lunedì 29 ottobre 2018

"DRIVE IN-LA TRILOGIA" DI JOE R. LANSDALE

«Dopo di che, i cadaveri dei giustiziati sono scomparsi più in fretta degli scrupoli di coscienza di un maniaco sessuale»

Ad un certo punto della lettura vi imbatterete in un mare di lamiere e fango, con tanto di cartello in entrata che vi darà il benvenuto: eccovi nella Città di Merda. Ai lettori che ci saranno giunti sarà ben chiaro di trovarsi dinnanzi ad un opera che è perfettamente sussumibile in questo termine: "Drive In" è una trilogia eccessiva, volgare, in alcuni momenti gratuita ed in altri quasi cervellotica, piena zeppa di quegli effettacci da Z-movie fatti di figuranti con tute da mostro adornate da zip sulla schiena in bella vista. Non c'è niente di più finto eppure tutto è tangibile: "Drive in" è una melma appiccicosa in cui si rimane invischiati.
Colui che condivide con me questo spazio della blogosfera, parlando di Takashi Miike ha scritto: «quando ci si interroga sul valore artistico della sua opera, bisogna scegliere, senza mezze misure, due estremi opposti: considerarla spazzatura o massima espressione dell'ingegno umano. [...] tutta la filmografia del regista corre sulla doppia lama degli opposti, senza che l'uno possa scindersi dall'altro: non potremmo prendere in considerazione l'idea di giudicare Miike un genio, senza parimenti considerarlo come un artigiano di pessimo gusto». 
Ecco, Miike è giapponese e Lansdale è texano, uno gira film l'altro scrive libri, sembrano avere poco da spartire tra di loro eppure per entrambi si possono utilizzare le stesse parole.
Ma chi è questo yankee dalla lingua lunga?
E' un patito delle arti marziali, questione di non proprio secondo piano che capirete nel corso della sua lettura. E' uno che scrive a ritmi incredibili, per farsi un'idea basta fare un salto su wikipedia: una quarantina di romanzi all'attivo, una mole di racconti che è impossibile solo contare e, giusto per non farsi mancare niente, qualche sceneggiatura ed una manciata di graphic novel. 
Lansdale è una bestia rara della letteratura contemporanea, uno che incuriosisce e sfugge da ogni etichetta, si muove libero tra i generi mescolando il classico con il moderno. Lo fa con un'entusiasmo ed un divertimento che si respira pagina dopo pagina. E, nel suo inventare, sguazza nel putrido, superando i confini del sentir comune: il richiamo dell'immagine di un feto usato come randello, che beccai in un suo breve racconto, credo possa bastare per far capire chi si ha di fronte. Ma attenzione, Lansdale non è un provocatore che impasta immagini schifiltose giusto per scandalizzare; o almeno non è solo questo.
Ma vediamo brevemente la trama del "Drive-in": quattro amici, Jack, Bob, Randy e Willard, decidono di trascorrere il loro venerdì sera all'Orbit, un drive-in che trasmetterà lungo tutta la notte 5 film horror: "Ho fatto a pezzi la mamma", "La casa", "La notte dei morti viventi", "Utensili per l'omicidio" e "Non aprite quella porta". Tra giovani che sgranocchiano pop corn sanguinolenti e coppiette che fanno saltellare auto, fa la sua comparsa una cometa rossa che sovrasta l'Orbit e pare sorridere ai presenti. Dopo il suo passaggio una materia oscura, solcata da fulmini blu, si staglia tutt'attorno al drive-in: chi prova ad oltrepassarla viene sciolto. 
In poche pagine l'incubo si fa realtà, ritrovandoci in una storia cadenzata da immagini post-apocalittiche, appellativi e massime irresistibili con cui il Nostro costruisce un non-sense (che poi tanto non-sense non è) tragicomico al quale difficilmente si può resistere.  Quello che accadrà nelle pagine a seguire avrà il sapore dell'incredibile.
Il "Drive-in" di Lansdale è un'opera profondamente cinematografica: lo è per le ambientazione, per le citazioni, per i twist che si ricorrono tra di loro.
Lo si percepisce nell'attenzione verso una piccola comunità alla cinema western, perfetto luogo d'analisi dei comportamenti umani.  Viene naturale immaginare, mentre si legge, le esplosioni di violenza ed i volti luridi di Leone e Peckinpah. Nella notte infinita e nelle individualità che si sciolgono nella massa, elementi che sembrano uscire direttamente dalle sequenze horror di Romero o dal neo-noir Carpenteriano. E che dire delle trasformazioni dei corpi, dell'immagine cine-televisiva che si fa reale e di una nuova chiesa catodica? Il "Videodrome" di Cronenberg sta dietro l'angolo. 
Ed in questo mash-up orrorifico si percepisce la migliore tradizione del romanzo di formazione con quella duplice propensione di vita/morte che J.R. portata alle estreme conseguenze. 
C'è la sua passione per il cinema ed una storia folle che è una e propria calamita per il lettore quindi; poi c'è il Texas (e gli U.S.A.) con il suo carico di contraddizioni, un mondo così profondamente cristiano eppure perennemente sul chi va là, timoroso verso tutto ciò che è estraneo, sempre pronto a comunicare a forza di colpi di fucile. 
Ecco il "Drive-in" è una cloaca colma di liquame, lo specchio di una società così progredita, così civile, così legata ad animaleschi istinti di predominazione. E' una letteratura orgogliosamente di serie B e perfida che nulla ha da invidiare ad ipotetici fratelli maggiori. 
Questa merda è un materiale quanto mai prezioso.

