martedì 22 novembre 2011

ALLO STADIO NON ANDARE,LA PAY-TV DEVI PAGARE

Coreografia della Curva Sud di Domenica sera ( 20/11/11 ) durante la partita Roma-Lecce
Dopo la Tessera del tifoso ed il D.A.Spo si torna a parlare di calcio. Ancora una volta ad essere oggetto della nostra cronaca non è il risultato ed il bel gioco, ma ciò che accade sugli spalti.
Domenica sera i tifosi presenti in Curva Sud, al fischio di inizio di Roma-Lecce, hanno dato vita ad una delle più classiche coreografie: tanti cartoncini tirati su che colorano il settore.
I telecronisti hanno sottolineano il fatto, il bello del calcio è anche questo.
Ed hanno ragione. La prima volta che entrai allo stadio Olimpico con mio padre, ero un bambinetto, dopo il manto erboso fu quello che succedeva in curva ad attirare le mie attenzioni. Le bandiere, il rumore martellante dei tamburi (all'epoca ancora in voga), le coreografie, i fumogeni, i cori; il me bambino vedeva in quella frenesia collettiva lo spettacolo nello spettacolo. 
Tutto giusto no?
Peccato che una volta spenti i riflettori emerge un triste retroscena.
Coloro che hanno portato i cartoncini all'interno dell'impianto sportivo, vengono fermati dalle solerti F.d.O che gli comminano a tutti una multa di 172 euro.
Il motivo? Quei cartoncini hanno violato le norme sulla sicurezza.
In tv, nei vari programmi sportivi, ci si lamenta che gli stadi siano sempre vuoti.
Mai e poi mai però si vede il perché. Si parla genericamente di violenza, ma si dimenticano altri elementi fondamentali per la discussione. L'introduzione del biglietto nominale, che mira a garantire maggiore sicurezza nei complessi sportivi, ha complicato non poco le cose; provate a portare un minore allo stadio, si apre un processo burocratico noioso e lungo che può solo scoraggiare il genitore.
Ed i controlli sacrosanti per garantire l'incolumità e la sicurezza delle persone, possono diventare, come in questo caso, uno strumento punitivo e quanto mai odioso. Il risultato è la ghettizzazione del tifoso, che viene allontanato irrimediabilmente dagli spalti; ed alla fine è tutta l'industria del calcio ad essere colpita: quanto è vendibile per le tv una partita con i seggiolini riempiti a macchia di leopardo?
Da queste piccole notizie si capisce come sia necessario un ripensamento della normativa e delle prassi domenicali. Impedire il sano colore non porterà da nessuna parte.
Thomas

