "Cannibal Holocaust", scoprirete un cinema italiano coraggioso e sperimentatore, un vortice di pregi e difetti assenti nel piattume odierno. Ne vale la pena.

Habemus Judicium:
Ismail

martedì 11 aprile 2017

UN FRAMMMENTO

La maggior parte delle persone con le quali abbiamo condiviso un’esperienza non fanno parte della nostra vita attuale. Cosa ci hanno lasciato dentro? Cosa proviamo nel rivederle? Mi fa davvero uno strano effetto quella sensazione che si prova quando rivedi qualcuno che credevi di non conoscere più, ormai espunto dalla nostra quotidianità già da molto tempo.  E’ come se il tempo se ne fosse fottuto di tutte le tue struggenti e dolorose evoluzioni psicofisiche. Tu sei diverso, dentro e fuori. Magari quando eri piccolo a scuola ti sfottevano perché eri grasso, o magari eri tu ad accanirti sul prossimo. Forse una certa, tremenda e infantile battuta ti aveva fatto sghignazzare per anni con i tuoi compagni di merende. Non come adesso che sfoggi una sottile ironia dopo anni passati ad affilarla con l’arrotino. Eppure quando incontrerai quella persona entrambi ritroverete quello che eravate. Vi sentirete come vi sentivate. E riderete ancora una volta per quella cazzo di battuta.
Per quanto le scuole medie siano considerate una delle esperienze scolastiche più trascurabili, per via della sua relativamente breve durata, personalmente sento di averle vissute in modo intenso e ho molti ricordi, un po’ sfumati certo. Ne ho fatte tante di cazzate allora. Cazzate positive si intende. Di quelle che, a pensarci, ci ridi ancora. Da quando in classe un mio compagno costruì un cazzo di carta e nel piegarmi in due dalle risate (e mimando un servizietto) piantai una scorreggia epica e fragorosa. Vergogna e ilarità generale. Oppure di quando, dopo aver rubato un manifesto della via crucis, all’ora x improvvisammo un corteo funebre in mezzo alla lezione di matematica. Era stata una mia idea. Ne avevo un sacco in quegli anni, una piccola mente criminale. Ahimè ero anche un po’ bulletto. Quanto avrà sofferto quel compagno che si sentiva dare del finocchio ogni giorno, in modi sempre più meschini e arguti? Quanto avrà sofferto la compagna in evidente sovrappeso per quelle battute da codice penale? Ma soprattutto lei.
Si chiamava Ali. Era bella, ricca, elegante e sportiva. Una borghese di razza. Le facevamo tutti il filo. A ripensarci strano perché allora era molto maschiaccio con quel capello spesso tenuto corto, l’assenza di trucco, le tute e la pallacanestro nel dna. Ma perciò era una bellezza particolarissima, raffinata. A dire il vero non so neanche cosa ci facesse in quell’istituto sporco e grigio, a contatto con i bulletti delle popolari, quelli si bulli veri.
Se noi tutti, chi più chi meno, sembravamo sguazzare nel fango, lei no, ci puoi giurare. Fluttuava costantemente in un alone di superiorità, linda e intoccabile. Giocava a basket e sudava certo, ma il suo ci pareva essere distillato di gardenia. In un sondaggio ufficiale maschile di classe era risultata piacere a tutti. Tutti tranne me. Già perché ero proprio un tipo orgoglioso e bugiardo. Probabilmente ci morivo dietro più di tutti gli altri messi assieme. Ma presto scoprì che non era lo stesso per lei. Non avrei mai potuto averla, lo sapevo. Ma come reagisce uno che ambisce a fare il capetto sminuito di fronte a un tale smacco? Deturpa ciò che non può avere. Se non provava nessun sentimento positivo per me, al diavolo, ne avrebbe provati di molti negativi.  La feci stare male per diverso tempo giocando sulle insicurezze di un’adolescente ancora non pienamente consapevole della sua grandezza. Oh ma si rifece con gli interessi: finì per dichiararmi con lei apertamente, con consapevole rassegnazione. Le diventai amico perché era tutto ciò che poteva darmi. Voilà friendzonato.
