lunedì 14 marzo 2011

"L'OMBRA DEL VENTO" (2004) DI CARLOS RUIZ ZAFON

Carlos Ruiz Zafòn sembra essere lo scrittore del momento. 
Esordisce nel 1993 con "Il principe della nebbia", ma il vero successo giunge nel 2004, anno di pubblicazione del suo quinto libro: "L'ombra del vento".
Sono passati 8 anni da quando è stato pubblicato e tutto è accaduto a fari spenti, niente campagna e tanto passaparola: il risultato è la bellezza di 8 milioni di copie in tutto il mondo. Un motivo ci sarà.
Il protagonista di questa storia è un bambino, Daniel Sempere. Orfano di madre, è figlio di un libraio che, per il suo undicesimo compleanno, decide di portarlo in una biblioteca da film fantasy: Il Cimitero dei libri dimenticati. Qui il giovane viene in possesso dell'unica copia di un'opera scritta da tale Julian Carax: "L'ombra del vento". Ecco spiegato il titolo del romanzo.
Per Daniel quello è un gran racconto e decide di mettersi alla ricerca delle sue altre opere; scoprirà terribili verità sulla vita di Carax e una curiosa coincidenza: man mano che cresce, la vita di Daniel sembra ripercorrere le tappe di quella di Julian. 
Ad arricchire la scena giungono poi alcuni straordinari personaggi che entreranno a far parte della sua vita: Fermin Torres, uno strampalato guascone dall'animo raffinato; Javier Fumero, un ispettore di polizia, torturatore al servizio del generalissimo Franco, che sembra essere indissolubilmente legata a Julian Carax; o ancora Lain Coubert, inquietante individuo dal volto sfigurato, che è alla ricerca dei libri del misterioso scrittore per poterli bruciare tutti.
"L'ombra del vento" è una commistione di generi dalla tinte malinconiche e decadenti, acuite dall'ambientazione post guerra civile; c'è il noir; c'è la tradizione dei racconti dell'orrore con le sue ambientazioni cupe, rarefatte e polverosi; poi il percorso di ricerca epistemologica sulla vita di Julian Carax, si muove nell'alveo del gialloE la commistione di genere è più che buona, garantendo numerosi momenti di patos che assumono un senso di imminente tragedia.
Ma "L'ombra nel vento" non è un lavoro perfetto, anzi.
La struttura appare meno ficcante rispetto alle scelte di cui sopra: in alcuni momenti la lettura diviene quasi macchinosa; non pienamente centrata la costruzione dei personaggi, che seppur straordinari, vengono limitati da un'eccessiva tipizzazione.
E che dire dell'eccessiva passione o sull'insistere in più riprese sul grande amore? Cavolo Zafòn, siamo in un noir, mica in una telenovela sudamericana?
Soppesando pregi e difetti, quest'Ombra mantiene comunque una sua anima, ha alcuni passaggi davvero notevoli e si differenzia da gran parte dei casi letterari degli ultimi anni (vero Dan?), più provocazioni create ad arte e magistralmente supportate dal bombardamento mediatico, che altro.
Leggerlo? 
Perché no.
Non ve ne pentirete. 
O almeno non troppo. 

Habemus Judicium:
Bob Harris

sabato 12 marzo 2011

DANNY POP: "127 ORE"

«Adesso ho tutto chiaro, sono io, l'ho scelto io, questa roccia è stata qui ad aspettarmi per tutta la vita, tutta la sua esistenza, fin da quando era solo un meteorite, un milione, un miliardo di anni fa, lassù nello spazio, ha aspettato di venire qui, proprio, proprio qui, per tutta la vita sono andato verso di lei, da quanto sono nato ogni mio respiro, ogni mia azione mi ha guidato fin dentro questa crepa sulla superficie della terra »
-Aron-