sabato 5 novembre 2011

RIFLESSIONI SUL D.A.SPO

Secondo alcuni sociologi gli stadi, a partire dalla fine degli anni '80, sono divenuti dei laboratori sociali, luoghi in cui sperimentare nuove forme di repressione nei confronti di quei gruppi che si pongono in chiave antagonista rispetto all'ordine dello stato (sul punto cfr. "Il derby del Bambino morto" di Valerio Marchi, ed. DeriveApprodi).
Ciò sarebbe riscontrabile nella disastrosa gestione della piazza che si verificò durante il G8 di  Genova, dove, per le manifestazioni, si inaugurò l'uso del gas Cs, un lacrimogeno già a lungo sperimentato per la gestione dell'ordine pubblico negli stadi e che alcuni studi medici indicherebbero come seriamente dannoso per polmoni, fegato e cuore. 
Questa argomentazione oggi sembrerebbe essere suffragata da un'ipotesi tornata all'ordine del giorno dell'agenda politica italiana: l'introduzione di un un D.A.Spo per le manifestazioni politiche. 
Ma andiamo a vedere cosa si cela dietro questo acronimo.
Che la colpa fosse attribuibile ai cambi generazionali nelle curve o la scelta di affidare alla Digos la gestione dell'ordine pubblico negli stadi italiani poco importava. Fatto sta che nella parte finale degli anni '80 gli equilibri nelle curve italiane mutarono e si verificò un netto aumento delle violenze all'interno degli stadi. Lo stato cercò di rispondere al problema con il D.A.Spo., una misura preventiva specifica prevista nella Legge 401/1989, che di li a poco sarebbe diventata lo strumento per eccellenza per reprimere le manifestazioni di violenza durante gli eventi sportivi (vale la pena ricordare che la normativa negli anni è stata modificata più volte il legislatore, il quale ha esteso sempre di più la sua portata ed ha optato per un inasprimento dei provvedimenti previsti in origine). 
E cosa prevede questa misura preventiva?
In parole semplici vieta al soggetto, che ha tenuto condotte pericolose e violente, di accedere a luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive per un periodo da 1 ad un massimo di 5 anni; la diffida può essere accompagnata da un ulteriore provvedimento che impone l'obbligo di presentazione ad un ufficio di polizia nel momento in cui la stessa si sta svolgendo.
Certamente la diffida negli anni si è dimostrato, per lo stato, uno strumento valido e semplice da utilizzare per allontanare gli indesiderabili
Ma a quale costo avviene ciò? 
La diffida viene comminata direttamente dal Questore sulla base di una semplice denuncia ed in assenza di un processo. Per l'atto di notifica in capo al Questore non sussiste l'obbligo di riportare i fatti specifici che lo hanno spinto a prendere in considerazione tale provvedimento. 
Ma c'è di più. E' inutile fare ricorsi, questi non sospendono il provvedimento. 
Un ulteriore elemento che lascia interdetti si può poi riscontrare all'interno della casistica giurisprudenziale. In numerosi casi i tifosi colpiti da diffida sono costretti a scontare per intero la loro diffida senza che il processo giunga al termine e, sempre dalla giurisprudenza, emergono non pochi casi in cui questi vengono riconosciuti innocenti dal giudice. Appare evidente, anche per chi non ha troppa dimestichezza con il diritto quanto la misura preventiva possa incidere sulla libertà personale del soggetto, e sopratutto come possa divenire uno strumento afflittivo e punitivo che anticipa e si muove indipendentemente dalla tutela data dal giudice terzo.
A questo punto giunge un ultimo quesito: il D.A.Spo. può essere considerato un valido strumento da estendere alle manifestazioni politiche?
Per chi scrive la risposta non può che essere negativa. Si rischierebbe una contrazione troppo ampia delle libertà costituzionali  e si estenderebbe ancor di più la discrezionalità decisoria di chi dovrebbe gestire solamente l'ordine pubblico; la funziona giurisdizionale si degraderebbe in modo odioso.
A suffragare questa idea ci vengono in aiuto altri corollari come la genericità e l'estensione interpretativa del testo normativo che, negli anni, ha permesso di diffidare anche coloro che non commettevano un atto da considerare violento. 
Così ad esempio sono stati colpiti da D.A.Spo. tifosi che hanno scavalcato una vetrata per spostarsi di settore (per carità, atteggiamento da sanzionare ma non in questo modo), chi ha acceso i fumogeni, oppure, cosa accaduta di recente, a chi ha alzato cori contro l'attuale Ministro degli Interni Roberto Maroni (il fautore della Tessera del tifoso). Dalla casistica emerge dell'altro. La diffida, dice la normativa, scatta per il possesso di armi improprie; beh cosa buona e giusta. Peccato che nella categoria, a causa di interpretazioni esageratamente estensive, sono state fatte rientrare oggetti come mazzi di chiavi troppo grandi, accendini ed aste di bandiere.
La diffida negli anni si è presentato come uno strumento odioso, una misura dal chiaro tenore afflittivo e capace di limitare la libertà personale in assenza di una pronuncia derivante dal giusto processo.
Alcuni potrebbero obiettare sottolineando che siamo in presenza di un'emergenza difficilmente arginabile per via giurisdizionale a causa delle lungaggini processuali. Il D.A.Spo. di piazza si presenterebbe come strumento necessario di cui non si può far a meno.
Aldilà della presenza di una vera e propria emergenza, questione piuttosto opinabile, questo discorso,  potrebbe portare a profonde distorsioni dell'ordinamento; basti pensare a ciò che accadde negli anni '70, quando in nome dell'emergenza, la custodia cautelare in carcere venne ampliata a tal punto (sino ai 12 anni nei casi limite) da divenire una chiara ed incostituzionale anticipazione della condanna.
La pecca più grande inoltre risiede nel fatto che, per risolvere problemi in seno all'ordine giudiziario, si trova una soluzione che va a scaricarsi totalmente su quei soggetti che dovrebbero ricevere la tutela giurisdizionale.
Alla luce di tutto ciò, è facilmente ipotizzabile che uno strumento siffatto porterebbe a problematiche ancor più serie se esteso al mondo delle manifestazioni politiche, dove la posta in gioco è certamente più grande.
Di questi tempi non resta che sperare l'instaurarsi di una discussione politica seria sull'argomento che porti a comprendere l'insostenibilità di questo strumento per le manifestazioni politiche, visto che già si è dimostrato tale per quelle sportive, un ritorno al  buon senso, quello sconosciuto.
Thomas