Ali finì per un periodo a stare col mio socio di marachelle Gigi, l’apprendista playboy della classe. Ma allora era troppo anche per lui.  
Quella con Ali fu una storia di privazioni, un sentimento puro e ingenuo nutrito ma mai appagato. A ripensarlo adesso, sensazione di poesia pura decadente.  Soprattutto fu la nascita di un’icona, un paradigma di sentimento che mi portai avanti per moltissimi anni.Diventò un'icona per me.
Dopo le scuole medie la rividi poche volte. Andò ad abitare nella big city, cambiò compagnie.
Quelle poche volte era sempre viva in lei la tipica curiosità femminile di chi cerca conferma di una sua vecchia conquista. Non mi sentivo più piccolo e insignificante di fronte a lei: finalmente  negli anni avevo preso consapevolezza di me stesso, finalmente potevo sedermi a quel tavolo e giocare le mie carte. Mi bastava questa sensazione. Non è detto che avrei vinto la partita. In quel momento non era neanche mia intenzione, preso com’ero dalle mie vicende attuali. Ma prima o poi avrei voluto rivederla, con la stessa morbosa curiosità della vittima desiderosa di vedere il suo carnefice. Questo pensiero mi ha sfiorato diverse volte negli anni, anche di recente.
Scomparsa dal mio ambiente, dalle mie cerchie e dai mezzi di comunicazione, faticai a ritrovarla tramite i social network, ma infine ci riuscì. Perciò di tanto in tanto scrutavo quel poco che appariva di lei dalla sua vita cibernetica.
E’ una quotidianità la nostra fatta di routine continue: i propri cazzi, le proprie cose. Vedere gli amici per berne una, ad esempio. Come quel venerdì. Il venerdì se ne bevono anche due o tre magari. E’ lo sfogo settimanale, lo Yes Weekend della persona media.
Dovevo essere un po’ brillo quando lessi il messaggio di quella vecchia compagna delle medie che non sentivo da anni. Cosa vorrà? Credo mi stia dando una notizia, qualcosa che evidentemente riguarda entrambi: " Ciao, ti scrivo per darti una bruttissima notizia…Ali è morta. Soffriva di un tumore da tempo ".
Non realizzi. Per molte ore, per alcuni giorni.
Hai sempre creduto che i tuoi idoli fossero immortali, non è così? Non andresti mai a pensare che la sorte umili l’effige di  colei che nella tua immaginazione era stata una dea. La più ambita e desiderata.
Ciò che venni a sapere successivamente mi aiutò a prendere consapevolezza, ma  dovetti pagare la pena dello strazio. Il cancro le aveva mangiato tutto. Ridotta a poco più che nulla. Un mostro i cui artigli si erano allungati tutto dentro di lei, provocandole insopportabili e continue sofferenze. Il più misero e ingiusto modo di morire. Da tempo non vedeva e non voleva vedere nessuno che non fossero i suoi familiari e il suo compagno di vita. Per anni durante le scuole mi domandavo quali fossero i suoi pensieri, me li immaginavo. Adesso mi trovavo ad immaginare cosa avesse provato negli ultimi periodi sapendo che avrebbe lasciato tutto e tutti, quanto la paura, la rabbia e l'angoscia scandissero il suo ultimo periodo. Questo fu per me un pensiero ancora più struggente.
Per volontà dei genitori non fu mostrato il suo corpo in camera ardente. Nessuno doveva vedere lo scempio attraverso  il quale il destino si era accanito, deturpandola. Tutti dovevano ricordarla per ciò che era: la ragazza per cui tutti perdono la testa a scuola.
Un’altra parte di me se ne era andata, all’indomani del  suo compleanno. Si dice che un genitore non dovrebbe vivere a lungo da veder seppellire il proprio figlio.
In questo mondo in cui i miti crollano e gli dei cadono no, non c'è spazio per alcuna regola.