Pop. Una parola per descrivere un artista: Danny Boyle
Il regista di Manchester ha fatto fortuna grazie al suo stile sensibile alla cultura di massa, brillante e ipercinetico. La consacrazione è arrivata ufficialmente con "The Millionaire", fruttatogli 8 premi Oscar, ma di quelli che contano (tra cui miglior film e miglior regia).
Dopo aver sbancato il Kodak Theatre di Los Angeles, a 2 anni di distanza, Boyle decide di rilanciare con un progetto sulla carta assai bizzarro: la storia di Aron Ralston, ingegnere meccanico appassionato di trekking, che si ritrovò, durante l'escursione nel Blue John Canyon nello Utah, con un braccio bloccato da una roccia all'interno di una crepa del canyon e che, per salvarsi, dopo essere stato cinque giorni intrappolato, decide di tagliarselo.
Di per sé la vicenda, nonostante assuma dei risvolti gore nel suo sviluppo, non sembrerebbe offrire materiale sufficiente per potervi fare un film sopra. E comunque grande era il rischio di trascinare lo spettatore nella noia più totale, distogliendolo dall'immedesimarsi con il protagonista, cosa che avrebbe impedito di trasmettergli il grande messaggio di vita che sta alla base dell'opera. 
Per questo trasporre su schermo il libro di Aron Ralston "Between a Rock and a Hard Place" sembrava una vera e propria sfida. Sfida che alcuni registi avrebbero sicuramente accettato, ma credo pochi di quelli con una statuetta in tasca, specie se freschi di vittoria.
Boyle, si mette alla prova, dimostrandoci quanto sia eclettico nell'affrontare i temi più disparati, pur mantenendo il suo stile inconfondibile (roba da Polanski...).
Risultato? Ci riesce alla grande!
Come? innanzitutto imposta il film come una sfida di sopravvivenza e ciò è chiaro fin dal trailer. Una vicenda che presenta dei momenti tragici viene invece affrontata con la giusta vivacità e il personaggio di Aron è caratterizzato come un tipo cool, un outsider che preferisce la natura ai parties, cosa che lo rende ancora più figo. Non mancano momenti che suscitano emotività, soprattutto quando Aron si rende conto che la sua vita è appesa ad un filo e probabilmente non rivedrà più i suoi cari. 
Ma il tutto è alleggerito da momenti brillanti, anche nel dramma (il finto programma radiofonico inscenato da Aron, in cui ironizza sulla sua condizione e sulla sua imprudenza) e scene cult (Aron riguarda il video insieme a due escursioniste girato con la videocamera e prova a masturbarsi in quella situazione estrema, con ovvi scarsi risultati). 
Ma ciò che rende il film interessante sono le inquadrature di Boyle. Roba da videoclip. 
I primissimi piani su un grande James Franco, bravissimo a reggere la parte, giocata tutta sulla mimica facciale, il focalizzarsi sui dettagli, sugli oggetti che Aron ha a disposizione; tutto ciò permette allo spettatore di concentrarsi  sull'ambiente e sull'azione, resa anche più piacevole da alcuni virtuosismi (rallenty e  divisione di più scene nella stessa inquadratura). La sensazione è di stare lì con lui, intrappolati in quel canyon. E non si risparmia nemmeno di mostrarci le scene esplicite, difficili da digerire anche per i meno schizzinosi, ricordandoci che Boyle è stato regista anche di film horror ("28 Giorni Dopo").
La tensione va in crescendo e, nonostante il ritmo sia troppo spezzettato da flashback, allucinazioni e visioni passate e future (beh, comunque in qualche modo bisognava ovviare alla mono-ambientazione), si giunge al momento liberatorio (sia per Aron che per lo spettatore) che porta con se un messaggio forte e chiaro: "127 ore" è un inno alla vita e alla natura (e non è caso che ho deciso di vedere "Into The Wild (Link)" dopo aver visto questo film).   
Da vedere.

Habemus Judicium:
Bob Harris

IPERIONE IN ORIENTE #1: OLD BOY (2003) DI PARK CHAN WOOK

«Sorridi, e il mondo sorriderà con te. Piangi, e piangerai da solo»