giovedì 3 novembre 2011

"LILLY" E LE ALTRE: IL VENDITTI DEGLI ANNI '70

«Antonello era barbuto, sempre col montgomery, gli occhiali e la paranoia che gli si toccassero i capelli e il culo. Giorgio aveva sempre caldo e stava sempre in camicia, bianca e pulita. I capelli ricci, un testone alla Angela Davis e gote rosse. Francesco poca o nulla barba, un impermeabile largo del babbo con bavero alla “provaci Sam”, una pipa spenta, tante letture esulcerate e allegoriche, la voglia inesausta di imparare “il finger picking” dal fratello “hobo” Luigi. In più “tirava” la bocca come il suo mito di Duluth, piaceva alle bimbe anche se era timido e lottava per non soggiacere mai alle imposizioni di quel fetente stalinista dell’Ernesto al quale, per via di cinque anni in più, il “boss” Cesaroni aveva dato il compito di tenere tranquilla e composta la banda» 
-Ernesto Bassignano ricorda i Giovani del Folkstudio-

Incipit. Tra Ofelia ed il Folk Studio
Venditti, De Gregori, Edoardo e Stelio al Folkstudio
«Annamo via, tenemose pe'mano, 
c'è solo questo de vero pe'chi spera, 
che forse un giorno chi magna troppo adesso 
possa sputà le ossa che so' sante»

Per capire il primo Venditti bisogna svuotare la testa, dimenticarci delle alte maree, del mondo di ladri e degli inni un tanto al chilo, tornare indietro nel tempo e calarsi in un paese che non c'è più, fatto di giovani che chiedono l'impossibile, di tute blu, di piazza Fontana che apre la stagione più buia della nostra repubblica, degli indiani metropolitani, di inchieste che impattano inesorabilmente su muri di gomma.
Siamo in via Garibaldi a Trastevere ed è il 1960. Al civico 59, in una cantina senza troppe pretese, il musicista e pittore Harold Bradley mette su il proprio studio. Venditti è un 11enne in sovrappeso figlio della burocrazia romana ed ancora non sa che lì sta per accadere qualcosa che cambierà il suo futuro.
Attorno a Bradley cominciano a ruotare numerosi artisti e quello studio si trasforma ben presto in un luogo di incontro in cui a parlare è la musica: nasce così il Folkstudio. Si respirano le influenze dei nuovi ritmi d'oltreoceano e nel '62 sbuca fuori anche il menestrello di Duluth; è di passaggio, deve andare dalla fidanzata Suze Rotolo che sta Perugia. E' ancora un signor nessuno, il suo nome non sta neanche sulla locandina della serata e si mette a strimpellare davanti ad una ventina di spettatori.
Nel '67 cambia la guida: Bradley torna negli States e lascia tutto nelle mani del socio-amico, un chimico che va pazzo per musica e cavalli: Giancarlo Cesaroni. Il passaggio di consegne rimane immortalato nel simbolo del locale, una mano bianca che stringe una nera.
Il Folkstudio muta profondamente: Cesaroni punta sulle nuove proposte, allaccia rapporti sempre più stretti con la stampa e crea una propria etichetta. Lui ci crede fermamente nella musica. Come forma d'arte e di intrattenimento, ovviamente, «ma anche come forma d'espressione sociale: reclutava musicisti che avevano qualcosa importante da dire, molti dei quali erano giovani italiani che componevano canzoni politiche, sociali e di protesta». Con tutto l'entusiasmo dell'inconsapevolezza, Cesaroni tira su la casa per la futura Scuola Romana.
Qui suonano Mimmo Locasciulli, Edoardo De Angelis, Luigi Grechi, Stefano Rosso e Rino Gaetano. Partecipa attivamente Giovanna Marini, immensa interprete della musica popolare italiana. Ci passa Guccini che registrerà qui parte della sua "Opera Buffa".
E si forma anche un quartetto che, con poca fantasia va detto, assume il nome di Giovani del Folkstudio: sono Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Ernesto Bassignano e Giorgio Lo Cascio, i «quattro ragazzi con la chitarra ed un pianoforte sulla spalla» immortalati nel 1984 in "Notte prima degli esami".
Ecco, dopo tanto parlare arriviamo finalmente a quel ragazzo che già si contraddistingue con i suoi occhiali ed il pianoforte sempre al seguito.
Venditti si fa le ossa al Folk, si appropria del pianoforte, sino ad allora strumento usato solo dai jazzisti del Folk, e con enorme dispiacere dei genitori che sembra lo preferiscano impiegato, riesce a fare il grande salto. Siamo nel 1972 ed a fargli compagnia è l'amico/collega Francesco De Gregori: la casa discografica It opta per uno split; le ragioni sono più di natura economica che artistiche.
Il titolo un misterioso "Theorius Campus" che può significare tutto e niente. In copertina l'Ofelia shakespeariana che, nel 1852, il pittore Millais aveva immerso in un canale brulicante di erbacce. Il nome di Venditti e De Gregori lo si trova solo sull'etichetta incollata sul vinile.
E tra i due è Venditti ad attirare più attenzione: una voce piena e potente, una scrittura che lavora per immagini, diretta e che colpisce subito al primo ascolto. Poi, al suo interno, piazza due brani che entreranno a pieno nel suo repertorio: "Roma Capoccia", dichiarazione d'amore verso la sua città, pennellate in cui far riecheggiare parole che sembrano essere uscite dal Belli; e "Sora Rosa" carica di rabbia cristallina e di quel fanciullesco desiderio di comunanza che lo accompagnerà per tutta la carriera, una rivolta che avrebbe ispirato Tomas Milian per il Gobbo, la sua più convincente caratterizzazione; leggenda vuole che Venditti le abbia scritte nel 1963 alla tenera età di 14 anni.
Meritevole di menzione l'esistenziale ed allucinato trip di "Ciao Uomo", dialogo tra due astronauti che senza troppa ragione, si metto all'inseguimento del bagliore di una cometa che viene dall'est. Nonché il delicato duetto alla Simon e Garfunkel di "Dolce signora che bruci".
L'amico è più timido ed acerbo ma lascia intravvedere le prime tracce del suo linguaggio artistico nella fiaba folk "Signora Aquilone" e nell'allucinazione fatta di parole, flauti e moog de "La Casa del pazzo".
"Theorius Campus" non se lo filerà nessuno è vero, ma aprirà le porte a due piccole grandi storie del nostro cantautorato.
Ognuno va per la sua strada, come è normale che sia.
Passa un anno e la It dà alle stampe: "L'orso Bruno". Opera in parte acerba, sarà fortemente influenzata dall'imposizione della casa discografica di arrangiamenti quanto mai barocchi: l'obiettivo è fare di Venditti l'Elton John trasteverino. Il cantautore romano non apprezza molto il risultato, è sovraprodotto, roba da Festival di Sanremo avrebbe apostrofato qualche tempo dopo; non si può dargli torto, pezzi notevoli come "Il mare di Jan" annegano nella pomposità. Nel mezzo spicca "L'ingresso in Fabbrica", ultimo brano scritto a quattro mani con l'amico De Gregori: lei è perfetta nell'arrangiamento, nell'interpretazione misurata, nelle sue immagini cinematografiche fatte di labbra senza rossetto, di 850 grigio topo e di occhi che piangono speranze in bianco e nero.