Habemus Judicium:
Ismail

giovedì 25 ottobre 2018

SPECIALE R&R (PARTE IV): "L'ULTIMA CASA A SINISTRA" (1972) di WES CRAVEN

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«Dovrete continuare a ripetervi: è solo un film... è solo un film» 
-Tagline del Film-

Troppo duro e crudo per resistere alla censura.
Nel Regno Unito la British Board Of Film Classification si rifiutò di riconoscere il certificato necessario per la proiezione nelle sale. Ed anche altrove non andò meglio. I censori si ritrovarono dinnanzi ad un un put pourri di violenza e scene sadiche sulle quali la macchina indugiava in modo inaccettabile. Da allora, nelle leggende popolari, aleggia l'idea che esista una versione integrale di questo film, sopravvissuta ai tagli artistici e fisici. Intendiamoci cari lettori, "L'ultima casa a sinistra" non è niente che nel 2018 non possa essere assorbito e digerito; perciò amanti del torture porn potrete rimanere un tantino delusi.
Ma facciamo un piccolo passo indietro.
Wes Craven è un giovane insegnante di filosofia alla John Hopkins University, un fortunello che fa ciò per cui ha studiato all'università. Ma quello accademico non è il suo mondo, il suo sogno è lavorare nel cinema. Lo possiamo immaginare, pieno di dubbi ed eccitato allo stesso tempo, lasciare il posto fisso per fare il più classico dei salti nel buio.
Il primo lavoro?
Il tuttofare per una casa produttrice di cinema erotico/porno, un lavoro di bassa manovalanza che gli permette però di apprendere i primi rudimenti di regia e montaggio. Giungono così i primi lavori dietro la camera da presa: pubblicità e naturalmente i filmetti pruriginosi.
Poi l'Epifania. Craven va in una piccola sala cinematografica a vedere un mediometraggio sulla guerra del Vietnam. E' un susseguirsi di immagini raccapriccianti che costringono a distogliere lo sguardo. Esce da quel cinema sconvolto, poi, una volta raccolte le sue emozioni, decide di incanalare quegli orrori in un film: nasce così "L'ultima casa a sinistra", tetra allegoria della fine dei movimenti pacifisti nonché atto di accusa/provocazione verso tutto quel pubblico cinematografico assetato di violenza.
Il modello è il Bergman de "La Fontana della Vergine"[LINK]: prende la sua trama, la proietta nella società contemporanea e lo libera di tutto ciò che di aulico c'è al suo interno. Ne "L'ultima casa a sinistra" non c'è alcuna redenzione, non c'è nessun Dio a cui affidarsi, rimane solamente un lerciume che contamina tutto e tutti, lasciando lo spettatore alla mercé di una sadica violenza. Agli inizi degli anni '70 ciò significa uno shock, tanto visivo quanto concettuale, anche per gli stomaci più forti e le menti più aperte.
Ma di cosa parla questa Ultima casa?
Mary, fresca 17enne, lascia i genitori, intenti nei preparativi per la sua festa di compleanno, e si reca in città assieme ad una sua amica, Phyllis, per assistere ad uno spettacolo. Le due giovani sono in cerca di un pizzico di divertimento in più e, nel tentativo di rimediare della marijuana, conoscono Junior, un giovane eroinomane che le porta nella sua casa; il ragazzo le promette che lì ha della roba buona da darle, un'erba appena giunta dalla Colombia. Quella di Junior è però una trappola ed ad attenderle nella casa c'è Krug, un criminale da poco evaso di prigione, che si nasconde lì con tutta la sua banda.  Il destino delle due è oramai segnato: vengono imprigionate, violentate ed uccise. Prima di fuggire, Krug e gli altri decidono di chiedere ospitalità per la notte, ma la porta a cui bussano è quella della casa di Mary.
Ancora oggi "L'ultima casa a sinistra" viene considerato uno dei film più controversi di sempre, ciò nonostante sia stato seguito da film più impattanti visivamente, pensiamo al "Cannibal Holocaust" di Deodato, o concettualmente come il "Non Violentate Jennifer" di Zarchi". 
Rivedendola oggi, l'opera di Craven ci appare datata, buffa (più o meno volutamente) in alcuni passaggi, piena di stereotipi ed espressione di una regia ancora grezza.