                                                                                                                               Bob Harris

lunedì 10 aprile 2017

"PERSEPOLIS" (2007) DI MARJANE SATRAPI E VINCENT PARONNAUD

«Mi ricordo! A quell'epoca conducevo una vita tranquilla e senza storie. 
Una vita da bambina. Andavo pazza per le patatine con il ketchup. Bruce Lee era il mio eroe preferito, portavo le Adidas ed avevo due ossessioni: potermi radere un giorno le gambe e diventare l'ultimo profeta della galassia»
-Marjane-

Persepolis” è un romanzo di formazione, lo sguardo sofferto, onesto ed ironico di Marjane Satrapi sul rapporto di amore ed odio tra lei ed il suo paese, l'Iran. In un'ora e mezza di pellicola, catturata in uno splendido B/N dominato da tratti stilizzati e ombre, viene condensata la storia recente del paese: la Persia di quello stronzo dello Scià; la rivoluzione carica di speranze e libertà; poi l'arrivo degli ayatollah e la nascita della repubblica islamica; seguiranno imposizioni sul vestiario, la censura che si spingerà a colpire anche l'arte, arresti arbitrari, esecuzioni e guerre insensate scoppiate per motivi che nessuno ricorda.
E' un racconto diretto in primo luogo a noi occidentali, sempre più incapaci a comprendere il diverso ed emanciparci dai pregiudizi, quasi mai interessati a sapere cosa accade aldilà dei nostri confini geopolitici. E non annoia mai, perfettamente sostenuto dallo sguardo limpido e carico di rabbia fanciullesca della Marjani bimba prima, e da quella ironia che contraddistinguerà la donna che sarà.
Ed è proprio l'intelligenza e la freschezza della sceneggiatura ad essere il punto forte di questo "Persepolis", capace di donarci sequenze memorabili: l'uscita dalla depressione a suon di "Eye of the tiger", i dialoghi tra Marjane e la nonna o quelli con Dio e Marx, la guerra tra Iran ed Iraq etc. La stessa musica rock contribuisce a dare unità e forza al racconto, divenendo specchio della politica liberticida del governo e simbolo dell'irriducibile voglia di emancipazione della ragazza.
Marjane ci prenderà per mano, proteggendoci dalle brutture della tirannide.
In un'intervista rilasciata qualche anno fa, la Satrapi raccontò che ci furono dei corteggiamenti da Hollywood: volevano fare di "Persepolis" un film con Brad Pitt e Jennifer Lopez.
La storia andò diversamente ed è stato un bene.
Al posto del kolossal a stelle e strisce arrivò questo film d'animazione, una visione soggettiva e fuori dagli schemi che dà vita ad un personaggio universale in grado di abbattere tutti i confini.
Sono 95 minuti che lasciano il segno.

Habemus Judicium:
Ismail

mercoledì 5 aprile 2017

L' EPOPEA DELLO STADIO DELLA ROMA: UN' OCCASIONE PERSA PER LA CITTA'?


Le origini del progetto (l' individuazione del terreno):
Siamo nel 2011 e la A.S. Roma vive un cambio societario storico: finita l'era di Rosella Sensi, la società viene acquisita da una cordata a stelle e strisce con a capo l'investitore italo-americano James Pallotta. Per la società si apre una nuova prospettiva progettuale, si pongono le basi per la costruzione di un nuovo impianto di proprietà necessario per la crescita economico-sportiva. In poche parole si segue la strada aperta poco prima dalla Juventus.
Gli americani affidano a Cushman & Wakefield l'arduo compito della ricerca del terreno più adatto al nuovo stadio (vengono studiati oltre 100 siti), che individua nell'area di Tor di Valle, un sito nelle vicinanze dell'EUR, servito dalla via del Mare/Ostiense e dalla fermata della ferrovia urbana Roma-Lido (per i non romani che leggono questa è una ferrovia urbana che il Piano Regolatore individua come futura Metro E).
C'è un ultimo elemento da sottolineare, la presenza di un ippodromo (quello del film "Febbre da cavallo"), destinato a chiusura, avvenuta nel gennaio del 2013, a causa della crisi del mondo ippico (1). Sin dalle prime battute il progetto si mostra come una grande possibilità per la città: un investimento privato volto non a bruciare nuovo agro romano, bensì a dar vita al recupero urbanistico di un terreno attraverso la sostituzione del cemento vecchio non più fruibile con del nuovo. 

