lunedì 26 febbraio 2018

"I CANCELLI DEL CIELO" (1981) DI MICHEAL CIMINO

E perché vi ha fatto schifo amici americani del 1980? 
E perché quella nomination ai Razzie Awards? 
La lavorazione di "Heaven's Gate" è la la leggenda per eccellenza di Hollywood. Ancora oggi se ne parla come di uno spauracchio ed è divenuta espressione comune per definire una catastrofe produttiva. Ma quali furono le cause che portarono a tale nefasta considerazione?
Tutto, a quanto pare, ruota attorno alla personalità maniacale e ossessiva di Michael Cimino. Pare che il regista impose ciak infiniti per ogni scena, ritmi e condizioni quasi disumani, la macchinosa costruzione di scenografie e la demolizione delle stesse nel giro di una storta di naso, e un set la cui conformazione cambiava continuamente anche solo in base ad invisibili minuzie su cui si era fissato Cimino. 
Ma, se si parla di leggendaria gestazione, non basta quanto accennato. Partiamo dal fatto che Cimino era all'apice della popolarità, dopo aver sbancato, giusto pochi giorni prima, gli Oscar (5 su 8) con "Il Cacciatore". Siamo nell'epoca di quell'allineamento storico che fu la New Hollywood: produttori avidi si, ma che danno carta bianca agli  emergenti registi più talentuosi nel gestire le riprese dei film. Il ragionamento è: il film costerà tanto perché sarà girato con cura e maestria, secondo la visione di un grande autore. Ma non importa, perché il pubblico, proprio per questo, apprezzerà e accorrerà in massa al cinema.
Perciò, anche nel caso de "I Cancelli del Cielo", viene data piena libertà al regista. Solo che bisogna fare i conti con Cimino l'irriducibile. Le prime frizioni con la produzione si creano per la scelta di Isabelle Huppert: Cimino la impone a qualsiasi costo, nonostante non abbia convinto il suo provino, in cui l'attrice ha mostrato poca personalità e una conoscenza dell'inglese livello Magic English.
Il budget stabilito è inizialmente sui 4 milioni di dollari, ma per i motivi di cui sopra, lievita rapidamente a 8, poi a 20, poi a 40... In breve tocca i 44 milioni di dollari, cifra mai spesa nella produzione di un film, fino ad allora.
Il fatto è che la produzione si trova ad avere scashato già bei milioni e non può a quel punto fermare tutto, il film deve essere finito. È in ostaggio del regista. D'altro canto Cimino, tutt'altro che ammorbidito dalle pressioni esterne, ad un certo punto, anzi, chiude addirittura il set a produttori e giornalisti.
Quando le riprese terminano comincia l'incubo del montaggio: il film ha una durata di 5 ore e mezza. La produzione inizia a imporsi seriamente e Cimino, finalmente, si piega al volere dei superiori e passa mesi in sala di montaggio, fino a ridurlo a 3 ore e mezza. Bene, si arriva ad un'anteprima a New York. Il film annoia il pubblico e diviene facile bersaglio della critica statunitense. Viene sospesa la distribuzione.
Cimino va di nuovo in sala di montaggio e il risultato sono 145 minuti di pellicola.
Ridistribuito, il film diventa un flop clamoroso, stroncato da pubblico (3 milioni e mezzo di incassi) e critica americana. Bisogna dire che, invece, nel vecchio continente, si grida al capolavoro, ma, ormai, la macchina del fango ha portato a 40 milioni di perdite per la United Artists e al suo (quasi) fallimento.
Come se non bastasse, la New Hollywood termina il suo cammino esattamente qui: memori di questo disastro, d'ora in avanti i produttori metteranno un freno alle libertà creative dei registi, aumentando pressioni e ingerenze durante le riprese. Addio grandi budget al servizio dell'arte.
Infine, lo stesso Cimino rimase talmente deluso dagli eventi, che per 30 anni si addosserà le colpe del fallimento ed eviterà anche solo di pensare al suo bambino. Solo nel 2012 rivaluterà la sua opera e, finalmente, la presenterà al Festival Lumière a Lione con un montaggio effettuato secondo quella che era la sua idea originale.
Ora... Si è speculato tanto sul perché tutto sia andato così storto e alla deriva. Ma non vogliamo qui approfondire queste tesi, anche fantasiose, ma concentrarci sul film. Di sicuro due domande, dopo averlo visto, bisognerebbe farsele: come ci si può accanire contro una meraviglia del genere?
L'ambizione dell'opera risulta già dall'Incipit del film ad Harvard: ci sono campi lunghi riempiti da centinaia di comparse, scenografie certosine e maestose, e la messa in scena di un ballo, coordinata alla perfezione. Un'ellissi temporale di 20 anni sposta il film nel Wyoming.
Il protagonista è Averill (interpretato da Kris Kristofferson) maresciallo della contea di Johnson. Qui i poveri immigrati europei appena arrivati nella regione sono in conflitto con i ricchi baroni del bestiame organizzati nella Wyoming Stock Growers Association; i nuovi arrivati a volte rubano il bestiame per necessità. Nathan Champion (interpretato da Christopher Walken) è amico di Averill ed è assoldato dai baroni per vigilare sul bestiame ed uccidere i ladri. Nel corso di una riunione del consiglio, il capo dell'associazione, Frank Canton, informa i membri, tra cui Irvine (interpretato da John Hurt), dei piani di uccidere 125 coloni come ladri e anarchici.
Altro personaggio chiave è la tenutaria di un bordello, Ella (interpretata da Isabelle Huppert), oggetto dell' amore sia di Averill che di Champion. Anche lei è nella death list. Lo scontro è inesorabile.
Oltre ai nomi citati fanno parte del cast future stelle e volti noti come Jeff Bridges, Mickey Rourke, Willem Defoe (non accreditato comunque), Brad Dourif, Geoffrey Lewis e Anna Levine.
Presa di per sé la trama è racchiusa in uno scontro sanguinario e nelle sue premesse, il tutto inframezzato da un classico triangolo amoroso.
Non ci sono sussulti né colpi di scena: è un lento ed inesorabile avvicinarsi al bagno di sangue.
Isabelle Huppert si esprime in un inglese stentato e poco convinto, pur nella rigidità delle sue battute prefissate, ma la sua bellezza naturalmente esposta e il suo sguardo conturbante riescono comunque a suscitare potenti vibrazioni.
Tecnicamente parlando cosa aggiungere? 
Ogni sequenza è un pullulare di comparse, oggetti e abiti d'epoca, scenografie imponenti e paesaggi incantevoli.
Cimino a volte indugia un po' troppo su alcune sequenze (e sicuramente le parti che vedono protagonista Ella sono un po' più deboli); poi come al suo solito dà  grande spazio alle scene di ballo, qui numerose.
Ma la forza visiva di alcune sequenze colpisce ancora a distanza di 38 anni: Cimino alterna, nel riprendere, la caratteristica crudezza e minimalismo nel rappresentare la violenza, alla solennità dei campi lunghi dei paesaggi di frontiera.
In ciò è coadiuvato da una fotografia patinata, che sottolinea i cromatismi della natura negli ambienti esterni, gioca con gli effetti di luce in quelli interni, e verso la fine immerge lo spettatore in una coltre di fumo e polvere; l'immagine assurge ad una sorta di inferno in terra, coprendo e fagocitando una moltitudine di personaggi confusi nella mischia e resi indistinguibili.
"I cancelli del cielo" è un'epopea sommessa e fatalmente tragica.
Un film che, nonostante la brutalità e la primitività di alcune scene, riesce a trasmettere una grande nostalgia nello spettatore, per un'epoca che non ha mai vissuto e che si presenta così attraente.
La verità è che siamo di fronte a un'eredità di rara preziosità, una produzione mastodontica e sopraffina che, nonostante i tagli e lo stupro reiterato dei montaggi, racchiude un periodo storico in tutta la sua consistenza, grazie alla millimetrica accuratezza della sua ricostruzione: la storia non è un film in costume, non è un'opera manieristica; la storia, specie quella dell'America del melting pot, della mescolanza di etnie, di cui tanto ne vanno fieri i sostenitori dello stile di vita americano, è fatta di sangue, merda e sperma. È mossa dalla cupidigia di un uomo, dall'ambizione di un altro e dall'avidità di un altro ancora. Alla fine, a rimetterci tutto sono sempre i più deboli.
"Maledizione! Diventa pericoloso essere poveri, in questo Paese. Non ti pare?
Lo è sempre stato".
E i geni restano incompresi? 
No, non più.
So long, Michael.