Non so quanto Park Chan Wook si sia ispirato a David Fincher e Tarantino nel realizzare "Old Boy". Ma la sensazione, a film finito, è quella di aver assistito ad uno strano incrocio fra "Kill Bill" e "Seven". 
"Old Boy" è un thriller coreano dalle tinte estremamente torbide, che si rivela una vera e propria tragedia grecaE proprio questo riferimento classico appare evidente nel rapporto fra i personaggi e nel tema dell'inevitabilità del peccato
La trama è semplice: Oh Dae-su è un uomo come tanti, con la sua bella famiglia, una moglie e una figlia. Improvvisamente e inspiegabilmente viene rapito e recluso 15 anni nella stanza di un palazzo. Proprio quando sta per mettere in atto un piano di fuga, viene liberato dai suoi carcerieri; una volta fuori scopre che sua moglie è stata uccisa, lui è accusato dell' omicidio e la figlia è stata data in adozione. Viene da sé che l'uomo deciderà di vendicarsi di colui che gli ha distrutto la vita, Woo Jin.
"Old Boy", dopo la sua uscita ha suscitato molto clamore. Vuoi perché associato a Tarantino, dal quale riprende violenza stilosa (divertente il lungo piano sequenza di Dae-su che combatte con un martello circondato da un gran numero di uomini in uno stretto corridoio); vuoi per la moda, al momento dell'uscita, dei film orientali tendenti al thriller/horror; vuoi per una concezione voyeuristica della violenza che si denota in alcune scene d'impatto (considerazione oggi fiaccata dai successivi e ben più violenti torture porn come "SAW"[LINK] e "Hostel"[LINK]).
Ma è giusto il clamore e le tante chiacchiere che si sono fatte su questo film?
La risposta è si, "Old Boy" ha molte frecce al suo arco.
Ciò vale per le interpretazioni degli attori, per il comparto visivo. Ma i punti forti solo altri.
C'è la costruzione narrativa, tutta fondata sulla catena crimine espiazione, un cammino che assurge a paradosso, ribaltando il pensiero dello spettatore: non è possibile alcuna espiazione, l'unica porta che si può aprire è rimorso, vero tema centrale dell'opera.
Poi c'è un elemento squisitamente culturale.
"Old Boy" ci pone dinnanzi al mondo orientale, ad atteggiamenti, gestualità e gusti così distanti e stranianti per noi; e ciò si acutizza nelle fantasie di dominazione e nella concessione di sottomissione al proprio padrone (perfettamente rese dalle inquadrature dal basso che non ci mostrano il viso del domino), che si riverseranno tanto sul protagonista, quanto su una figura femminile fortemente tipizzata.
Siamo dinnanzi ad un'opera di sicuro fascino.
Ovviamente la visione è consigliata.

Habemus Judicium:
Bob Harris

venerdì 11 marzo 2011

L' ESPERANZA DEL JAZZ

Salve amanti del jazz o curiosi indagatori dell'universo musicale, questo post è dedicato a farvi scoprire, qualora già non la conosceste, una straordinaria artista diciamo pure emergente del panorama musicale internazionale. I più acuti avranno già carpito il suo nome semplicemente leggendo il titolo, ma per chi non ci fosse ancora arrivato: Ladies and Gentlemen, ecco a voi Miss Esperanza Spalding
Voluta dal Presidente Obama alla cerimonia di premiazione in cui gli è stato consegnato il Nobel per la Pace (lui si che ha buon gusto, mica come....vabbè lasciamo stare) è stata da poco vincitrice di un Grammy Award come Miglior artista esordiente. Cosa quest'ultima che, fra parentesi, ha fatto imbufalire la miriade di fans del giovanissimo Justin Biber, i quali hanno tempestato la pagina Twitter della cantante con offese pesanti e talvolta, udite udite, con delle minacce di morte! 
Roba da matti! Voglio dire, a me piace moltissimo Rihanna, ma se il Grammy che si è aggiudicata quest'anno fosse andata a Lady Gaga di certo non mi sarei attivato per spedirle una testa mozzata di cavallo via e-mail! Idiozie a parte, Biber si è comportato sportivamente in un'intervista ad MTV dichiarando che, nonostante il comprensibile rammarico, fosse contento per la sua vittoriosa "avversaria" e che alla fine una sconfitta non è poi una cosa così negativa, anzi insegna a crescere più di una vittoria: bravo Justin! 
Ma mettiamo da parte le colorite, o macabre (dipende dai punti di vista) curiosità e concentriamoci sulla musica. Ed incominciamo dando qualche cenno biografico della talentuosa Esperanza, per permettere ai neofiti di comprenderne la basale formazione artistica. 
Miss Spalding nasce nell'ottobre del 1984 nella città statunitense di Portland, ma la sua identità culturale, molto più complessa, getta le basi dai monti gallesi ai territori ispanici e soprattutto africani
La madre, dalla quale Esperanza dichiara di aver ereditato gran parte del suo patrimonio culturale, la assegna alle cure di una balia cubana, dalla quale impara l'uso della lingua spagnola, ed a soli 5 anni la inizia allo studio del violino, facendola entrare nel prestigioso circolo artistico della Chamber Musica Society dell' Oregon
Qui inizia a comporre, incredibilmente giovane! Dirà delle sue prime esperienze musicali: «The funny thing was, I was the songwriter, but I had never experienced love before. Being the lyricist and the lead singer, I was making up songs about red wagons, toys and other childish interests. No one knew what I was singing about, but they liked the sound of it and they just ate it up».
Con sconvolgente naturalezza la nostra Enfant Prodige impara a suonare anche l'oboe ed il clarinetto, infine, durante il periodo della High School, il basso, lo strumento che ad oggi la contraddistingue maggiormente. 
Intrisa di passione e cultura musicale, oltre che di un inestimabile talento, Esperanza è diventata in un tempo oggettivamente breve, un'artista dalla qualità che non stento a definire sopraffina. Esperanza oltre che vantare abilità polistrumentistiche di certo non comuni, possiede una vocalità dolce ed ammaliante al contempo, morbida e delicata ma anche risoluta, che domina senza difficoltà le armonie del pentagramma, articolandosi nel trilinguismo composito di favella anglosassone, ispanica e portoghese. 
Le sue origini multiculturali, a cui ho prima fatto cenno, le permettono inoltre di staccarsi dai sicuri lidi della musica jazz più moderna e all'avanguardia, che tanto bene conosce, per spingersi attraverso i mari del funk e del pop più ricercato, fino a raggiungere le coste accarezzate dalla musica ritmica brasiliana e cubana. Il risultato è uno straordinario crogiolo di esperienze, ritmi, sonorità, inflessioni d'innovazione e tradizionalismo che rendono il suo sound così unico ed accattivante. 
Beh certo non aspettatevi canzoni orecchiabili o ritornelli facilmente ripetibili nei suoi tre (JunioEsperanza e Chamber Music Society), che la critica definisce come autentici capolavori.
Una trilogia da ripercorrere piacevolmente che ha in "Esperanza" la mia raccolta preferita, con brani dove la raffinatezza dell'arte intellettualmente elaborata si fonde alla perfezione con la piacevole emozionalità dalla quale, a mio parere, l'arte non deve mai distaccarsi. 
Tra i brani che ho trovato maggiormente interessanti vi ricordo: Peacocks, Loro, Humpty Dumpty e Junio da Junio; Ponte de Areia, I Know you know, Fall in, I adore you, Precious, Love in time e If that's true da Esperanza; Little Fly, Knowledge of Good and Evil, Wild is the Wind and Winter Sun da Chamber Music Society. Si passa da accattivanti ritmi dettati dalle percussioni, al sofisticato virtuosismo poli-strumentale dominato dal basso, per giungere alla dolce e malinconica melodia saltellante tra i tasti zebrati del piano forte, che accompagna i pensieri amorosi degli inguaribili romantici (un po' come me)... 
Beh mi pare di aver parlato abbastanza, ora non vi resta che ascoltare le preziose note dellabella Esperanza. Poi fatemi sapere cosa ne pensate mi raccomando! 
Ah ancora un consiglio. Se avete trovato interessante e ben scritto questo articolo (cavolo speriamo di sì!), beh allora vi conviene provare a scrivere con la musica di Miss Spalding in sottofondo, è una feconda fonte di buona ispirazione e conciliazione del pensiero.