Ingenuo, pieno di errori e pretestuoso, eppure pioneristico, è "L'ultima casa a sinistra" che inaugurerà il filone Rape and Revenge, declinando una violenza che sfugge da possibili ricostruzioni psicologiche, un sadismo che è rappresentazione di quella totale e disumana forza primordiale di sopraffazione insita nell'uomo. C'è di più, Craven smonta e ricompone il genere ed attualizza la violenza, non più una forza estranea che colpisce ma espressione diretta della società contemporanea; neanche l'istituzione base della borghesia americana, la famiglia, si salva: è così morigerata, così ipocrita, così grottescamente assetata di sangue.
Craven pagò a caro prezzo il suo esordio e, come accaduto a Peckinpah, sarebbe divenuto un indesiderabile, uno a cui non dare manco uno spiccio per comprarsi un caffè. Con lo pseudonimo di Abe Snake si prodigherà nuovamente nel mondo del cinema erotico, girando nel 1975 "La cugina del prete", poi, solamente nel 1977, si troverà dietro la macchina da presa per "Le colline hanno gli occhi"; questa però è tutta un'altra storia.
***
Il Remake: "L'ultima Casa a Sinistra" (2009) di Dennis Iliadis
"L'ultima casa a sinistra" apre ufficialmente il ciclo dei remake legati alla tematica del rape and revenge. Uscito nel 2009 e diretto da tale Dennis Iliadis il film ha il coraggio, da riconoscergli, di confrontarsi con il cult di Wes Craven. Dal confronto questo remake ne esce chiaramente con le ossa rotte e, se rapportato all'originale, risulta essere un film a dir poco vomitevole. Ovviamente scherzavo sulla faccenda del coraggio, fu semplice brama di pecunia.
10 anni or sono era scoppiata già da un po' la mania di rifare film famosi anche a distanza di pochi anni dalla loro uscita; il tutto era dovuto a una mancanza palese di idee e di intraprendenza nell'ambiente hollywoodiano, cosa che spinse a cimentarsi in operazioni sicure, tra le quali appunto il vernissage di classiconi. Curiosamente, gran parte di questi rifacimenti, a scopo meramente commerciale, prendeva di mira opere frutto della corrente della Nuova Hollywood: come dire, un po' come il Che che lottò contro il capitalismo americano per poi finire stampato su milioni di t-shirt.
L'analisi sarà divisa in due parti: la prima sarà un confronto tra originale e remake, la seconda valuterà il film in sé.
***
Parte 1: Nella sua pretestuosità, "L'ultima casa a sinistra" di Craven era sporco, brutto e cattivo, un coacervo di cattivi ma cattivi per davvero, dei sadici nichilisti di gran compagnia. Ed, invece, il rifacimento firmato da Iliadis è bello bigotto.
In primis, il personaggio di Phyllis  (che nel remake prende il nome di Paige) è reso volutamente più trasgressivo: come dire, in fondo se lo meritava quel trattamento... Aveva solo da non pensare al pene di Justin e agli spinelli!
Mary è pura e casta anche qui, ma la novità è che nuota da dio (anche da morta).
I cattivoni...beh, non sono così cattivoni.
Junior (qui trasformatosi in Justin) è un bonaccione emo, non più tossico, ma semplice fattone (ammesso che in America sia percepita la differenza). Il personaggio di Sadie è semplicemente inutile e fastidioso, il Faina (qui Francis) sadicheggia in modo piuttosto commuovente, ma, alla fine, per due moine e una puncicata sulla schiena di Paige, paga con una fine truculenta.
Ma il meglio dello script è riservato a Krug: ebbene sì, da perverso leader, maniaco e burlone, in questo remake diventa il buon padre di famiglia. Talmente hanno voluto fare un film perbenista che pure i cattivoni sono equipaggiati di buone ragioni: le due ragazze vengono rapite e sono destinate alla morte, MA solo perché erano nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Prima differenza: ragazze non adescate nel motel da Justin, ma semplicemente sfigate perché mamma, papà e lo zio sono tornati prima. Paige viene uccisa a coltellate, niente stupro (differenza non da poco), ma solo per necessità di evitare la sua fuga e per punizione. Mari viene stuprata e sparata (mentre fugge nuotando in un lago), ma la scena dello stupro ha nulla dell'effetto disturbante dell'originale: Krug sfoga su di lei la frustrazione di essere stato sminuito nella sua virilità da Paige e la tensione per i molteplici atti di ribellione violenta degli ostaggi.
Tutto, per quanto orribile, sembra, in qualche modo, psicologicamente ricostruibile. Perciò, se i cattivi non sono rappresentati come dei sadici e se la violenza non è figlia dell'istinto di sopraffazione e dominazione insito nell'uomo, cosa differenzia questo film da un qualsiasi thriller? Tutto ciò su cui si basano i R&R viene qui completamente svuotato di significato.