Il ruolo dell'amministrazione Marino (opere pubbliche e compensazioni):
Ignazio Marino
C'è il cambio di giunta, Marino vince le elezioni, e la discussione tra proponenti e comune prosegue. Il neo sindaco e l'assessore all'urbanistica Giovanni Caudo danno alla discussione un decisivo impulso: se Pallotta vuole costruire lo stadio a Tor di Valle deve prendersi carico della costruzione di numerose opere pubbliche.
Marino e Caudo impongono un nuovo modello urbanistico, una netta cesura con con la linea adottata dalle precedenti amministrazioni, colpevoli di aver permesso l'edificazione di interi quartieri dormitorio, lontani dalla città consolidata, senza chiedere in cambio opere pubbliche pesanti.
L'idea di base è semplice: la Legge sugli stadi (presente nella legge di stabilità del 2013) permette al privato, che vuole costruire un impianto sportivo, di rientrare delle spese per opere pubbliche con la costruzione di edifici destinati ad un uso non residenziale.
Morale della favola, il duo Marino-Caudo, facendo leva sul dettato normativo, porta vanti un imponente trattativa e giunge a dama: porta in consiglio comunale la delibera di pubblica utilità (2) che delinea il progetto e conclude l'iter politico, aprendo la strada alla discussione in Conferenza dei Servizi, un istituto di diritto amministrativo che permette agli altri enti locali interessati di interagire, valutare tecnicamente il tutto e dare il definito parere positivo/negativo sul progetto.
Se il pubblico non ha soldi in cassa per fare opere pubbliche e dare servizi alla cittadinanza è il privato che deve accollarseli. Nella delibera di pubblica utilità si attua questa linea, profilandosi un intervento completamente a carico del privato di 1.6 miliardi di euro, dei quali 450 milioni vengono destinati alla costruzione di opere pubbliche:

-la messa in sicurezza e unione di via Ostiense/via del mare, due strade divise che corrono parallele (l'obiettivo è garantire ai mezzi privati una strada più ampia, veloce e sicura);
-il ponte di Traiano, un ponte carrabile sul Tevere in grado di collegare lo stadio all'autostrada Roma-Fiumicino (dando alla viabilità privata un secondo sbocco per giungere/lasciare lo stadio);
-un ponte ciclopedonale che colleghi la stazione di Magliana della ferrovia urbana FL1 (che si trova aldilà del Tevere rispetto all'area di Tor di Valle) allo stadio;
-rifacimento della fatiscente stazione di Tor di Valle (a ridosso dell'area) della Roma-Lido oggi inadeguata a garantire sicurezza per grandi flussi di persone;
-50 milioni di euro da usare per un prolungamento della metro B sino allo stadio o da utilizzare per l'acquisizione di nuovi treni per la Roma-Lido, ad oggi la peggiore tratta di ferrovia urbana in Italia;
-la messa in sicurezza del fosso di Vallerano, un affluente del Tevere, a rischio esondazione; attenzione però, il fosso minaccia non propriamente la zona dello stadio quanto quella di un quartiere, Decima/Torrino, dove vivono oltre 10000 persone, i quali abitanti aspettano da decenni un  intervento serio per risolvere i rischi idrogeologici;
-la creazione di un parco urbano di 34 ettari con innesti di migliaia di nuovi alberi, con annesso un sistema di video sorveglianza; si renderebbe pubblico e agibile alla popolazione uno spazio verde oggi non accessibile creando il 2°, per estensione, parco urbano della capitale (3).

Tutti gli interventi risultano coperti economicamente dalla compensazione, ossia dalla possibilità per i privato di costruire tre grattacieli, tre opere disegnate da Libeskind, architetto di fama internazionale che di recente ha firmato il nuovo World Trade Center di New York ed il Curvo, grattacielo di prossima costruzione a Milano.
Tre grattacieli, tre opere che potrebbero dar vita ad un nuovo landmark per la capitale ed attrarre grandi aziende a Roma. Tre torri poste a circa 9 km dal centro storico e che non infastidirebbero il panorama della Roma antica.
In più tanto lavoro; 4000 per la costruzione, 4000 per stadio e negozi, 15000/20000 impiegati nelle torri; e visto che la tutela dell'ambiente è importante, tutti edifici vengono progettati in modo tale da rispettare la certificazione Leed (la massima attestazione in tema di risparmio energetico).
Un altro punto a favore del progetto risiede nell'attenzione al consumo del suolo: solo il 14% del terreno è occupato dallo Stadio, 10% dal business park (i grattacieli), il restante 76% è composto da parco, spazi pedonali ed infrastrutture.