Adamantine Ego




mercoledì 9 marzo 2011

E SONO 1000!!!

«Sono figlio del cammino, la carovana è la mia casa e la mia vita è la più sorprendente avventura»
-"Leone L'Africano", Amin Maaluf-

«La mente non è un vaso da riempire ma un legno da far ardere perché s’infuochi il gusto della ricerca e l’amore della verità» 
-Plutarco-

Abbiamo superato quota mille visualizzazioni, Un primo piccolo traguardo per un progetto nato poco più di tre settimane fa.
Speriamo di poter continuare con l'entusiasmo e la dedizione che ci hanno caratterizzato fin'ora, anche e, soprattutto, grazie al vostro interesse. 
Ad maiora semper!

Lo Staffe

lunedì 7 marzo 2011

CHRIS MCCANDLESS: UNA VITA INTO THE WILD

«Lungo le due rive del fiume gelato si stendeva la cupa e tetra foresta di abeti, dai quali il vento aveva appena spazzato il manto di brina. Nella luce crepuscolare quegli alberi neri e sinistri sembravano inclinarsi l'uno verso l'altro. Un silenzio minaccioso incombeva sul paesaggio, privo di qualsiasi segno di vita o di movimento, e desolato e freddo al punto da non poter ispirare che un solo sentimento: quello della più triste malinconia. E nello stesso tempo pareva che da quel paesaggio trapelasse una specie di riso, un riso ben più spaventoso di qualsiasi malinconia o tristezza, un riso tragico, come quello di una sfinge, un riso agghiacciante più della brina e che rammentava l'incombere minaccioso dell'ineluttabile. Era la saggezza potente e impenetrabile dell'eternità che irrideva alla vita, alla sua futilità e agli sforzi degli uomini. Era il Wild, il selvaggio Wild delle spietatamente gelide terre del Nord»
-"Zanna Bianca", Jack London-