Habemus Judicium:
Bob Harris

giovedì 22 febbraio 2018

A TUTTO CORTO #2: PAPERINO, BUGS BUNNY, IL MEIN KAMPF E GLI ALTRI. I CORTI DI PROPAGANDA DURANTE LA WWII

Da "Der Fuehrer's Face" (1943) di Jack Kinney
La sveglia che saluta romanamente. Croci uncinate che arredano ogni cosa. Paperino che dalla cassaforte tira fuori un chicco di caffè, si taglia del pane di legno e si gode una rapida lettura del Mein Kampf. Ma che succede al mondo Disney?
Servivano i quattrini semplice. In Europa, in pieno conflitto, non si potevano più esportare le produzioni cinematografiche ed il governo aveva bussato alle porte con una cassa piena di soldi. La proposta era semplice: si dovevano produrre cartoon che educassero gli americani alla guerra e che aiutassero a sconfiggere i nemici anche attraverso l'uso dei Mass Media. E quegli eroi disegnati, che le masse avevano imparato ad amare, erano perfetti.
Arrivano così i primi corti per rallegrare i militi al fronte. Per l'occasione i disegnatori prendono il personaggio più popolare, Paperino, gli affiancano una canaglia, Pietrone Gambadilegno, e lo piazzano all'interno di una base militare. Il risultato una lunga sequela di gag.
A farla da padrone è Jack King che firma alcune delle opere più celebri; "The Vanishing Private" (trad: "Il segreto Sparito"), distribuito nel corso del 1942, dove Paperino è alle prese con una vernice che rende invisibile gli oggetti e manda ai matti il sergente Gamba. L'anno successivo è la volta di "The Old Army Game" (trad: Il vecchio gioco delle armi") dove Pietrone andrà su tutte le furie per una fuga notturna dalla base militare del papero, il quale ritroveremo mutilato e con una pistola puntata sulla tempia in uno stato di delirio/disperazione; insomma non proprio la Disney a cui siamo abituati).
Sempre di Jack King è "Donald Gets Drafted" (Trad:"Paperino sotto le armi"), ossia come Paperino entrò nell'esercito. L'opera è di King è vero, ma l'influenza della mano di Carl Barks, ossia il padre dei paperi, è fortissima: scrive la sceneggiatura, firma il testo della canzone di apertura e disegna le ali di manifesti che Paperino vede lungo la strada mentre si reca all'ufficio di arruolamento.
Carl è un convinto pacifista. E' fermamente contrario all'intervento bellico degli States e non vede di buon occhio la virata militarista della Disney. E "Donald Gets Drafted" è lo specchio di ciò, un corto che deride apertamente la retorica e le politiche governative.
In scena viene portato lo scontro tra reale e sua rappresentazione. Da un lato, quei manifesti che promettono al soldato una vita glamour, fatta di onori, successi e belle donne. Dall'altro ciò che lo attende realmente: compiti ingrati ed un'insensata disciplina. Nel mezzo un'incredibile e divertente visita medica, in cui si vede quanto l'intento non fosse quello di valutare l'idoneità del soggetto quanto di accettare più reclute possibili.
Di tenore simile a questi lavori c'è "Private Pluto" (trad. "La recluta Pluto"), dove, durante l'addestramento militare del cane giallo, fanno la loro prima comparsa due odiose carognette: Cip e Ciop.
Si è in guerra è vero, ma questi lavori sono in pieno stile Disney: pieni di gag, bonari e mai con riferimenti troppo duri ed espliciti al clima che respirava in quei giorni.
Da "Victory Vehicles-I mezzi per vincere" (1943) di Jack Kinney
Si intrattengono le truppe quindi, ma a cambiare è anche lo stile di vita dell'americano medio.
E chi può spiegarlo alla popolazione? Facile, il buon Pippo in "Victory Vehicles" ("I mezzi per vincere"), un coacervo di gag ed ironia, a firma Jack Kinney, uscito nelle sale il luglio del 1943.
L'antefatto è il razionamento di petrolio, gomma e metalli, ossia tutti quei materiali che erano fondamentali per l'industria bellica. Il risultato è un Pippo alla ricerca di infiniti modi alternativi con cui spostarsi nelle grandi città senza auto. Intendiamoci tutte idee stupide ed inutilizzabili, nel pieno stile del cane antropomorfizzato, che ci portano alla soluzione regina: il pogo-stick.
Anche qui la guerra è sfumata, e per di più, come accaduto con l'arruolamento di Paperino, si respira quell'ironia che sembra mettere alla berlina le scelte governative nonché gli stessi corti di propaganda.
Ben diversi nel tono sono "The New Spirit", "The Spirit of 43" ed "Out of the Frying Pan Into the Firing Line".
Nel primo è il papero per eccellenza a farla da padrone, quanto mai ritroso nel pagare le tasse.
Ma una radio gigante, quasi antropomorfizzata, gli ricorda che la nazione ha bisogno di lui, delle sue «tasse per battere l'Asse». Paperino si convince, esce di casa a velocità supersonica, con un turbinoso coast to coast, giunge a Washigton a dare la sua parte.
E questa roba funziona! Si stimarono circa 60 milioni di spettatori; e c'è di più, una buona fetta di quegli spettatori si convinsero dell'importanza di dare il proprio aiuto alla nazione attraverso il pagamento delle imposte. Bye Bye evasione!
Passa un anno ed il copione del '43 è quasi identico. Sempre Paperino a farla da padrone. Un mucchio di banconote in tasca ed ancora il dubbio: godersi i propri guadagni o risparmiare per poter fare la propria parte nella guerra?
Stavolta non c'è nessuna radio, bensì due personaggi a contenderselo. Da un lato un dandy che invita allo scialacquo. Dall'altro un risparmiatore in kilt che quando lo vidi la prima volta mi fece sobbalzare dalla sedia: quello è Zio Paperone, o perlomeno il suo archetipo, che muove i primi passi nel mondo dei paperi (la prima comparsa ufficiale dello Zione avverrà nel corso del 1947).