Da Mariù a Lilly, il triennio d'oro
Da "Quo vadis" (1951) di Mervyn LeRoy
«Brucia Roma, brucia Roma co' li romani
brucia Roma, brucia Roma co' li cristiani
brucia Roma, brucia roma er parlamento 
brucia Roma, brucia Roma cor Papa drentro»

Il ragazzo occhialuto è un fiume in piena.
Lascia la It, passa alla RCA, la sede naturale della musica d'autore di quegli anni, e si mette sotto l'ala protettiva di Ennio Melis, forse il più coraggioso e geniale discografico dello stivale.
E' stato colui che ha risollevato le sorti della RCA e lo ha fatto nel modo più rocambolesco possibile: un agente gli segnala tale Vincenzo Micocci, uno che si paga gli studi lavorando in un negozio di dischi, Musica e Radio, sito in via delle Convertite a Roma. Questo giovanotto ci sa fare, è uno che vende molto di più rispetto alla concorrenza. Melis lo prende e lo fa direttore artistico della RCA. Insieme raccatteranno una banda di giovinastri da portare al successo e con i quali cambiare il linguaggio musicale italiano. Da questa esperienza, la premiata ditta conierà un termine che caratterizzerà per sempre il nostro linguaggio musicale: cantautore.
Ma torniamo all'occhialuto ed evitiamo ulteriori inutili divagazioni.
Siamo nel 1973 e Venditti vuole dare una profonda sterzata alla sfarzosità dell'Orso: si chiude in studio di registrazione per due giorni e due notti, o almeno così ci viene narrato, e manda letteralmente a fanculo Elton John (chiedo venia Sir).
Di una band manco l'ombra, solo vocepianoforte e gli archi metallici/sintetici di un organo Eminent; Antonello gioca a fare il piccolo Kraftwerk e sforna "Le cose della vita", LP che non ti aspetti: lontano dalle mode, plumbeo, glaciale e profondamente nichilista.
In copertina c'è semplicemente il suo faccione che fissa l'ascoltatore.
Venditti si riappropria de "Li ponti so soli", il racconto in romanesco di una vecchia clochard che muore; il brano, già presente nell'Orso, viene spogliato degli orpelli e la confeziona con un doppio accordo suonato con l'Eminent. Emerge quell'anima che prima si intravedeva solamente; less is more, quant'è vero. C'è la title track, a metà tra la deriva romantica che lo caratterizzerà per tutta la carriera ed un dialogo con lo spettatore; delicata e pura, rimarrà nel suo repertorio live.
Detto della dell'austerità compositiva, sono i testi ed l'impulsività, tanto nella stesura che nell'esecuzione, a dare quella marcia in più.
Significativa è l'apertura del disco: "Mio padre ha un buco in gola".
Un titolo alienato per un piglio quanto mai folle: Venditti punta il dito sulle angherie familiari, un percorso autobiografico che si fonda su un ritmo ossessivo, fatto di tasti (e legno) del pianoforte picchiati e da una voce che si altera sempre di più. La musica si stratifica, si carica di grottesco e porta all'apice: una camicia di forza strappata, le pareti irrorate di sangue e della famiglia non resta più nulla. Tra i migliori brani di quegli anni, il Buco in gola è l'esempio di come il nuovo cantautorato italiano cherchi vie alternative al linguaggio classico.
La musica si fa sempre più scarna e l'invettiva si allarga mostrando una propensione totalmente distruttiva. "Roma Brucia", ce lo ripete ossessivamente, ed il calore/odore del fuoco sale dal cuore della terra appestando tutto ciò che trova. Non sono passati neanche due anni dal "Theorius Campus", e di quella Roma da cartolina, fatta di quei quadretti turistici non c'è neppure l'ombra.
La città eterna mostra il lato più abietto, una madre che ti accoglie, ti mastica e ti sputa, che lo fa solo per ricordarti che se essa è sorta è stato solo per merito di un fraticidio. "Brucia Roma" si muove scarna su due accordi, veicolando tutta la leggerezza di uno stornello e tutta rabbia delle strade percorse dal piombo.
C'è "Mariù" che, cadenzata da un ticchettio di un metronomo, ci cala in una storia vouyeristica: un lui che si eccita guardando una giovane esibizionista intenta a denudarsi e masturbarsi alla finestra; la ben più celebre "Albachiara" arriverà anni dopo ed avrà la premura di chiudersi in stanza, lontana dagli occhi indiscreti. C'è lo scontro generazionale de "Il treno delle sette"; il conflitto di classe che in "Stupida Signora" passa dalle fabbriche alle lenzuola, una lurida storia di sesso dove una padrona usa sessualmente il suo servo. E soprattutto c'è "Le tue mani su di me" canzone d'amore che chiude eccezionalmente questa strana creatura e coglie il contesto di quegli anni: l'ideale che è il tutto, il pubblico e privato che si compenetrano e limitano a vicenda, lasciando un senso di amarezza ed inafferrabilità delle cose.