E la scena della famigerata casa a sinistra?
Dura un fottio.
Dura quanto il film di Craven praticamente! 
I manigoldi arrivano, sono educati e manco vogliono trattenersi perché Krug non vuole disturbare (diligenza del buon padre di famiglia). Poi delle sorti della figlia i genitori capiscono dalla collana...Ok.. E...E... Dalla figlia!!
Già, perché Mari non è morta pistolettata in acqua.
Sembrava eh! Invece no, in realtà si è fatta una bella nuotata fino a casa ed è ancora viva. Pensa che brava che è stata la sua emorragia. Fanculo all'originale, non può essere così turpe questo remake, sia fatta vivere Mari.
La scena tra la madre di Mari e Francis a questo punto mi ha creato un po' di pensieri: sarà o no messa in scena come nell'originale? Con l'aria puritana che tirava ho subito pensato che, no, l'avrebbero stuccata. E difatti si assiste a minuti interminabili di dialogo trash in cui Aaron Paul si atteggia a seduttore psyco e la botulata di Monica Potter tergiversa alla ricerca del vino. Niente blowjob a denti stretti ed epifania sanguinolenta, ma, siccome in America il sesso vade retro ma la violenza yes we can, il povero Francis viene accoltellato, tritato, affogato e picconato (in quest'ordine).
Poi Sadie e Krug muoiono male, la figlia e Justin si salvano e tutti e 4 adesso potranno vivere come una famiglia felice. Ah, e il signor Collinwood, da bravo chirurgo, si avventura non in uno, ma in ben due interventi chirurgici domestici.
Fiuuuuu.
***
Parte 2: "The last house on the left" è girato da un buon mestierante dal momento in cui le scene action non sfigurano affatto nella loro realizzazione. La parte tecnica è qualitativamente sufficiente (montaggio, fotografia, sonoro e prove attoriali) e forse anche qualcosa in più. Un film che ha diversi momenti di buona suspense che, specie nella concitazione finale, tengono col fiato sospeso; per quanto riguarda la scena controversa, quella dello stupro, essa è girata davvero in modo sapiente: lungi dal mostrare, la sequenza risulta comunque ad effetto ed è gestita con grande raffinatezza registica.
Un film anonimamente inserito nella rete dei thriller televisivi si direbbe, SE NON FOSSE CHE trasmette un messaggio a dir poco inquietante. Ho accennato al punto sopra il fatto che, per come rappresentati, i cattivi sono razionalmente giustificabili per il loro agire e che, quindi, non siamo di fronte ad una violenza compiaciuta e fine a sé stessa; a ciò si aggiunge che, per scelte di copione, la vendetta dei Collinwood si esplicita in maniera feroce ed efferata, in pratica in maniera SADICA. Perciò, questo insignificante rifacimento giunge al paradosso di invertire i ruoli: i cattivi non sono sadici, i buoni si.
Quando Francis e Krug vengono praticamente torturati lo spettatore non prova vero appagamento, ma, anzi, ha l'impressione che sia un qualcosa di assolutamente sproporzionato: questo perché la violenza che ha subito anch'egli, immedesimandosi nelle due ragazze, non è accompagnata da quella gratuità che accresce un senso di ingiustizia e disorientamento totale, cancellabili solo con una pena riparatrice.
Oltretutto, è bene ricordarlo, la vendetta omicida mira a riparare il torto non di un omicidio, ma di uno stupro e di un TENTATO omicidio. Ma, siccome i buoni sono i buoni, ciò è ampiamente giustificato. Si rammenti che Craven, di proposito, volle creare un contrasto netto tra l'iniziale, tranquilla e morigerata, quotidianità della famiglia media americana e la brutalità della sua conversione finale, il tutto alternato ad un clima scanzonato e dissacrante. Da autore vero che approfitta del genere, stava prendendo per i fondelli l'istituzione borghese per eccellenza.
Mi ci potrei scommettere gli zebedei, invece, che la produzione di questo riadattamento, non si è minimamente posta il problema (se non proprio resa conto) che lo spettatore parteggerà per dei sadici giustizieri. Perciò questo è il messaggio che, sopratutto, lo spettatore medio americano recepisce dal film? Che la giustizia privata non solo è giustificata, ma può anche essere sproporzionata e compiaciuta? Stando così le cose diventa ancora più difficile stupirsi degli episodi di cronaca nera d'oltreoceano. Questo remake farà rivoltare Craven nella tomba per un bel po' di decenni [Continua...]