Pare che, da quando nelle sale di tutto il mondo è uscito il film "Into The Wild" di Sean Penn, vada ancora più di moda sognare avventure nella natura selvaggia. 
Viene da chiedersi se tale sentimento sia da attribuire al bel film dell'attore statunitense, inaspettato assente alla notte degli Oscar (non senza strascichi polemici). 
La mia risposta è assolutamente no. 
Per carità il film merita, il montaggio disordinato paga, rende la narrazione non lineare, conferendo ad ogni sequenza un valore poetico a sé stante, piccole parti che vanno a formare quel quadro d'autore che è "Into The Wild". Ed è questa la similitudine che meglio rispecchia la pellicola (e così che deve averla pensata Penn), visto il richiamo palese alla pittura nei pensieri Chris che prendono forma sullo schermo.
Lo spettatore rimane incantato, in totale immedesimazione con lo stupore del protagonista, dai paesaggi che la madre terra offre a coloro che, coraggiosamente, decidono di immergervisi. 
Non c'è che dire, il continente americano è stupendo, ma lo sapevamo già dai tempi di "Easy Rider" (almeno io...). A ciò aiutano le musiche di Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam e le melodie alla chitarra di Micheal Brook e Kaki King, che nel loro tranquillo andamento, ben esprimono la pace e la calma che luoghi del genere trasmettono. 
A ciò vanno aggiunte delle ottime prove d'attore, da parte dei protagonisti, Emile Hirsch su tutti (la sua trasformazione fisica è da vero camaleonte). 
Unica nota stonata la fastidiosissima e invasiva voce fuoricampo della sorella di Chris che funge da narratrice dei suoi pensieri. Vecchia lezione di cinema: si usano le parole laddove non si è in grado di mostrare le cose con le immagini. Niente di grave però.
Targa apposta dal padre di Chris al momento di visitare il Magic Bus