Paperino è indeciso, poi però sul volto del bellimbusto compaiono dei baffetti inconfondibili e capisce quale è la giusta strada da seguire. I due Spirit sono un'incessante sequela di battute: «cedere alle tentazioni o fare buone azioni»; «per ogni dollaro sottratto alle tasse perderai un pò di dignità»; ed ancora, «spendere per l'asse o risparmiare per le tasse...»?
Poi ci si ritrova catapultati in un finale a dir poco muscoloso.
Fabbriche operative notte e giorni, metalli che si fondono, altoforni, cannoni, incrociatori giapponesi colpiti ed affondati, cimiteri di aerei nazisti abbattuti e la 5a del Ludovico Van che fa capolino. Diamine. Una propaganda becera, sciovinista ed imperialista ma messa su dannatamente bene!
Ma la guerra interessa tutti, anche l'altra metà del cielo.
Ed ecco che in "Out of the Frying" a parlare alle casalinghe ci pensa Minnie (coadiuvata dallo scodinzolante Pluto); ci ricorda che il grasso da cucina non deve esser sprecato; ci mostra un'immagine bizzarra in cui questo viene versato in un imbuto e ne esce sotto forma di proiettile; ci spiega che questo contiene glicerina, e quindi è un' importante risorsa per dare una sonora pedata nelle terga ai nazisti ed aiutare anche il suo Topolino che vediamo in foto, sorridente, al fronte. Ed anche qui fa capolino la stessa potenza bellica incontrata in precedenza, fatta di cannoni che sparano per la libertà a non finire...
Va però detto che non tutti i corti nati in quel periodo si contraddistinguono per la qualità. Talvolta si ricicla roba vecchia; avviene con "All Togheter", una parata, o meglio un'accozzaglia di personaggi ritagliati da altri lavori ed incollati per invitare il pubblico ad acquisire i titoli di guerra canadesi; oppure "I tre porcellini" con un lupo nazistizzato ed i mattoni che si trasformano in solidi titoli di stato a stelle e strisce.
Da "Der Fuehrer's Face" (1943) di Jack Kinney
Ed in questo marasma creativo ci sono delle vere icone dei corti di propaganda.
Tra questi c'è "Der Fuehrer's Face" (1943), l'opera con cui abbiamo aperto questo post e con il quale Paperino si portò a casa il suo primo ed ultimo Oscar nel 1944. La Faccia del Fuhrer è da vedere ed avere per il suo valore artistico e storico, c'è poco da fare e dire.
Una piccola banda musicale irrompe nella scena. Si vede Hiroito. Mussolini alla grancassa. Goering che suona l'ottavino. Goebbels al trombone. Himmler al rullante.
Tutto è stereotipato, grottesco ed esilarante. Dalla marcetta anglo-tedesca che deride l'ideologia nazi-fascista ed il suo culto verso il capo, alle fattezze dei personaggi dai tratti esagerati, sino ai movimenti sincopati e astrusi  (ah, quel tondeggiante Goering che sculetta sorridente). Tutto attorno un ambiente ornato da croci uncinate in cui anche gli animali si dilettano nel saluto romano.
E dopo la sveglia, si passa alla giornata giornata tipo di un Paperino alle dipendenze dell'industria bellica nazista, cadenzata da un'infinita catena di montaggio dove, tra un proiettile e l'altro, è costretto a vivere un slancio esilarante nei continui omaggi al Führer. Segue una ginnastica astrusa, perché si sa che il culto del corpo viene subito dopo quella del capo, ed il riposo dinnanzi ad un poster delle Alpi Bavaresi, capace di donare sempre grandi emozioni.
Inevitabilmente giunge l'alienazione, un'allucinazione potente che mette alle strette l'ideologia nazi-fascista e porta al risveglio nella più classica esibizione di patriottismo made in USA.
Divertente ed incisivo. E bravo il nostro papero, e bravo anche il regista Jack Kinney...
Ma la Disney decide di fare un ulteriore balzo in avanti: avvertire il pubblico delle tecniche di manipolazione adottate dai nazisti. Nasce così un'ideale trilogia sul tema.
E' il caso di "Reason and Emotion", uscito nell'agosto del 1943 e firmato da Bill Roberts (tra gli autori di "Dumbo", "Bambi" e "Fantasia", mica bruscolini). L' idea di base è geniale.
Veniamo catapultati nella mente di un pargoletto dove troviamo una sorta di abitacolo automobilistico, dotato di un volante e due posti a sedere. Al suo interno vivono due esserini. Alla guida c'è un omino distinto, occhialuto ed un po' secchione, ossia la Ragione; sul posto passeggero, sempre pronto a ribellarsi e prendere il comando, c'è un cavernicolo caciarone e godereccio, l'Emozione (nella versione femminile una nanerottola sexy tutte curve).
Pochi secondi e si viene catapultati nell'antenato di "Inside Out"...
Ma in "Reason and Emotion" non c'è solo fantasia, sorrisi e disimpegno.
Al centro del pensiero di ogni americano c'è la guerra, la paura portata da Perl Harbour, il timore di ritrovarsi un nemico, sino a ieri separato da un oceano, dentro casa. Ed «in questi tempi difficili, ci spiega il narratore, è importante più che mai il controllo del conflitto tra ragione ed emozione».
Ed ecco tornare la figura di Hitler, con la sua politica tutta tesa a far predominare l'emotività sulla ragione, attraverso il ricorso alla paura, l'odio e l'orgoglio ariano; una prospettiva in cui di intravede solo guerra e macerie. E quale sarebbe la via di fuga a questa sciagura? Semplice, mettere l'emotività al servizio della ragione, unire i due elementi per la lotta contro il nemico pubblico.
Da "Education for Death" (1943) di Clyde Geronimi
Nel dicembre del '43 tocca a "Chicken Little" (Trad. "Questione di Psicologia") parlare di manipolazione. La protagonista è una Volpe che, con l'aiuto di un libro di psicologia, cerca di far cadere in trappola un pulcino e rimediare così una prelibata cena. Il finale, nonostante il narratore ci rincuori sino ad un attimo prima, è più tetro che mai. La volpe irretisce l'intero il pollaio e si sbrana tutti. E per quale ragione i disegnatori avevano dato vita ad un corto con un finale così drammatico?