Solo 8 mesi e giunge un nuovo album: "Quando verrà natale". Nel frattempo c'è pure una condanna a 6 mesi per vilipendio alla religione di stato; il motivo la denuncia di solerte un maresciallo di polizia che inorridisce all'ascolto di "A Cristo" durante il concerto al teatro dei Satiri a Roma del 15 gennaio
Natale è il seguito ideale de "Le Cose della vita", scarno, arrangiamenti minimi, predominio del pianoforte e la stessa rabbia. E' un buon successo commerciale nonostante la presenza di brani poco vendibili come la post-apocalittica "Figli del del domani", dove un giro armonico scandisce l'interrogarsi di due esseri futuri sull'uomo, «macchina molto strana [che] non sorrideva mai» oramai estinta.
Ci lascia brani memorabili: la storia di "Marta", giovane studentessa/lavoratrice che deve tener testa alle rigidità di una società/famiglia patriarcale; tra i più intensi ritratti femminili della sua carriera, Marta è u brano crudo e disarmante eppure capace di esprimere la dolcezza del voler stare assieme. I «bambini [che] crescono bene/rubano sempre ma non tradiscono mai» di "Campo de Fiori", inno alla libertà scritto, dopo la condanna, davanti la statua di Giordano Bruno. Ed il pianoforte, lento e cadenzato, accarezza ed accompagna le parole.
Poi, e siamo nel 1975, è il turno di "Lilly".
Copertina rossa ed un volto femminile disegnato con dei ritagli di giornale.
Dentro solo sette brani, 41 minuti senza alcun riempitivo: a livello compositivo fa scacco matto. Poi, visto che pecunia non olet, è pure un successo commerciale: la title track raggiunge il primo nella classifica dei 45 giri; lo stesso avviene poco dopo per il 33 giri.
"Compagno di scuola", canzone sempiterna, ci fa respirare a pieni polmoni gli anni della scuola, fatta di amori ed illusioni. Dietro, davanti ed in mezzo, l'affresco di una generazione che sognava di rovesciare il mondo.
C'è poi quella bestia strana incisa sul lato B: "Lo Stambecco ferito"; 9 minuti funerei di voce e piano che immortalano un bracconiere pronto a schiacciare il grilletto per uccidere la sua preda; in coda un solo di due minuti di piano da brividi.
E' una storia di boom economico ed (in)giustizia proletaria. E' il racconto di Riva, ricco industriale dal gusto dandy che si diverte in ardite speculazioni finanziare e manda sul lastrico 18000 operai. E come lo stambecco fuggirà lontano dopo aver portato all'estero i suoi capitali ed aver trovato una nuova cittadinanza. Tornerà in Italia tra gli agi, senza scontare mai scontare la condanna per bancarotta fraudolenta aggravata. A salvarlo gli indulti e le amnistie.
C'è la title track, una ballata dal sapore country in cui il nome Lilly e gli accordi si ripetono ossessivamente: è l'arrivo di quella piaga che si sarebbe, di lì a poco, mangiata i movimenti prima e un'intera generazione poi. E questa piccola storia privata ce la fa vivere in prima persona.
Non sfigurano i pezzi minori.
"Santa Brigida", preghiera contadina in dialetto, orchestrata magistralmente da Nicola Samale e Giuseppe Mazzucca. La altre due ballate dell'album, l'acustica "Attila e la stella" che descrive la calata a Roma degli Unni, e "L'amore non ha padroni", che esprimeva il modo nuovo di parlare d'amore nel cantautorato italiano.
A chiudere questa pietra miliare c'è "Penna a Sfera", attacco ironico, divertito e tagliente su una stampa sempre più alla ricerca di polemiche e scandali. La dedica è al giornalista Enzo Caffarelli, che dalla rivista "Ciao 2001" qualche tempo prima aveva scagliato un doppio attaccato Venditti e De Gregori, colpevoli di una militanza politica che poco si confà all'agiatezza di un musicante; manco un giorno in miniera; manco due ore a fare i tornitori della Fiat; un trito argomento che costerà a De Gregori un processo popolare da parte degli autonomi al Palalido di Milano.
Ma questa è tutta un'altra (grigia) storia.
Meglio non perdere di vista il barbuto signore.