L'arrivo della Giunta a 5 stelle:
Il sindaco Virginia Raggi
Il PD comunale sfiducia Marino dinnanzi ad un notaio, si torna a votare e stavolta a vincere è la candidata dei 5 stelle Virginia Raggi. Cambia la giunta, cambia la narrazione politica e le posizioni verso il progetto cominciano ad essere contrastanti. La palla passa in mano al nuovo assessore all'urbanistica, Paolo Berdini, il quale apre una vera e propria battaglia contro lo stadio ed i grattacieli, uno scempio urbanistico da fermare in tutti i modi (4). 
Inizia la Conferenza di servizi, passano i mesi, ma la discussione politica, che dovrebbe essere terminata con la delibera di pubblica utilità, torna in primo piano. Ogni giorno è scandito da dichiarazioni politiche, spesso incoerenti tra di loro: i 5 stelle romani sono in confusione.
C'è chi lo stadio lo vuole ma su un altro terreno, dimenticando gli studi approfonditi fatti negli anni precedenti e l'iter in corso, e propone in alternativa altri terreni (es. Tor Vergata). C'è chi si dice favorevole allo stadio a Tor di Valle ma libero dai grattacieli; questi andrebbero contro la natura di Roma, città orizzontale per eccellenza.
I più fantasiosi parlano genericamente di altre priorità per la città o di spreco di risorse pubbliche, quasi a voler dire che un miliardo e mezzo di euro investiti in una città economicamente ferma non abbiano valore o dimenticando che la spesa complessiva sia tutta sulle spalle dei privati.
Si parla di politica e non si fa niente per portare avanti seriamente il discorso in Conferenza di servizi, non si fanno valutazioni tecniche, non si portano richieste di modifica al suo interno, in poche parole sembra che l'iter amministrativo non interessi più.
L'apice giunge in febbraio, Grillo scende a Roma con l'idea di compattare e dare un impulso ad una giunta che non sembra minimamente cosa fare del progetto di Tor di Valle. Il capo politico trova la via di fuga: lo Stadio si fa, ma non lì (sic!), non a Tor di Valle, lì c'è un serio rischio di esondazione, c'è il rischio di dover equipaggiare di ciambelle e braccioli i tifosi della Roma che un giorno si recheranno allo stadio.
Fatto sta che in quel terreno per Geores, società che per un anno ha fatto sondaggi geologici per conto del proponente, non insiste alcun rischio geologico (5). C'è di più, non esiste alcun pericolo di esondazione anche per l'Autorità del bacino del Tevere, la quale ha dato l'ok per la costruzione dietro la condizione della messa in sicurezza del Fosso di Vallerano, aspetto già valutato e previsto dalla delibera (6).
La stazione di Tor di Valle saltata con il nuovo accordo
Il tempo stringe, la Conferenza di servizi va avanti e, nel contempo, sia il Comune di Roma che la Città metropolitana (l'ex provincia, anche questa a maggioranza 5 stelle) danno parere negativo sul progetto. Passano pochi giorni e tutto cambia nuovamente e si riapre uno spiraglio per il progetto.
Il 24 febbraio, pochi giorni dopo le affermazioni di Grillo, si aggiunge una nuova puntata alla telenovela con un accordo in extremis. Virginia Raggi, dopo una lunga trattativa, incontra la società giallorossa e trova l'accordo: via i grattacieli, il rischio idrogeologico si perde dai radar, finisce la speculazione e con essa lo scempio. Un grande successo per Roma, almeno questo ci dice il sindaco, il bene che vince sul male, l'amministrazione che regala ai romani una città più green ed un progetto ancor più innovativo.
E come darle contro, alla fine senza le torri vengono meno il 50% delle cubature previste.
A questo punto ai più attenti sorge un dubbio: ma le opere pubbliche pagate dal privato?
Rimane il ponte ciclo-pedonale, una delle opere meno costose.
Il ponte di Traiano, fondamentale per l'efficienza e la sicurezza del traffico privato, rischia di saltare, visto che il taglio delle cubature ha reso la spesa insostenibile per il privato.
Nelle prime ore successive all'accordo si era vociferato del tentativo del comune di spostare i soldi del CIPE stanziati per altro ponte da costruire sul Tevere (il Ponte dei Congressi) su quello di Traiano, operazione ardua se non impossibile nei fatti.
Successivamente si è capito che se un ponte dovrà esserci sarà quello dei Congressi, fondamentale per snellire il traffico in zona Magliana, ma piuttosto distante dall'area del nuovo stadio (sono circa 2,5 km facilmente calcolabili su google maps).
Gli spettatori che decideranno di utilizzare il mezzo privato per andare a vedere a partita avranno come unica soluzione la Via del Mare, un chiaro peggioramento rispetto al progetto delineato sotto la Giunta Marino che garantiva una separazione dei flussi tra questa ed il ponte di Traiano che avrebbe permesso di raggiungere agevolmente l'autostrada Roma-Fiumicino.
Salta la nuova stazione di Tor di valle. Basterà una rinfrescata alle pareti.
Salta anche il prolungamento della metro B, poiché dagli iniziali 50 milioni previsti dalla delibera di Marino per questa opera, si è passati a circa 8 milioni, con i quali sarà possibile comprare solamente 2 convogli nuovi (o ristrutturarne 4) per la Roma-Lido (7).
Tutto si ridimensiona: se Marino e Caudo avevano obbligavano i costruttori a far giungere almeno il 50% degli spettatori con i mezzi pubblici, ciò, con il nuovo accordo al ribasso, diviene un obiettivo utopico.
Viene meno anche un'altra condizione apposta nella delibera originaria: la necessità di costruire le opere pubbliche prima dello Stadio, altra saggia imposizione prevista dalla vecchia amministrazione, conscia dei molti casi in cui il privato ha costruito quartieri e centri commerciali speditamente mentre le opere pubbliche richieste (es. strade, cicliabili, filobus) sono giunte con ritardi clamorosi.