Detto di come il film sia un gran bel prodotto bisogna riflettere su una cosa: la storia di Chris McCandless basta da sola per trasmettere una forte emozione per ciò che egli ha vissuto ed a suscitare uno spirito di emulazione. Inoltre il triste epilogo, il modo in cui esso è avvenuto, contribuisce a creare curiosità morbosa e riempie la vicenda di un tragico fatalismo. In poche parole ti entra nella pelle.
Riporto qui brevemente la sua biografia: Chris McCandless nasce il 12 febbraio dell'anno 1968 nel Sud della California, da Walt McCandless, un dipendente della NASA, e Wilhelmina Johnson, un'impiegata. Dopo sei anni a El Segundo, la famiglia si sposta in Virginia. Nel 1990 si laurea con il massimo dei voti in Storia e Antropologia all'università Emory. Benestante di famiglia, decise di attraversare l'Ovest Americano da solo, dopo aver donato i suoi 24.000 dollari di risparmi alla Oxfam.
Intraprese inizialmente il suo viaggio con la sua vecchia auto, una Datsun B210 gialla del 1982, un acquisto dell'ultimo anno di liceo con cui Chris amava viaggiare durante le vacanze scolastiche. 
La Datsun fu in seguito ritrovata da un gruppo di ricercatori di fiori rari nel deserto del Mojave: all'interno Mccandless aveva abbandonato una chitarra Gianini, un pallone da football, un sacchetto di immondizia pieno di vecchi indumenti, una canna da pesca, 10 kg di riso, un rasoio elettrico nuovo, un'armonica a bocca, i cavi della batteria e le chiavi. 
Il ragazzo abbandonò il proprio mezzo a causa di un'ondata d'acqua (proveniente dal fiume accanto al quale si era accampato) che bagnando il motore aveva reso l'automobile inutilizzabile. Prima di lasciare la sua auto bruciò i propri risparmi e si liberò di ogni prova della sua identità, gettando via anche la targa dell'auto. Proseguì quindi a piedi facendo autostop, girovagando tra Stati Uniti occidentali e Messico settentrionale.
Replica del Magic Bus
Trascorse gli ultimi 112 giorni della sua vita nei boschi dell'Alaska, nel parco nazionale di Denali, avendo come unico rifugio un vecchio autobus abbandonato, da lui chiamato Magic Bus (attualmente meta di pellegrinaggio da parte di coloro che sono rimasti affascinati dalla sua storia). 
Per un certo periodo, Chris riuscì a sopravvivere con l'ausilio di pochi strumenti: un fucile calibro 22, una sacca di riso, un libro sulle piante commestibili del luogo, ed altri semplici oggetti da campo. 
Fu ritrovato morto dentro l'autobus nell'agosto del 1992 da due cacciatori, i quali scoprirono il corpo a due settimane dal decesso. Ufficialmente è morto di fame (al momento del ritrovamento il cadavere pesava circa 30 kg), ma altre possibili cause sono il freddo e l'aver accidentalmente ingerito alcune piante velenose. Nel vecchio autobus, accanto al cadavere, furono ritrovati numerosi appunti da lui scritti, una macchina fotografica con cui aveva effettuato degli autoscatti, una borraccia di plastica verde, alcune pastiglie per purificare l'acqua, un paio di pantaloni imbottiti, guantoni di lana, una bottiglia di repellente per insetti, un cilindro consumato di burrocacao, una scatola di fiammiferi, un paio di stivali in plastica marrone e alcuni libri di autori quali Tolstoj e London. 
A questo proposito ho letto il libro di Jon Krakauer dedicato allo sfortunato ragazzo: "Nelle Terre Estreme". 
Il percorso visione film/documentazione in rete/lettura libro è spesso seguito da chi, come me, desidera approfondire e capire a fondo la vicenda. Lo stesso film suggerisce un rimando di questo tipo quando, prima dei titoli di coda, ci mostra una foto del vero McCandless con una didascalia che ci informa dei fatti successivi. 
La personalità di Chris presenta molteplici sfumature e risulta essere davvero complessa. 
La prima cosa da dire è il rifiuto di ogni forma di autorità. Da ciò deriva la totale avversione per i genitori e il disprezzo per le istituzioni e le convenzioni. Non a torto Krakaeur nel suo libro arriva a dire che Chris non detestava i suoi genitori in quanto tali, ma detestava la figura stessa del genitore.
Deluso dal profondo materialismo dominante nel mondo, ma soprattutto in una società capitalistica come quella americana, dimostrava di rifuggire la civiltà persino nelle cose meno importanti (indossava le scarpe senza i calzini). La rabbia che Chris aveva nei confronti della società americana è la stessa che ha portato molti altri giovani americani come lui a compiere gesti estremi anche più del suo. 
Si potrebbe dire che era un disadattato, un asociale, ma si tralascerebbe il fatto che aveva molti amici ed era comunemente considerato simpatico. Inoltre aveva grande capacità di relazionarsi con gli altri e chiunque fu interrogato come testimone, per aver incontrato Chris, serba di lui un bel ricordo. Come ad esempio Mary la madre di Wayne Westerberg, agricoltore che prese McCandless a lavorare nella sua azienda.
Due giorni prima della sua partenza Mary invitò il ragazzo a casa sua per cena. «A mamma non piace granché la gente che lavora per me» racconta Westerberg «e non era molto entusiasta nemmeno di incontrare Alex [il nome fittizio di Chris, nds]. Solo che l'avevo tormentata che doveva vederlo, doveva conoscerlo, così alla fine l'ha invitato a casa. Nel giro di due secondi andavano già d'amore e d'accordo e non hanno chiuso bocca per cinque ore». 
«C'era qualcosa di affascinante in quel giovane» spiega la signora Westerberg, seduta al lucente tavolo in noce su cui quella sera aveva cenato McCandless. «Mi colpì perché sembrava molto più vecchio dei suoi venti-quattro anni. Qualsiasi cosa dicessi, voleva saperne di più [...]. A differenza di molti di noi, era quel genere di persona che si sforza di mettere in pratica quello in cui crede. Passammo quattro ore a parlare di libri, e non c'è tanta gente a Carthage a cui piaccia farlo. Parlò e riparlò di Mark Twain e, santo cielo, quanto era divertente come ospite. Ricordo di aver desiderato che quella serata non finisse mai e non vedevo l'ora di rivederlo quest'autunno. Non riesco a togliermelo dalla testa, continuo a rivedere la sua faccia». 
E non era totalmente alieno dall'universo femminile: sappiamo che al college tentò di portare in camera una sua compagna e, quando si trovava nell'accampamento di Oh My God Hot Springs ( si si, chiama così...), passò una settimana a stretto contatto con una ragazza che era accampata con la roulotte della sua famiglia, senza però mai consumare. E di questo siamo quasi certi: McCandless rimase puro fino alla morte, in un'austera verginità.