La risposta è semplice, la volpe simboleggia il nazismo. E ciò, nella prima fase di scrittura del soggetto, era ancor più evidente. Al posto del manuale di psicologia, ci sarebbe dovuto essere il Mein Kampf; a suggellare il finale drammatico si era optato per un cimitero militare con le svastiche al posto delle croci.
Ma il III Reich quando inizia ad interessarsi dei bambini tedeschi?
E' la domanda che si pone alla base di "Educazione alla morte", opera di Gregor Zimmer, educatore tedesco fuggito negli States prima che Hitler mettesse in pratica l'espansionismo territoriale.
Un saggio con interviste e commenti sul modello scolastico nazista, fatto di riti e rigida educazione. La più celebre inchiesta sul sistema educativo della Germania di Hitler, documento utilizzato anche durante il Processo di Norimberga.
E da questo spunto, il regista italo-americano Clyde Geronimi, gira "Education for Death", distribuito nel gennaio del 1943; il protagonista è il piccolo Hans, nato e cresciuto sotto la croce uncinata e del quale si seguono le sorti.
C'è lo humor, come ci si può aspettare da una produzione della Disney, datoci da una corpulenta Bella Addormentata wagneriana (la Germania), tratta in salvo da cavaliere senza macchie e senza paura (Hitler), che la toglie dalle grinfie di una perfida e rugosa strega (la Democrazia).
Ma il divertimento dura pochi attimi; il resto è plumbeo, scuro, a tratti asfissiante. Quel mix di paure e pessimismo, che negli altri lavori era stato arginato, in "Education for Death" diviene centrale, uno strumento di analisi attraverso cui si giunge ad una drammatica risposta: il regime si interessa dei bambini sin dal loro concepimento.
Vediamo così in successione i genitori del piccolo Hans recarsi da un tenebroso funzionario governativo; dover dimostrare la loro appartenenza alla razza ariana; scegliere uno dei nomi approvati dal governo per i nuovi nati; temere la deportazione del figlio a causa di una malattia che lo ha colpito. Seguiamo poi Hans a scuola, una situazione che corre lungo i binari del grottesco, dove apprende l'insegnamento principe: la prevaricazione sul più debole; poi i libri proibiti da Goebbels dati alle fiamme; le parate coreografiche; l'arrivo della maturità, l'Hans uomo trasformatosi in un perfetto automa depensante a servizio del regime, una macchina che ha come unico destino la morte e la devastazione.
"Education for Death" ha una potenza espressiva che, prima della visione, si fa fatica solo ad immaginare.
Da "The Ducktators" (1942) di Norm McCabe
Ma non c'è solo la Disney a scendere in campo. Ci sta Braccio di Ferro che cerca di salvaguardare un carico di spinaci diretti via mare in Inghilterra, combattendo contro giapponesi fastidiosamente stereotipati.
Ci sono poi Bugs Bunny e soci che portano la loro follia nella lotta contro il nazismo.
In "Plane Daffy" (Trad. "Duffy all'attacco") l'anatroccolo nero dei Looney Toons, qui misogino per sua stessa ammissione, si propone per una missione: portare a destinazione un messaggio segreto importantissimo.
Chi ci ha provato prima di lui, il Piccione 13, è caduto tra le braccia di una fascinosa spia tedesca (la parodia di Mata Hari) che lo ha sedotto, drogato ed estorto il segreto che portava con sé. La fine del Piccione 13 è stata tragica, il suicidio, unica soluzione per il senso di vergogna provato.
Nonostante il suo odio verso l'universo femminile, anche Duffy cade nelle trame della bella spia riuscendo però, dopo una fuga in pieno stile Looney, ad inghiottire il messaggio.
La conclusione? Si scopre il messaggio («Hitler è una carogna») e la premiata ditta Goebbels/Goering muore suicida, davanti agli occhi divertiti dell'anatroccolo nero.
Sempre il buon vecchio Duffy è protagonista del divertentissimo "Commando Duck" (diretto dal solito Jack King), dove si prende gioco di un colonnello nazista che manda pazzi e si prende la briga di dare una martellata in testa allo stesso Hitler, intento a parlare di superiorità della razza in un comizio.
E che dire di "Ducktators" (agosto 1942)? Un corto folle!
In un pollaio due anatre (Hitler e Hiroito) ed un'oca (Mussolini) decidono di espandere il loro potere. Ci ritroviamo dinnanzi ai comizi dal balcone del Duce e a quelli carichi di pathos delirante di Hitler. Si deridono le loro movenze, gesti con cui si vuole rimarcare la stupidità delle loro idee e degli inetti che hanno deciso di seguirlo. Si corre così verso un finale caciarone, con botte da orbi ed un ritorno all'ordine rappresentato dalle teste dei tre trasformate in trofei di caccia (questa parte censurata nella versione distribuita in Italia). In coda segue il consueto invito all'acquisto i titoli di guerra.
I lunatici sono attivi tanto quanto i colleghi della Disney, mostrando però quella cattiveria connaturata al loro essere perennemente fumati e sopra le righe.
Da "Tokio Jokio" (1943) di Norman McCabe
A volte ciò porta a risultati dubbi.
Un esempio? "Tokio Jokio" (maggio 1943).
Costruito nello stile del mockumentary, il regista Norman McCabe ci presenta una serie di situazioni con cui mette alla berlina il nemico giapponese.
Bene, come lo si può considerare? Un corto di livello infimo in cui emerge un becero razzismo nei confronti degli orientali? In alcuni passaggi è questa la sensazione che si prova.
Uno sguardo quanto mai perfido, in buona parte fondato su gag fisiche e pessimi giochi di parole.
I giapponesi sono più che mai stereotipati. Tutti bassi coi dentoni, incapaci nello sport e nell'uso dell'ingegno; hanno poi quel modo di fare, quella cortesia che non può essere di questo mondo; e poi cosa dire di quel modo di parlare? Ridicolo no?
Ci sono poi passaggi durissimi. Su tutti l'immagine fissa su una sedia elettrica in funzione, che un cartello ci avvisa essere destinata all'ammiraglio giapponese Yamamoto.