Bob Ft. Ismail

lunedì 15 ottobre 2018

"THE NUN-LA VOCAZIONE DEL MALE" (2018) DI CORIN HARDY

«Quando ero piccola avevo delle visioni e ogni volta che finivano qualcosa mi rimaneva impressa nella mente»
-Suor Irene-

"The Nun" (sottotilo ideale: Anatomia di una suora) è il nuovo spin-off/prequel della saga di "Conjuring", dopo i due "Annabelle". Diretto da Corin Hardy, ma prodotto dall'onnipresente James Wan, si è subito piazzato  nell'olimpo degli incassi.
Trama: siamo nel 1952, in Romania, due suore cattoliche che vivono nel monastero di Cârţa, vengono attaccate da una forza invisibile. La suora sopravvissuta, Suor Victoria, fugge dall'oscura presenza, un demone che appare come una monaca, e si impicca lanciandosi da una finestra. Il suo corpo viene scoperto giorni dopo da un giovane del villaggio detto il Francese.
Il Vaticano viene a sapere dell'incidente e convoca a Roma Padre Burke, al quale si chiede di recarsi con Suor Irene, una postulante nel periodo del noviziato, in Romania per indagare sulla situazione.
La suora cattiva era già apparsa in quel manifesto mod di "The Conjuring- il caso Enfield" (...we'll never walk aloneee... Ah no scusate) e, stringi stringi, si scopriva essere nientemeno che un demone: Valak. Memori di questa scoperta, gli spettatori si accingono alla visione curiosi di sapere come tutto cominciò. Per chi ha masticato i film di James Wan prodotti da Jason Blum, non dovrebbe essere difficile immaginare questo COME: tra serpenti in scarsa CGI fuoriuscenti da orbite, vetri che esplodono e jump scares vari, è tutto abbastanza telefonato. 
Ma allora mettiamoci d'accordo: bocciamo tutti i film successivi ad "Insidious"[LINK] o accettiamo il fatto che, sorretta da un crescendo sonoro, tra una finta e una controfinta, apparirà sempre, seguita immediatamente da un esplosione uditiva, la presenza malvagia pronta a spaventare più che ad uccidere il malcapitato; con tutto l'arsenale di una sala cinematografica il salto sulla sedia sarà inevitabile anche per i più scafati. 
Quella contro il jump scare fine a sé stesso è una polemica di lungo corso: è noto che film del genere sfruttino la potenza della sala cinematografica per tenere lo spettatore sulla corda e fargli prendere un coccolone al momento giusto; la controprova è data dal fatto che una visione casalinga toglie già la metà del gusto (e per capire quanto si possano rendere fini a sé stessi i jump scares è consigliata la visione di quel piccolo capolavoro di "Drag me to hell" di Raimi, dove il buon Sam gioca in continuazione con la paura dello spavento improvviso). 
Tolti i jump scares e il mistero sulla presenza oscura, cosa rimane? 
Potremmo dire i colpi di scena, ma ne abbiamo solo uno e, per di più, farlocco. Fino a metà film siamo convinti che il convento sia ormai abitato soltanto da Valak, invece si è, a un certo punto, forzati dalla trama a credere che ci sia la presenza di altre suore, per poi scoprire che, toh, in effetti era abbandonato fin dall'ingresso dei tre protagonisti. Perciò ben poca trama, che si concentra sul consueto schema apparizione demoniaca, protagonisti che la fronteggiano e contenimento finale della stessa (più twist obviously). 
Rimane un'atmosfera e un'ambientazione che ha gioco facile tanto si presenta suggestiva tra cimiteri campestri, vecchi caseggiati, montagne lugubri e un gigantesco convento spettrale. 
Lo stesso villain, interpretato dall'inquietante e anch'essa onnipresente Bonnie Aarons (parlavamo di Drag me to hell...), è un'azzeccatissima maschera del terrore, esaltata nella sua presenza scenica (la meravigliosa sequenza della prima apparizione nella cappella) ed è un peccato che non rimanga alcun mistero su di esso, essendo già stato rivelato il grosso in "The Conjuring". 
Osservando la regia è chiaro che Hardy è praticamente una bambola (californiana) manovrata dall'immancabile Wan, il cui tocco si percepisce chiaramente: jump scares, messa in scena, ironia stempera-tensione, flashbacks, timing perfetto dello spavento e movimenti di macchina (specie nell'uso della soggettiva) sono farina del suo sacco. Per non parlare del montaggio: il riuscitissimo prologo in carrellata all'indietro con le candele che progressivamente si spengono all'avanzare di Valak nel buio, mentre una croce in primo piano lentamente si rigira al contrario. Beh la mano è palese.
Sentimenti contrastati accompagnano le scene d'azione: si va dall'imbarazzante sequenza della colluttazione con il bambino posseduto, scontata e di fattura CGI pessima, passando per le incursioni di Valak, rese ottimamente per gran parte del film; infine, ahinoi, tocca mandare giù la risoluzione finale in perfetto stile "Underworld", che pare proprio essere inevitabile per il tipo di prodotto.
Nota davvero stonata è il personaggio di Padre Burke: posto innanzitutto che Demián Bichir ha più il phisique du role per apparire in "Expendables" che per interpretare il ruolo di un prete, il suo personaggio è totalmente inutile. Oltre a non conferire il minino apporto alla trama, assistiamo a un epilogo in cui viene completamente messo da parte e ridotto a spettatore; si poteva optare sicuramente per qualcosa di diverso che, comunque, facesse risaltare Taissa Farmiga, la vera protagonista del film nei panni di Suor Irene, (personaggio lei si ben delineato). D'altro canto funziona il personaggio del "Francese", elemento di comicità e alleggerimento (saggiamente dosato) e inaspettata chiave di volta per ricollegare questo prequel ai successivi capitoli.
In definitiva parliamo di un film ben diretto ed ambientato, poco pretenzioso nei contenuti e nell'originalità, ma dotato della giusta dose di tensione da un lato e ironia dall'altro. 
Quindi?! 
Si va a colpo sicuro, che domande.

Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 8 ottobre 2018

SPECIALE R&R (PARTE III): "CANE DI PAGLIA", IL RIFLESSO DELLA CATTIVA COSCIENZA AMERICANA

⟸Parte II                         Parte IV⇒
«Quando la gente impreca contro il mio modo di trattare la violenza in pratica dice: 'Non Mostrarmela, non voglio sapere, e prendetemi un'altra birra dal frigorifero...'. Credo che sia sbagliato. e pericoloso, rifiutare di riconoscere la natura animale dell'uomo»
-Sam Peckinpah-

Chi è stato Sam Peckinpah?
Uno di quei cocciuti che tanto piace a noi.
Una vita a tirare avanti la baracca con sceneggiature e regie per la Tv, poi il grande salto nel cinema con il suo amato West. Qui un continuo braccio di ferro con la produzione: lui voleva fare il cazzo che gli pareva, quelli che ci mettevano i soldi preferivano un regista che portasse avanti il compitino senza troppi fronzoli.
Sam, il suo primo lungometraggio, "La morte cavalca a Rio Bravo"(1961), lo rinnegò: regia e montaggio vennero eseguiti sotto la strettissima sorveglianza dei produttori che inevitabilmente marchiarono il prodotto. 
Una prima piccola rivincita arrivò l'anno successivo con "Sfida nell'Alta Sierra", la storiella di due arzilli cowboy è vero, ma con un realismo che poco si addiceva al western americano. Poi ancora scazzi per "Sierra Charriba", tagliuzzato in post-produzione di ben trenta minuti.
Divenuto un indesiderabile, torna alla tv e qui ottiene il clamoroso successo con il serial "Noon wine". Al resto ci pensò il vento inarrestabile della Nuova Hollywood che apriva nuovi spazi di libertà per i registi americani. Siamo nel 1969 e gli zoccoli dei cavalli calpestano selvaggiamente i corpi inermi: "Il Mucchio Selvaggio" (1969) è Il western americano, anzi è la storia e l'anima del migliore cinema a stelle e strisce.
Sam Peckinpah è stato un innovatore del cinema d'oltreoceano, nonché fonte di ispirazione per le generazioni successive; chiedete a Scorsese e Tarantino. Il suo cinema portava un'ondata di violenza e realismo che Hollywood non aveva mai visto. Era quasi inevitabile che il californiano entrasse in questo speciale con un suo film.