Emile Hirsch nei panni di McCandless
Non si sa se fosse impacciato o rigido asceta tendente alla castità eterna, di sicuro ( e secondo me a ragione) era nauseato dal modo ossessivo in cui l'argomento sesso viene affrontato nella nostra società. Si insomma va bene che siamo animali, però esistono altri piaceri e altre bellezze che vanno oltre il sesso (parafrasando una frase di Al Pacino ne "L'avvocato del diavolo": «il sesso è sopravvalutato, biochimicamente non è diverso da una grande scorpacciata di cioccolato»). 
E così deve averla pensata il giovane laureato, quando decise che avrebbe goduto di un altro piacere che la vita ci offre: vivere a contatto con la natura. 
Oltre ad essere profondamente anticonformista Chris aveva una naturale propensione ad isolarsi. Sembra una contraddizione, ma forse ha ragione Krakaeur quando dice che lui era un tipo che amava la compagnia, ma a piccole dosi, dopodiché sentiva la necessità di tornare sulla sua collinetta a riflettere in pace per i fatti suoi. 
Altra caratteristica assieme all'individualismo determinante ai fini della comprensione della sua vita, e ancora di più della sua morte, era la grande determinazione emersa fin da piccolo, come quando per poter mangiare delle caramelle, penetrò di notte nella casa del vicino, lontana sei isolati dalla sua, per rubargliele dal cassetto. 
Perciò ora è più facile capire perché un ventiduenne con grandi prospettive ed un'intelligenza acuta abbia deciso di mollare tutto (persino il suo nome: adottò il nome di Alexander Supertramp) e partire per il nord, fino ad arrivare in Alaska e al famoso Magic Bus. 
Difficile capire però perché vi rimase fino alla lenta morte. 
La risposta è semplice: incoscienza e sfortuna
Incoscienza perché si presentò in quell'ambiente con scarse provviste e ancora più scarsa attrezzatura; ma soprattutto non si curò di portare con sé né bussola né mappa topografica. Altrimenti nel periodo di stenti e fame, si sarebbe ben avveduto di accorrere ai rifugi sparsi intorno alla sua zona, in cui avrebbe trovato provviste. Oppure al momento di fare dietrofront avrebbe saputo che, per attraversare il fiume, a meno di un chilometro, si trovava una cesta metallica che lo avrebbe aiutato a farlo. 
Vi chiederete come abbia fatto all'andata: semplicemente era arrivato in primavera, quando i ghiacci sono ancora intatti, e decise di tornare in dietro verso l'estate, quando v'è il disgelo e il ruscello, che aveva guadato senza difficoltà mesi prima, si era trasformato in un torrente impetuoso
A questo punto interviene la sfortuna. A fine luglio, ormai a corto di cibo (nonostante riuscisse a cacciare molte prede, esse erano spesso di piccola taglia, perciò le calorie acquistate non compensavano quelle spese) inizia a nutrirsi di una patata selvatica, pianta nota come hedysarum alpinum
Nel suo manuale di botanica era riportata come pianta commestibile. In realtà solo successivamente si è scoperto che contiene una quantità di tossicità che ha come effetto di impedire l'accumulo di energia a livello di organismo. Perciò anche se avesse cacciato e mangiato, avrebbe assimilato poche calorie. 
Fu così che arrivò a quel 18 agosto del '92. Molti ritengono che la scelta di McCandless, il suo ideale di purezza fossero qualcosa per cui vada glorificato e innalzato ad eroe; si sottolinea una filosofia di vita che, paradossalmente lui stesso, alla fine probabilmente ripudiò
Ciò è testimoniato dal suo voler tornare indietro dopo 60 giorni in Alaska, dal messaggio di aiuto scritto il 12 Agosto: « S.O.S. Ho bisogno del vostro aiuto. Sono malato, prossimo alla morte, e troppo debole per andarmene a piedi. Sono solo, non è uno scherzo. In nome di Dio, vi prego, rimanete per salvarmi. Sono nei dintorni a raccogliere bacche e tornerò stasera. Grazie»; nonché dalla nota a margine che scrisse in uno dei suoi ultimi giorni di vita: «Felicità è vera solo se è condivisa». 
Alla fine Chris capì che il bello della vita è poter condividere le proprie emozioni con gli altri, soprattutto con le persone a noi care, che tanto detestava (anche se aveva uno splendido rapporto con la sorella), ma che forse, se fosse sopravvissuto alla sua maturazione, avrebbe imparato ad apprezzare. 
Ci lasciò con un messaggio semplice: «Ho avuto una vita felice e ringrazio il Signore. Addio e che Dio vi benedica». Chris McCandless ha incarnato un spirito di totale libertà. Che un Dio benedica te.