Insomma si può anche ridere, ma a denti strettissimi, consapevoli quanto alcuni passaggi oggi siano difficilmente digeribili e di quanto la cattiveria mostrata non sia sostenuta da intelligenza e sagacia. "Tokio Jokio" appare completamente fuori fuoco, mancando il reale bersaglio della satira: il militarismo giapponese.
Unica parte riuscita è il veloce sguardo sugli altri due dell'Asse, con un Hitler stupito della cartolina inviata da Rudolph Hesse da un campo di concentramento ed un Mussolini che se ne sta, triste e solitario, su una colonna dei Fori a giocare con uno yo-yo.
Un discorso analogo può essere per "Bugs Bunny Nips the Nips".
Il sarcastico coniglietto giunge su un'isoletta per mezzo di una cassa. Un paradiso terrestre che ben presto, a causa della massiccia presenza di giapponesi, si trasformerà in un inferno; tutti questi nanerottoli tra i piedi, stupidi, creduloni, asserviti al capo e che parlano una lingua del tutto incomprensibile.
Bugs li farà impazzire regalando gelati esplosivi e travestendosi da generale prima e donna poi. Ed in mezzo alle numerose gag, l'adorabile coniglietto non mancherà di apostrofarli come "facce da scimmia" o "slant eyes". Questi lunatici ci sono andati davvero pesanti...
Ma non sono solo gli States ad usare l'animazione per fare propaganda.
Lo fa il Giappone già nel lontano 1934 con uno scontro epico tra Momotaro, un eroe delle fiabe, ed una tremebondo Topolino; qui il ratto della Disney è diverso da come ce la ricordiamo. E' Brutto, sporco e cattivo, un'imperialista armato di mazza e con un piccolo esercito al seguito che mira a conquistare un'isoletta abitata da pacifici animaletti.
E Momotaro lo si rivedrà in due lungometraggi finanziati dal ministero della marina ("Momotaro l'aquila dei mari" del 1943 e "Momotaro il divino marinaio" del '44), divenendo un eroe epico che condurrà i giapponesi alla vittoria e ristabilendo la tanto sospirata pace tra i popoli.
"Momotaro vs Mickey Mouse" (1934) di Komatsuzawa Hajime
E che la Germania nazista abbia fatto della propaganda un suo punto di forza non è chissà questa gran scoperta. A parlare ci sono gli interventi del Ministero della Propaganda guidato da Goebbles, un'opera vasta che colpisce libri, cinema (penso al quanto mai odioso "Ebreo Errante"),giornali, teatro e fumetti.
Non mancano interventi propagandistici nel campo dell'animazione; alcuni di questi sono andati persi; altri invece sono divenuti veri e propri oggetti da museo. Tra quelli facilmente reperibili sul Tubo ci sta "Nimbus Libéré", prodotto nel corso del 1944 e destinato alla Francia occupata.
Da Londra, uno speaker radiofonico ebreo, terribilmente stereotipato, annuncia ai francesi l'arrivo degli alleati. Tra gli ascoltatori c'è un giubilante professor Nimbus (personaggio molto noto a quei tempi per delle strip sui giornali) con la sua famiglia. Quella notizia ha il sapore di libertà, il ritorno alla vita normale.
Stacco e ci ritroviamo dinnanzi ad uno squadrone dei cieli, guidato da alcuni dei personaggi più famosi dell'animazione americana: Popeye, Pippo, Paperino, Topolino ed gatto Felix; alle loro spalle una serie di bombe con su scritto made in USA.
La liberazione, come potrete immaginare, assume toni tragici: le bombe vengono sganciate sui civili, ed una di queste cade sulla casa dei Nimbus distruggendola. Tutto è ridotto in macerie, tranne la radio, ancora in funzione, simbolo di false speranze. Un angelo della morte scende dall'alto, si poggia sul cumulo di macerie, liberando una risata quanto mai sinistra.
E l'Italia in tutto ciò?
Beh anche il regime fascista è dotato di un ministero apposito: il MinCulPop.
Le conseguenze? Uno stretto controllo dei mezzi di informazione ed un utilizzo imponente e mirato di cinegiornali e film di propaganda. Ma a Mussolini interessa anche l'animazione e decide di commissionare numerosi lavori a Luigi Pensuti, l'autore italiano per eccellenza.
Molte delle sue opere sono andate perdute, ma tra quelle che facilmente visionabili c'è il curioso:"Dottor Churkill". L'inizio è involontariamente comico: "Nella grande metropoli di 'un'isola lontana, che si allunga sul mare come un grosso ragno dagli immani tentacoli, c'era un sinistro castello,[...] popolato dai più ripugnanti animali notturni"; un linguaggio tronfio, ridondante e carico della retorica del parlar italico. Il protagonista è un Churchill rivisto in chiave stevensoniana, un essere mostruoso che solo grazie ad una pozione, a base di democrazia, riesce ad assumere sembianze umane. E solo quando il suo aspetto è accettabile, vaga a bordo di un aeroplano che soffre di flatulenza, andando di paese in paese per depredare le ricchezze di popoli laboriosi e pacifici. Una trama quanto mai faziosa, con cui mostrare a grandi e piccini il giusto disprezzo per la perfida Albione...
E con l'Italia giungiamo alla fine di questa lunghissima carrellata di opere (sommaria e parziale), uno di quei post che mette a dura prova sia chi lo scrive, sia quei pochi eroici lettori che giungono sino alla fine.
La Seconda guerra mondiale mostrava la forza di una nuova arma che era stata sperimentata a pieno nel ventennio precedente: i Mass Media. Questi, osserveranno i filosofi della Scuola di Francoforte (in particolare Adorno e Horkheimer), diventeranno parte integrante della società contemporanea, lo strumento d'eccellenza per incidere e plasmare le coscienze individuali (ma questa è tutta un'altra storia che a questa pagina poco compete ma che invitiamo a valutare).
Un giorno molto lontano (la mia testa necessita di un pò riposo), si tornerà per questi lidi, approfondendo ciò che è stato solo accennato, parlando di ciò che scientemente non è stato inserito.
Alla prossima.