Explicit (una nuova storia)
«La musica è strana, promette regali che forse non ha»

Dopo "Lilly" ci saranno altri lavori ispirati.
Il 1976 sarà il il turno di "Ullallà" (1976), l'album politico di Venditti fatto di prostituzione e compromessi storici. In copertina torna il suo faccione, gli occhiali immancabili, la barba lunga ed un cappello che lo fanno assomigliare a Thomas Milian.
Le incisioni sul vinile donano un netto cambio musicale.
"Ullallà" gode di una notevole collaborazione, Ivan Graziani, Il Chitarrista Italiano, colui che, assieme a Bennato, porterà il cantautorato verso sonorità rock; Graziani lo avrebbe fatto senza timori reverenziali verso i giganti stranieri, portando sempre nell'animo la tradizione (e la provincia) italiana. La sua presenza mette all'angolo il pianoforte, al suo posto troviamo le chitarre ed arrangiamenti curatissimi.
"Ullalà" suona diverso.
"Ullalà" ha il sapore di una presa di coscienza.
Venditti allarga lo spettro del suo sguardo sulla società italiana: lo fa nella struggente "Canzone per Seveso", storia di una nube tossica di diossina liberata dall'ICMESA sulle case della Brianza; oppure "Jodi e la scimmietta", che col suo testo simbolico («un giorno vide il presidente/la sua stella d'oro sopra il petto/ e lui capì che lo doveva uccidere/ per ridare alla scimmietta un nuovo modo di vivere») e quelle chitarre calde avvolge sin dal primo ascolto.
Ma "Ullallà" segna la fine di un rapporto, quello tra Venditti e la RCA; il casus belli è il cambio del mixaggio avvenuto senza gli venga detto qualcosa. In realtà i rapporti sono già tesi da "Lilly" dove i discografici operarono una piccola censura preventiva in "Compagno di scuola": «quella ragazza che l'ha data a tutti meno che a te», gli suonava così male e la fecero trasformare in «filava tutti meno che te». Poi, la definitiva pietra tombale, ce la mette il mercato: "Ullallà" è un flop.
Trascorrono due anni, siamo nel 1978 ed è l'ora della nuova etichetta, la Philips, e di "Sotto il segno dei pesci". Il nuovo Lp nasce sotto una buona stella.
In copertina due pesci, uno blu ed uno arancione, su sfondo bianco.
In rilievo sono disegnati tutti e dodici i segni dello zodiaco.
Per questo album Venditti gode di collaboratori d'eccezione: gli Stradaperta, gruppo cult della sottocultura che aveva già incontrato in Lilly; poi Claudio Simonetti dei Goblin.
I Pesci sono la consacrazione artistica e commerciale del cantautore romano.
Vende un milione di copie e batte tutta l'agguerrita concorrenza. A resistergli saranno solo due fenomeni internazionali quali le colonne sonore di "Grease" e "Saturday Night Fever". L'album uscirà l'8 marzo, giorno del suo compleanno, e si intreccierà indissolubilmente con la cronaca, divenendo la colonna sonora di un Paese alle prese con il rapimento di Moro.
Svanita l'impulsività degli inizi, i Pesci godono di un rinnovato spazio dato all'intimità e da una certosina attenzione al prodotto finale: siamo dinnanzi all'album più curato e rotondo del cantautore romano.
Ci lascerà un inno generazionale, la title track, inizio e fine di un '68 troppo breve da dimenticare; "Bomba o non bomba", memorabile racconto on the road con De Gregori, un viaggio per l'Italia, fatto di facce, cronaca ed incontri; "Sara" ed il suo pancione, 4 minuti che saranno sempre a pieno titolo nella scalette dei live futuri. Ci donerà poi un terzetto, solo in apparenza figli minori, di un'intensità incredibile: le dolci scuse a “Francesco”, la crudeltà di“Giulia”, e la poesia che viene dal mondo proletario ed assume le sembianze di “Chen il cinese”, smarritosi per sempre nell'eroina.