Roma è salva dallo "scempio urbanistico"?
Tutti felici insomma, Roma è salva dall'arrivo dei grattacieli, perché questa città è orgogliosamente orizzontale. Certo questa storia della città orizzontale non mi torna molto, io questo spirito non lo vedo così connaturato nella storia di questa città. Facendo un rapido excursus storico Roma è stata la città delle insulae, grattacieli residenziali dell'antichità, è stata la città delle torri medievali che i nobili edificavano per mostrare il proprio potere (nonostante che molti romani il più delle volte non ci facciano caso, circa 50 sono ancora in piedi); è la città di San Pietro, che con i suoi 136 metri e spicci credo abbia avuto il suo effetto dirompente quando fu costruito e che per lungo tempo è stato il secondo edificio più alto al mondo. A dire il vero di recente a Roma sono stati costruiti due grattacieli, l'Eurosky (8) e la Torre Europarco, un po' bruttini, non altissimi, un po' pesanti nelle forme, insomma non il miglior esempio da portare, ma pur sempre grattacieli sono (8).
L'unica certezza è che a Roma si è costruito tanto e male, l'agro romano è stato mangiato da piani regolatori che hanno portato all'edificazione in zone lontane dalla città consolidata. Questa è una città che è cresciuta e che cresce disordinatamente, in modo sparso (quelli bravi parlerebbero di sprawl urbano), contribuendo alla formazione di un territorio comunale più grande di quello di New York ma con circa 5 milioni in meno di abitanti.
Roma dall'alto
Siamo costretti a costruire lunghi ed ampi assi viari che richiedono una manutenzione onerosa e complessa, nonchè linee metropolitane lunghissime e costose. Roma è una città diradata che rende quasi impossibile trasportare in modo efficiente una parte della popolazione e che ha impennato i costi di gestione difficilmente affrontabili dall'ATAC, che guarda caso è quasi sempre sull'orlo del fallimento. Alla luce di queste brevi considerazioni è evidente che Roma necessiti di progetti come questi, idee urbanistiche in grado di ricucire le ferite del tessuto urbano.
Ma l'attuale giunta ha preferito snaturarlo, nonostante le tante opere pubbliche strategiche, nonostante un basso consumo del suolo, nonostante l'effetto volano che avrebbe potuto avere sull'economia cittadina, nonostante fosse un progetto che metteva il costruttore al servizio della città e non il contrario. La Raggi dimezzando le cubature ha diminuito anche le spese non volute da Pallotta e soci, ha eliso il loro rischio di impresa, in poche parole ha fatto un favore ai costruttori. 
Il rischio di queste scelte sarà quello di avere uno stadio difficilmente raggiungibile sia con i mezzi pubblici che privati, in una zona di Roma già fortemente congestionata e complicata urbanisticamente, un progetto monco che consumerà la stessa identica quantità di suolo (eh si...una torre di 200 metri consuma lo stesso identico suolo di una palazzina di 7 piani)
Concludo con un'ultima news di questo pomeriggio, la Conferenza di servizi si è chiusa con esito negativo causa il parere negativo della Regione Lazio, la quale ha segnalato la mancata presentazione della variante urbanistica da parte del Comune di Roma nonché un'attività confusa e contraddittoria di quest'ultima nel corso dell'iter amministrativo.  
Si perdono mesi (forse ne trascorreranno altri 12), investimenti e lavoro.
Mi chiedo a chi possa giovare tutto ciò.