Ismail

lunedì 19 febbraio 2018

"THE SHAPE OF WATER" (2017) DI GUILLERMO DEL TORO


And the Oscar goes to... Guillermo Del Toro
Complimenti Guillermo.. Ok allora, vediamo... Ti premiamo per "Cronos"? No, no sangue e vampiri, ci mancherebbe. Ehm... "Blade 2"? Ah no no stessa cosa di "Cronos". "La Spina del Diavolo"? Parla di bambini in un orfanotrofio negli anni 30', molto toccante, no? Eh no, aspetta! Non possiamo premiarti per quello... C'è la guerra, ci sono i morti e i fantasmi! No! No!
Ci sarebbe questo melò..."Crimsom Peak". 
Il Melò ha sempre fascino e l'Academy lo subisce sensibilmente. Dai vada per "Crimsom Peak"! 
Ehi, ma qui ci sono fantasmi orripilanti, morti sospette e turpi passioni! Noi queste cose non le possiamo assecondare!! Stiamo quasi perdendo le speranze di ficcarti questo fottuto Oscar in mano Guillermo!
Ma non diamoci per sconfitti... E questo "Labirinto del Fauno"? Mmmmmm fantasy ma contestualizzazione storica... ci piace! Candidato via! E mo te lo vinci pure!! Dai grand... 
Eh ma, un momento! Chi è quello stronzo che ammazza tutti? E ste creature macabre? 
Ma, sopratutto, sta scena del capitano Vidal che frantuma la faccia di un poveretto? 
No, ma poi quella bambina muore! 
Non è in un mondo fatato! 
È all'altro mondo! 
Va bene niente Oscar.
Guillermo ci spiace ma... (interviene Guillermo) No! Fermi tutti! Ho io il film giusto per la mia statuetta! Si chiamerà "The Shape of Water". Praticamente narra la storia di una muta che si scopa il mostro delle paludi. Non partite subito in quarta eh! Parlo di sesso, faccio schizzare sangue e dita e vi faccio vedere un gattone vaginale stile anni 80. Ma a sto giro ho intenzione di utilizzare i canoni del cinema Hollywoodiano classico. Sapete no? 
Musiche pompose e melensi, sentimenti candidi/canditi? Poi storia d'amore come fulcro della sceneggiatura e spystory sullo sfondo. Taaaac!
Poi prendiamo Micheal Shannon e che gli facciamo fare? 
Gli facciamo fare il poliziotto borghese e psicopatico! Ovvio cazzo, ma allo stesso tempo gli affidiamo il compito di non far addormentare gli spettatori tra un'espressione sognante e l'altra della muta. Rendiamolo minaccioso. Anzi, rendiamolo comico. Sentite, rendiamolo comicamente minaccioso e via!
Il film è ben girato, comunque, lo sapete che ho un talento visivo incredibile e anche se la pellicola non ha sussulti e originalità, mantengo il mio magico tocco in diverse sequenze di rara perfezione estetica (vabbè dai non quella del mano/vetro/mano... Quella ormai mi sa che ce la stiamo passando tutti a giro)! E mi scelgo sempre un direttore della fotografia in linea con la mia visionarietà. 
Vedete questo accento cromatico verde? È ciò che renderà iconico questo film insieme alle musiche StileParigiAnni30ConFisarmonica looppate per due ore, fino al sanguinamento del condotto uditivo, con relativo probabile rischio di diabete.
Però dovete anche riconoscere che è un prodotto sostanzialmente di qualità
I personaggi sono approfonditi più del necessario, hanno più sfumature. 
In più tratto temi come l'omosessualità e la discriminazione razziale. Faccio riferimenti metacinematografici e frantumo l'idea casta e morigerata del maccartismo facendo allupare costantemente i personaggi. Tanto per darmi quella fucking statuetta volete sempre e solo la favoletta! Perciò ecco la vostra favola strappalacrime ma anche strappasorrisi. 
È girata divinamente e con tutto al posto giusto. Alla fine anche un grande creatore come me ambisce a quel pezzo di ferro. Tutti vogliamo essere apprezzati trasversalmente...
...Che dite vi ho convinto?

Habemus Judicium:
Bob Harris

mercoledì 14 febbraio 2018

FRAMMENTI DI CINEMA #1: SPECIALE SAN VALENTINO

Festeggiamo San Valentino a modo nostro, parlando di cinema. E lo facciamo inaugurando una nuova rubrica, Frammenti di Cinema, fatta di piccole recensioni di film legati tematicamente. Buona lettura a tutt*!