Chris con in mano il biglietto d'addio
Habemus Judicium:


Bob Harris

martedì 1 marzo 2011

LA SCHIAVITÙ DEL MANICHEISMO IMMAGINARIO

Vi è mai capitato di pensare alla contrapposizione netta tra due entità? 
Alla giustificazione logica da attribuire ad una divisione così netta operata dal linguaggio? 
Quando si può chiamare un cosa grande o piccola; pessima, discreta, ottima o straordinaria, facendo corrispondere la definizione linguistica con la realtà ontologica? 
Non scervellatevi in inutili elucubrazioni mentali, perché vi anticipo subito che una risposta a questo quesito non esiste! Noi tendiamo a performare la realtà in una schema cognitivo strutturato sulle parole, per semplificarne la comprensione. 
La nostra è una semplice “fictio veritatis” utile, probabilmente indispensabile, allo sviluppo della nostra conoscenza, ma di certo non aderente, o meglio coincidente con la realtà dei fatti nella loro essenza contingente. Non si deve correre il rischio di confondere dunque ciò che noi chiamiamo come tale, con ciò che esso sia realmente. 
Purtroppo però fin troppo spesso l’istintuale propensione dell’uomo a sentirsi possessore della verità ed al contempo fondatore di essa, lo porta a confondere ciò che pensa sia, con ciò che è: deontico ed ontico si fondono dissolvendo le loro rispettive caratteristiche distintive.
”Eh beh allora”, direte, “tutto qui, si commette un piccolo errore di semiotica filosofica!”, “e a chi può importare! A Huxley forse? Tanto è morto!”. 
No signori, non è solo un problema di speculazione filosofica, perché le conseguenze di quello che ho sopra esposto sono pesantemente incidenti nella vita sociale di tutti i giorni e spesso purtroppo in modo assai negativo… 
Vi siete mai chiesti dove risiedano le basi del razzismo, della discriminazione del pensiero, dei costumi, della religione? Esatto! (per i più svegli). Come non lo avete ancora capito?! (per i meno svegli). 
Nella insensata convinzione che quello che si crede giusto o vero, lo sia indiscutibilemente nella realtà, per ragioni… Ragioni… Ma quale ragioni! 
Per semplice limitatezza mentale e presunzione di onniscienza, in casi ancor più disperati! 
Ecco che allora con la stessa spontaneità con cui un fungo tira fuori il cappello da un umido terriccio nei pressi di una grande quercia in una giornata soleggiata, che la spaventosa ombra dell’ottuso manicheismo si paventa alle porte della nostra civiltà. 
Pensando al manicheismo, oltre che ovviamente al predicatore-teologo della Persia di inizio terzo secolo, Mani, fondatore della religione manicheista, per l’appunto, la mente corre all’icastica contrapposizione tra Luce e Tenebre, Bene e Male, Divino e Demoniaco. 
Allora effettuando un ulteriore passo avanti possiamo provare a capire le ragioni per cui l’uomo abbia deciso di interpretare la realtà caratterizzandola, quasi obbligatoriamente come buona e cattiva, con particolare attenzione al concetto di Dio E Demone, molto caro alla nostra, di certo non mia, cultura cristiana. 
L'uomo ha creato l'idea di Dio per fortificare la propria conoscenza e glorificare la propria idea di bene, sopra le ragioni degli altri uomini. Ha creato poi l'idea di Demone per legittimare la trasgressione e giustificare la sua propensione verso quello che ritiene il male. 
La tensione di sconfinata libertà ed edonistico piacere si fonde con la confinata sicurezza della privazione e del dolore. Per assurdo si giunge così, partendo da una propensione istintuale che dovrebbe portare ad una semplificazione della conoscenza, all'aberrazione della realtà! 
La trasposizione del pensiero discriminatorio in comportamento discriminatorio, affonda poi le proprie radici nella idiozia della paura di essere uguali e diversi da sé stessi e dagli altri. Sono la volontà di compenetrare noi stessi con tutta la realtà e la paura del cambiamento della realtà, che come già detto non può certo essere coincidente con la immobile idealizzazione che di essa si fa. 
Solo quando ogni uomo prenderà coscienza della bellezza della libera perfettibilità dell'essere ed accetterà serenamente l'imperfetta manifestazione della contingenza, che trova luce nel dubbio gnoseologico della ragione, allora libererà sé stesso ed il mondo dalla schiavitù delle sue divinità e dei suoi demoni. 
Ok, la finisco di scimmiottare Albert Camus, ma ricordate curiosi lettori, che come diceva il filosofo inglese di inizio ventesimo secolo Thomas Dewar, “La mente è come un paracadute – funziona solo se è aperta”: non dimenticate di tirare la cordicella allora!

Adamantine Ego