++aggiornamento (giugno 2017): La delibera della Giunta 5S(link) ++


Ismail


Note:
(1) Oggi l'ippodromo versa in uno stato di completo abbandono e degrado; considerate che i lavoratori dell'ippodromo, a causa del mancato versamento degli stipendi ed il fallimento della società che lo gestiva, hanno depredato ogni parte dell'impianto che potesse essere rivendibile.
(2)http://www.urbanistica.comune.roma.it/images/news/assessorato/attivita/2014-18-12-stadio/stadio-presentazione.pdf
(3) In realtà ci sono altre opere pubbliche previste a carico del privato qui non menzionate per motivi di grandezza dell'articolo
(4) Lascio in nota il confronto su Radio Radicale tra Paolo Berdini e Giovanni Caudo sul progetto di Tor di Valle https://www.youtube.com/watch?v=r2dNylY55y0
(5) http://www.geores.it/sito/wp-content/uploads/Case-study_Tor-di-Valle.pdf
(6) http://www.vocegiallorossa.it/nuovo-stadio/ferranti-autorita-del-bacino-del-fiume-tevere-nostro-parere-condizionato-dalla-messa-in-sicurezza-del-fosso-di-vallerano-79502
(7) Sulla biforcazione della Metro B ci sono tantissimi aspetti da prendere in considerazione.
L'ATAC (l'azienda che gestisce il trasporto pubblico a Roma) in un suo parere si pose come contraria a questa scelta, questo perché avrebbe comportato un peggioramento delle frequenze sul tratto che va da Eur Magliana al capolinea di Laurentina (3 fermate). Insomma Il rischio che si sarebbe profilato sarebbe stato quello che si è vissuto nel ramo della metro B1.
In realtà non esistono veri e propri problemi tecnici che ostano ad una ottimale cadenza dei treni sui due rami. Il mondo delle metropolitane è ricco di casi analoghi a quello prospettato dalla delibera Marino. A Milano, ad esempio, si gestiscono con ottimi risultati 2 linee di metropolitana biforcate, la M1 e la M2 (quest'ultima ne ha due). La stessa metro B di Roma, nei due rami separati (la prendo tutti i giorni), dopo un primo periodo molto complesso, oggi ha un buon funzionamento. Andando fuori dai nostri confini, prendendo le mappe di città come Londra si può facilmente notare che sono molti i casi i cui ci sono sfioccamenti in una o entrambe le direzioni.
Si può dire che il problema non esiste (o è facilmente affrontabile), e questo è portato più che altro da una mancata visione a medio termine che punti sulle migliorie del trasporto pubblico su ferro e quindi di un ammodernamento necessario della linea (es. aumento sottostazioni elettriche e semi-automatizzazione della linea)
Mandare la metro B a Tor Di Valle avrebbe comportato numerosi vantaggi. Il primo è la mancata rottura del carico. Ad esempio i romani che abitano nel quadrante di Nord Est sarebbero potuti andare allo stadio prendendo una sola metro. Con la configurazione che scaturisce dall'accordo trovato dalla Raggi si presenterà un grande rottura di carico alla stazione di Piramide, ossia il luogo in cui si può scambiare tra metro B e Roma-Lido (la situazione appare problematica già oggi nelle ore più intense di traffico, figuriamoci con i picchi di flusso portati da uno stadio).
Il baffo della metro B verso Tor di Valle avrebbe potuto garantire interessanti scenari futuri.
Il prolungamento della B a Muratella, sede di molte aziende, oppure garantire un istradamento della Roma-Lido sui binari della Metro B, permettendo la sacrosanta trasformazione di questa tratta ferroviaria in una metropolitana vera che attraversi il centro e non si fermi ai confini di esso (insomma avrebbero messo con le spalle al muro la Regione, ed il suo Presidente, oggi proprietaria della ferrovia che tiene in stato pietoso ma da cui può incamerare molti denari).
(8) Tempo fa scrivemmo un nostro post sull' Eurosky, ecco il link per chi vuole approfondire:
http://liperione.blogspot.it/search?updated-max=2017-04-10T17:30:00%2B02:00&max-results=15