"Cane di paglia-Straw Dogs" (1971) di Sam Peckinpah:
Lui, David (Dustin Hoffman), è un matematico americano ed ha avuto una borsa di studio per un progetto importante. Ha deciso di trasferirsi in Cornovaglia, nel paese d'origine della sua bella compagna, Amy (Susan George). Qui potrà, in tutta tranquillità, svolgere le proprie ricerche. 
Non c'è il clima arido e polveroso del vecchio West, è vero. Al suo posto troviamo verdi collinette attraversate dalle sinuose strade che ne disegnano il paesaggio. Anche il periodo non è quello giusto; siamo nei primi anni '70 carichi di istanze e rivendicazioni sociali. 
Ma la rivoluzione culturale è distante come non mai ed il selvaggio west lo si respira nell'aria. 
C'è il saloon dove i suoi luridi clienti comprano sigarette e bevono litri di birre. C'è l'uomo solo, il Maggiore, che tiene a bada gli animi ed è chiamato a far rispettare la legge. Siamo nella civile Inghilterra eppure si è in un qualsiasi paese di confine dove si lotta per la predominazione.
Ma torniamo alla giovane coppia. 
I due hanno preso una casetta in campagna che richiede delle riparazioni al tetto. Su richiesta della moglie, David ingaggia Charlie, l'ex fidanzato di Amy, ed i suoi compari. Sembra siano portati per i lavori in muratura. 
Lui studia e lei si annoia. 
Lui subisce le angherie dei maschietti, lei, stanca di un compagno incapace di imporsi, apre per bene i suoi occhioni verdi e fa un po' la civettuola. 
Lui va a caccia, lei viene stuprata.
"Cane di Paglia" ci prepara lentamente ad una furiosa lotta tra apollineo e dionisiaco, un assalto alla diligenza che cresce costantemente ed esplode con un'intensità inaudita; si tocca con mano l'essenza del Peckinpah fatto di rallenti e montaggi frenetici che esaltano la violenza caricandola di significati.
E "Cane di Paglia" mise a dura prova la critica ed il pubblico dell'epoca.
Alcuni dotti si affrettarono a sottolineare un eccessivo compiacimento nella messa in scena della violenza; poi, a complicare le cose, c'era la scena dello stupro con una Amy così ambigua, quasi divisa tra il terrore e la voglia di abbandonarsi al lato più istintivo e cadere tra le braccia di Charlie, l'uomo che incarna tutto ciò che non è il marito David. Il velo di ambiguità cade repentinamente, palesandosi (con l'arrivo del branco) un senso di disgusto che si ripercuoterà nel successivo incontro alla festa parrocchiale.
Dai dubbi alle etichette il passo fu breve. 
"Cane di Paglia" è un'opera misogina
Di più, la prima opera d'arte fascista d'America.
Forse però la realtà è più complessa.
Peckinpah un'operazione di questo tipo l'aveva già compiuta con il vecchio west
Il mito della frontiera veniva preso a martellate, divenendo un luogo abitato da personaggi in decadimento, sia fisico che morale; volti luridi che esprimevano il futuro capitalismo anarchico che imponeva la sua forza su terre e uomini.
Lo stesso avviene in "Cane di Paglia".
Il mondo occidentale civilizzato, sostenuto dal mito del progresso, non esiste e nasconde dentro di sé un furore primordiale. Così ad una società rurale timorosa verso "scioperi, rivolte e negri che si ribellano", risponde David, il miglior frutto dell'America. Egli è colto, educato, perbenista ed ipocrita. E' ben predisposto a girar la testa dall'altra parte, a sentirsi superiore agli altri e, quando è necessario, ad imporre il suo senso di giusto attraverso una forza primitiva e violenta.
"Cane di Paglia" è prima di tutto questo, un'opera pessimista che prende per il bavero lo spettatore e lo spinge ad una presa di coscienza dolorosa e non voluta. E' l'espressione di una natura umana irrimediabilmente animalesca. Anzi, «il riflesso della cattiva coscienza dell’America».