"Harold e Maude" (1971) di Hal Ashby:
Un cult sorto nel libero e meraviglioso fermento che fu la Nuova Hollywood
"Harold e Maude" ha quasi raggiunto la soglia dei 50 anni eppure mantiene tutta la sua portata narrativa; anzi a ben vedere il tempo trascorso lo ha arricchito ancor di più, aprendosi un ideale dialogo con la società contemporanea, sempre più schermata dinnanzi alla profondità dei legami. 
Ma cosa è questo "Harold e Maude"?
Una storia di amore ed amicizia intensa quanto sui generis, il riaffiorare delle bellezze della vita che sembravano oramai smarrite. Lui giovane 18enne depresso, trascorre le giornate a fingere suicidi per attirare le attenzioni di una madre incapace, ed a presenziare a funerali di gente che non conosce. 
Lei una 79enne, libera dai legacci borghesi e con un passato in un campo di concentramento, la vediamo immersa in un saggio spirito vitalistico.
Il resto? Scopritelo guardandolo, perché ne vale davvero la pena.
Voto:4/5

"I segreti di Brokeback Mountain" (2005) di Ang Lee:
Due mandriani. Una montagna. Un amore proibito. 
Questi tre elementi sono protagonisti di un film abbastanza ispirato di Ang Lee
Il tutto è buttato decisamente sul melodramma, anche e soprattutto, grazie alle meraviglie sonore di Gustavo Santaolalla. Ma che tocco raffinato quello di Lee nel gestire i tempi vivi e morti di un amore tormentato e impossibile. Così come centrata l'ambientazione nel Wyoming, capace di dare ampiezza e distensione da un lato, tanto quanto oppressione e costrizione della vita provinciale dall'altro.
Gyllenhaal e Ledger allora erano due promesse del cinema USA ed entrambi si sarebbero consacrati successivamente (ma Ledger non potrà esprimere tutto il suo talento, a causa della prematura scomparsa); i loro due personaggi si completano perfettamente: Ennis (Ledger) più burbero e introverso, Jack (Gyllenhaal) più emotivo e brillante. Completano il cast Anne Hataway e Michelle Williams. 
L'importanza di un film come Brokeback Mountain sta, oltre che nella qualità pregiata della sua realizzazione, anche nel messaggio; già un film come "Philadelphia" aveva trattato con dramma la tematica omosessuale, ma in modo sensibilizzatorio; "Brokebak Mountain", invece, ha la capacità di empatizzare e far immedesimare nei corpi e nelle menti di due giovani cowboy della provincia americana.
Voto: 3,5/5

"Lars e una ragazza tutta sua" (2007) di Craig Gillespie:
Fu presentato al Torino Film Festival ed acclamato a tal punto da riuscire a portarsi a casa il premio del pubblico. La storia? Semplice quanto bizzarra. 
Lars (interpretato da un Ryan Gosling non ancora così famoso), è un giovane e timidissimo 27enne del Wisconsin; poche le amicizie ed una vita sociale quasi del tutto assente.
A cambiare la sua vita arriva però Bianca, una giovane ragazza che incontra su internet e della quale si innamora. Decide di presentarla alla famiglia che rimane sbigottita: la dolce e bella Bianca altro non è che una plasticosa bambola gonfiabile.
A monte c'è un'idea quanto mai originale che, purtroppo, viene lasciata da sola a sostenere tutto quanto il film; ciò non riesce a pieno e qualche momento di noia c'è, non si può negare.
Nonostante i suoi limiti, "Lars" merita una visione. E' un oggetto curioso, che rifugge da facili doppi sensi e gag scontate; Craig Gillespie, qui al suo primo lungometraggio, opta infatti per una comicità levigata ed ad un clima surreale attraverso i quali lasciar spazio alla solitudine, all'incapacità di relazionarsi ed ad un'amore tanto sui generis, quanto dolce, puro ed effimero.
Voto: 2,5/5
Bob ft. Ismail

lunedì 12 febbraio 2018

L'ANGOLO DEL CULT #8: "I GUERRIERI DELLA NOTTE-THE WARRIORS" (1979) DI WALTER HILL


"Se c'è una cosa che non sopporto è il talento sprecato" diceva Chazz Palmintieri in "Bronx" di Robert De Niro. Ed è proprio un peccato che i Riffs, rappresentati durante i 90 minuti di svolgimento de "I Guerrieri della Notte" come una gang cazzutissima, non entrino mai in azione. Ti presentano questo gruppo di teppisti Nigga esperti di arti marziali, superdisciplinati e apparecchiati di arancione come i monaci shaolin: già questo li rende memorabili. Aggiungiamo che sono comandati da tale Masai, il capoccia più  incazzato nero di tutti, che non si toglie l'occhiale da sole neanche (e soprattutto) di notte. Troppe aspettative tradite.
Comunque il film inizia con il concilio universale di tutte le gangs di New York, presieduto proprio dal capo dei Riff, Cyrus. Durante questo mega-raduno, in cui si dovrebbe addivenire ad una pace totale tra i bandidos, Cyrus viene ferito mortalmente da alcuni colpi di pistola esplosi da Luther, capo dei Rogue, soggetto presentato come psicolabile, senza alcuna motivazione: prendere o lasciare.
Luther, da buon infame,dal momento che uno dei suoi membri lo aveva visto sparare, addita come colpevoli i Warriors, la gang del titolo, che in pochi attimi si ritrova contro tutte le bande della città. Nel parapiglia successivo all'intervento della polizia, le bande si disperdono e anche i Warriors ne approfittano per salvare la pellaccia.
Tramite un montaggio molto confusionario (non si capisce bene se la sequenza è frutto di tagli, e non sarà l'unica) parrebbe però che il capo dei Warriors, Cleo, venga seccato.
L'avventura del gruppo a petto nudo e in gilet di pelle marrone, inizia adesso: dovranno attraversare tutta la città per arrivare alla casa base a Conney Island, passando nei territori di appartenenza delle altre gangs, intenzionate a far loro la pelle.
Un film così profondamente post-moderno, curiosamente, deve la sua struttura a un opera storico-classica quale l'Anabasi di Senofonte.
Il perché del successo di una produzione del genere sembra balzare subito all'occhio.
I Guerrieri della Notte è quasi un film di fantascienza nel rappresentare una società degradata fin quasi alla distopia, in cui regna la legge della tribù più forte e la dittatura del branco. Le riprese di una New York desolata e putrida a tal punto da far giungere il lezzo nelle narici dello spettatore, unite a una colonna sonora alla Carpenter (synth e minimal), hanno buon gioco a creare un'atmosfera sinistra e opprimente.
Eppoi tutte quelle bande: Turnbull Ac's, Orphans, Rogue, Riffs, Lizzies, Baseball Furies, Punks, Hurricanes ecc.; sono così colorite e variegate da chiamare, già a prima vista, il merchandise di action figures con le loro fattezze, e si pongono in contrasto rispetto al grigiore della periferia fatiscente dei quartieri della Grande Mela.
Last but not least c'è lei, la violenza, che, a guardarla oggi, è terribilmente  pupazzesca ed edulcorata, ma all'epoca portò ad etichettare il film come VM 18.
Nel mezzo ci sarebbe anche una storia d'amore anche se viene messa in scena più come una storiella da una botta e via. È abbastanza plasticosa e buffa, così come diverse altre situazioni, per non parlare poi di certi dialoghi. Citiamo ad esempio la sequenza della cattura di Ajax: sto tizio è il più ganzo dei Warriors, è lo spaccone/attaccabrighe.
Mentre la gang è in fuga vede una donna seduta da sola in una panchina del parco e pensa bene di mettere da parte l'istinto di sopravvivenza, in favore di quello sessuale e così decide di intrattenersi in un corteggiamento animalesco: la signorina è una sbirra in borghese e tanti saluti ad Aiace. Non ha senso la premessa e non ha senso la dinamica: l'espediente narrativo perciò non convince, ma, anzi, diverte.
Ma è per questo che "The Warriors" è un cult: un film pieno di piccole (o grandi) imperfezioni, tutte ampiamente perdonategli per la sua capacità di creare questo immaginario sconfinato e intramontabile.
La scena finale a Conney Island è leggendaria, la battuta improvvisata da David Patrick Kelly ancora di più. Stay Tuned Boppers.