Le vere perle dell'album sono loro.
A chiudere il cerchio uno strisciante ed anonimo figuro, "L'Uomo Falco" ed "Il Telegiornale", ironico affresco che riprende "Penna a Sfera" e preannuncia ciò che sarebbe diventato il mondo dell'informazione.
Lo stato di grazia termina qui.
Ai Pesci seguiranno "Buona Domenica" e "Sotto la pioggia".
Suoneranno a metà, tra brani riusciti (pensiamo a "Dimmelo tu cos'è", perfetta sintesi della sua poetica dominata da nomi ed immagini) ed altri meno; in ogni nota poi aleggia l'ombra della ex compagna Simona Izzo, un carico emozionale che imprime profondità ai pezzi più riusciti.
Nella Domenica ci lascerà una struggente instantanea di una Festa de L'Unità fatta di facce idiote ed i sorrisi tristi. E' l'Italia del compromesso storico, della fine di una stagione personale e collettiva. Tutto si dirada e rimane il pianoforte con due accordi da alternare ed il sax di Gato Barbieri che da solo vale l'acquisto dell'album, dice ciò che le parole non possono esprimere, incornicia, in tutta la sua emozione, qualcosa che sfugge per sempre. Che sia un ideale o l'amore poco importa. Rimane un senso di straniamento, un mare di interrogativi che non troveranno mai più una risposta.
"Modena" è un inno al contrario, il ritratto di una sconfitta personale e collettiva, una generazione che si accorge di non avere nient'altro da proporre. E' il brano più sentito, meglio suonato e caldo di tutta la sua carriera.
Live San Siro del 1992
Cambierà il paese e cambierà Venditti.
Siamo oramai negli anni '80 ed il cantautore romano si trasformerà in Antonello e basta.
Il passaggio lo segnerà con "Cuore", una virata dai toni decisamente pop, una manciata di singoli ("Notte prima degli esami", "Stella", "Ci Vorrebbe un amico", "Piero e Cinzia", "Qui") con cui, chiunque altro cantante, ci avrebbe costruito una carriera intera.
Cambieranno i suoni, sempre più sintetizzati e dalle melodie appiccicose, cosi come gli approcci. Rimarranno alcuni temi che di tanto in tanto ritorneranno timidamente, mostrando il tentativo di un autore che, nonostante tutto, cercherà di non rimanere definitivamente schiacciato da una realtà sempre più parcellizzata e vuota.
Si aprirà una stagione di successi, di certosine operazioni commerciali (pensiamo al Mondo dei ladri, che sembra avere scritto già in copertina il milione e mezzo di copie che venderà) e di stadi da riempire.
Cambierà il suo pubblico al punto di, siamo nel 1992 e nello stadio San Siro non ci entra neanche uno spillo, rimanere in silenzio, attonito, quasi sgomento nell'ascoltare il proprio idolo intonare lo "Stambecco ferito".
Di quello che sarà poco importa.
Alle spalle lascia una discografia piena di rabbia e passione, nomi, volti e storie minime da vivere in prima persona e raccontare in frammenti musicali dalla portata universale. Un percorso libero ed autentico che ha saputo dialogare, forse meglio degli altri, con il pubblico, certamente tra le massime espressioni di una stagione irripetibile.
Sono trascorsi quasi 40 anni da quella "Modena" ed anche la mia generazione sta per fallire. Ci ritroviamo in altri luoghi è vero, eppure le sedie vuote da cercare e la voglia di rimanere assieme, nonostante tutto, resisterà sempre.