"Straw Dogs" (2011) di Rod Lurie:
10 anni or sono è scoppiata la mania di rifare film famosi anche a distanza di pochi anni dalla loro uscita. Ciò è dovuto, con tutta evidenza, ad una mancanza palese di idee e di intraprendenza nell'ambiente hollywoodiano. Curiosamente, gran parte di questi rifacimenti a scopo meramente commerciale, ha preso di mira opere figlie della  Nuova Hollywood: come dire, un po' come il Che che lottò contro il capitalismo americano per poi finire stampato su milioni di t-shirt.
Ciò è avvenuto anche con i R&R. La strada è stata inaugurata nel 2009 da Dennis Iliadis con "L'ultima casa e sinistra" ed è proseguita con "I spit on your grave" (2010). Ed in questo contesto, anche Sam Peckinpah ha avuto il suo figlio (il)legittimo.
***
"Strew Dogs" (2011) di Rod Lurie è una pedissequa ricalcatura delle linee narrative dell'originale.
Per questo remake si punta su un cast di volti noti: James Marsden, Alexander Skarsgard, James Woods e Kate Bosworth, giusto per citarne alcuni.
Difficile accettare la facciacazzi di James Marsden, ma bisogna ammettere che fa il suo e quegli occhietti blu gli si illuminano al momento giusto; Kate Bosworth? Neanche quello. Skarsgard e Dominic Purcell, rispettivamente nella parte del ganzo uomo Alpha di paese l'uno e del ritardato mentale l'altro, andrebbero quasi scambiati di ruolo, senti un po' che ti dico.
Per fortuna ad evitare un gran miscasting ci pensa quell'acqua ragia di James Woods, perfettamente a suo agio nel ruolo di un ex coach ubriacone e violento.
A sto giro non sono più le fredde e nebbiose brughiere della Cornovaglia ad essere protagoniste, ma il polveroso e torrido Mississipi. Questo cambia un bel po' la faccenda, perché si perde uno dei tratti peculiari dell'originale e per l'ennesima volta si vira marcatamente verso una critica feroce della provincia americana bigotta e violenta. Stavolta il West c'è per davvero, i luoghi sono quelli, i redneck pure. Stranamente rimane il cottage stile britannico paro paro a quello dell'originale, il che ovviamente non ha alcun senso in un contesto così diverso.
Differenze dall'originale? Che sia un coach e non un maggiore il metronomo di quella violenza, costantemente e sottilmente percepibile e pronta ad esplodere, o che il personaggio di Charlie si diverta a beccare verbalmente David (dando vita a un dissing) poco fa. È un'opera completamente derivativa che ricalca esattamente l'originale scena per scena. Addirittura Rod Lurie riproduce esattamente il montaggio incrociato tra la scena dello stupro e quella della caccia. Più di così...
C'è da dire che, in questo remake, si decide di accentare in modo ben preciso l'ambiguità dell'originale, rappresentata dal personaggio di Amy: il film del 1972 mostra, in modo più smaccato, l'attrazione di Amy verso Charlie e, quando si consuma il rapporto sessuale, appare chiaro come ci sia un certo godimento da parte della protagonista, subito poi trasformato in orrore per la piega che assume successivamente la questione.
L'Amy di "Strew Dogs", invece, non fa NIENTE (se non in una stupidissima scena stile peep show) per legittimare le convinzioni e la determinazione di Charlie e i suoi amici ed, anzi, si ribella apertamente e violentemente alla crescente prevaricazione subita.
Questa differenza non va che a favore della visione cruda di Peckinpah, il quale utilizza l'ambiguità sessuale di Amy per sottolineare ulteriormente una verità ineluttabile dell' istintività umana: in modo innegabile, prima che affiori la sua parte razionale e autoconservativa, Amy si abbandona volitivamente al più forte, sfogando il suo atavico, e radicato nel profondo, istinto di eterodominazione femminile, ormai represso e compresso nel rapporto monotono e velleitario con David. Solo con l'affermazione brutale del suo ruolo di capobranco David riesce a mostrare il suo valore, in barba al ruolo sociale che ricopre e che, già ampiamente, lo legittimerebbe su una comunità di campagnoli.
Questa operazione di vernissage sicuramente ha i suoi pregi rispetto alle zozzerie che hanno imperversato negli ultimi anni. Resta il fatto che l'originale non necessitava di un remake più cinematografico, ma anche in questo caso bisogna astenersi da eccessivi raffronti.
Il film è girato molto bene, abile nel creare tensione e nell'avere un certo impatto sullo spettatore: risulta sicuramente un prodotto di qualità.
Per i pigri o i più giovani può essere una buona alternativa, moderna e restaurata, per esplorare la tematica spinosa che sta alla base del libro da cui sono tratti i due film [continua...].

Bob Ft. Ismail