Habemus Judicium:
Bob Harris

giovedì 8 febbraio 2018

A TUTTO CORTO #1: TRE PROPOSTE SCI-FI

Papparappapà! Signore e signori che squillino le trombe.
Con l'arrivo di febbraio inauguriamo una nuova rubrica interamente dedicata a quel condensato di idee quali sono i cortometraggi. Per questa prima puntata ci dirigiamo nel mondo sci-fi con un terzetto niente male. Non resta che augurare a tutt* una buona lettura. 

"There Will Come Soft Rains" (1984) di Nazim Touliakhodjaev:
Tutto ebbe inizio con "There will Come Soft Rains", poesia in cui Sara Teasdale si immaginava uno scenario post-apocalittico senza più umanità. Poi, nel 1950, venne l'omonimo racconto di Ray Bradbury , che, con ironia e leggerezza, trasformava in parole la sciagura di Hiroshima.
Nel 1984 arrivò un regista russo dal nome impronunciabile che decise di animare il racconto.
E' l'ultimo giorno del 2026 e ci ritroviamo in una casa completamente meccanizzata capace di svolgere ogni normale mansione domestica. Pulisce, cucina, sparecchia e funge pure da adorabile sveglia. Quello che si vede però è un non luogo. Si vedono futuribili letti a forma di capsule, tute anti-radiazioni appese alle pareti ed una finestra rotta dalla quale si vede l'inverno nucleare. Attorno agli oggetti solo un cerimoniale vuoto senza più divinità.
"There Will Come Soft Rains" è un corto cupo e plumbeo intriso di tutte quelle angosce che accompagnarono la Guerra Fredda, una visione che ancora oggi spiazza lo spettatore.
Voto: 3/5
Lingua: Sottotitoli in inglese (dialoghi semplici)
Link: https://www.youtube.com/watch?v=5LNHYz89sNc&t=300s

"BlinkyTM" (2011) di Ruairi Robinson:
Del lotto il mio preferito. 
Uno script interessante ed un' infornata di effetti speciali tirati su con la sommetta di 50000 dollari.
Ci ritroviamo in un futuro non molto lontano in cui le intelligenze artificiali sono ormai una realtà. Tra i vari robot lanciati sul mercato c'è il Blinky, un barattolo che ricorda un C1-B8 antropomorfizzato, l'upgrade del miglior amico: gioca, tiene compagnia e si diletta anche nelle faccende domestiche.
Un ragazzino lo riceve come regalo ma ben presto, come spesso accade con i giochi, inizia a stufarsene. Nel frattempo la sua bella famigliola piccolo borghese mostra alcuni scricchiolii interni.
Un corto sull'incomunicabilità familiare? Solo in parte; in realtà "Blinky" ripropone in salsa sci-fi la dicotomia tra bene e male, tra lo scegliere di essere o meno cattivi.
Il bimbetto scontento del mondo che lo circonda, inizia a maltrattare il piccolo Blinky. Comandi contraddittori, oggetti lanciati addosso, ordini che lo costringono in estenuanti conti alla rovescia da da 999999 sotto una pioggia incessante. E lui, quel cassonetto metallico, sorride e risponde sempre No Problem.
Il finale? Un'impennata cattiva, cinica e perfida.
Dieci minuti perfetti (o quasi), "BlinkyTM" è robetta notevole.
Voto: 4,5/5
Lingua: Disponibile con sottotitoli in italiano.
Link:  https://www.youtube.com/watch?v=g_D_s7Od8oc

"Human Form" (2014) di Doyeon Noh:
Un clima spettrale, silenzi che acuiscono il senso di solitudine ed una serie di volti tutti uguali; "Human form", cortometraggio made in Corea, è uno dei esperimenti più curiosi in cui mi sia imbattuto negli ultimi tempi. La protagonista è una giovanissima ragazza che desidera con tutta se stessa un intervento di chirurgia estetica con cui cambiare i tratti somatici del viso.
La ragione? Diventare come tutti gli altri.
Uno soggetto notevole che ci mette difronte al tema del diverso e dell'omologazione sociale, un lento flusso narrativo in cui l'identità e 'individualità si smarriscono.
Voto: 4/5
Lingua: Disponibile solo con sottotitoli in inglese; nonostante ciò i non molti dialoghi sono facili da seguire anche per chi non ha particolare dimestichezza con la lingua
Link: https://www.youtube.com/watch?v=6lgf30wFOlA
Ismail