«Un nuova tenerezza o un dubbio che rimane»

Thomas

mercoledì 2 novembre 2011

"INSIDIOUS": UN AZZARDO TERRIFICANTE

Sotto Halloween qual'è la cosa più divertente da fare? Alcuni di voi diranno mascherarsi e andare alle feste, altri suonare alle porte della gente ripetendo "dolcetto o scherzetto" (occhio a chi suonate...). Un classico di Halloween però rimane il filmozzo horror con abbondanza di pop corn al seguito. Optando per quest'ultima soluzione mi accingo ad andare al cinema a vedere "Insidious", horror di James Wan, il regista del primo Saw, incentrato sui soliti fenomeni paranormali e possessioni demoniache. 
Ok iniziamo. Dopo i primi venti minuti fotocopia di "Paranormal Activity", mi rendo conto che il film prende una deriva tutta sua: diventa uno strano incrocio tra "Amityville" e "Drag me to hell". Dunque, una coppia mono-espressiva  e altamente borghese, rimane offesa dal fatto che uno dei tre stupidissimi e scassaballe figlioletti (gli altri due un neonato e uno anonimo, che si segnala solo per la mancanza di un dente) è posseduto da un'entità strana. 
Tale entità assomiglia molto a Darth Maul di Star Wars Episodio I se, invece di essere interpretato da Ray Park, fosse stato interpretato da Nicolas Cage. Sto demone poi ha l'abitudine di limarsi continuamente gli artigli e di grattarli in giro: insomma una sorta di Freddy Kreuger
Esso in pratica viene da una dimensione parallela chiamata L'altrove, in cui vivono mischiati demoni e spettri. Il bello è che questi passano il tempo a ripetere continuamente gesti di quando erano vivi; a parte il nostro demone che possiede un mega appartamento con tanto di Hall e camera da letto imperiale, in cui, come detto, passa il tempo a limarsi gli artigli, limitandosi a qualche sortita nel mondo reale, ma giusto per narcisismo ed eccentricità (o forse spacconeria). 
Insomma queste presenze stanno al buio in attesa che un umano, capace di vagare in quel mondo astrale con l'immaginazione, si rechi da loro. Appena ciò avviene fiutano l'intruso, gli fanno bei sorrisoni da dementi e cercano di impossessarsi del suo corpo, per poter raggiungere la realtà terrena. Aggiungo che sono tutti cattivi e pazzi. Ora, che cosa se ne facciano di giungere sulla terra attraverso il corpo posseduto non si sa, cioè, nel senso, loro aspirano a fare marachelle in giro, in poche parole, compiere omicidi, stupri e altri reati, ciò che non si capisce è perché mai dovrebbero puntare a ciò. 
Si d'accordo sono violenti e malvagi, ma dopo un po' non so quanto convenga loro questa vita. Ad un certo punto per non essere sorpresi e smascherati dovranno condurre una vita umana, no? E' a quel punto che senso avrebbe la loro essenza terrificante? Vedresti un demone in fila alla posta o partecipare ad una riunione di condominio. Due palle, meglio che se ne stiano lì nell' Altrove, almeno stanno in mezzo a gente interessante e non convenzionale come loro. 
Ma, niente, non ascoltano. Perciò per tutto il film vedremo apparire questi spettri che, devo ammettere, sono inquietanti e ben realizzati; a ciò si aggiunge la bravura del regista che dosa le loro apparizioni magistralmente creando, anche grazie all'ottima colonna sonora ad archi, terrore e pathos fra il pubblico.
Un film che abbina idee geniali come queste ed altre (la presenza della vecchia nella foto è agghiacciante), a scelte di sceneggiatura senza senso o comunque ridicole: su tutte la presenza della vecchia medium autoritaria e onnisciente, i due acchiappafantasmi decerebrati e la maschera a gas.
Menate e lampi di genio si sfidano sul ring e sembrano equivalersi, sino al finale, spiazzante e spaventoso, che rialza definitivamente il giudizio complessivo sul film.
"Insidious" è un azzardo gradito, terrificante e con la giusta tensione, una visione consigliata a patto di chiudere gli occhi di fronte a certe trovate.

Habemus Judicium:


Bob Harris