lunedì 18 giugno 2018

"IL LABIRINTO DEL FAUNO" (2006) DI GUILLERMO DEL TORO

«Tanto tempo fa, nel regno sotterraneo, dove la bugia, il dolore, non hanno significato, viveva una principessa che sognava il mondo degli umani...»


E che Guillermo Del Toro nutrisse interesse verso il franchismo lo si era già capito nel 2001 con "La spina del diavolo", una ghost-story in cui si avvertivano gli echi della guerra civile.
Poi arrivarono le sirene di Hollywood, e con loro due grandi successi commerciali, "Blade II" e "Hellboy", inframezzati dal gran rifiuto...amico Cuaron, fallo tu "Il prigioniero di Azkaban", che io ho altro a cui pensare...
Guillermone si era fatto un nome nel giro giusto, si ritrovava con una bella quantità di spicci in tasca e dietro di lui un gruppetto di colleghi e produttori pronti ad investire.
Siamo nel 2006 e finalmente si può chiudere il cerchio e rituffarsi nelle pieghe della storia.
Spagna, 1944. La guerra civile è ufficialmente conclusa ma sui monti ci sono ancora gli ultimi irriducibili, bestiacce che hanno fatto della resistenza un ideale irriducibile. Vanno schiacciati in ogni modo, ne va della pacificazione e normalizzazione della nuova Spagna del Caudillo.
Qui conosciamo Ofelia, bimbetta tutta fantasia e libri, che assieme alla madre sta andando in un avamposto militare. Li ad attenderle c'è Vidal, uno spietato capitano dell'esercito franchista e fresco maritino di Carmen. Ofelia si ritrova immersa in un conflitto durissimo e la via di fuga gli viene concessa da un misterioso fauno che la mette alla prova.
Guillermo esagera: facce fracassate a colpi di bottiglia e fauni, fate e gambe in cancrena.
Com'era quel modo dire? Less is more?!
Per Guillermo nostro manco pe' niente, more is more ebbasta!
Con "Il labirinto del fauno" scompiglia le carte, mescola storia e fantasy, proponendoci un Alice nera, che tra una prova e l'altra dovrà cercare di non annegare nel mare di violenza.
Ci troviamo dinnanzi alla guerra vista con gli occhi di una bimba, scelta paraculetta capace di dialogare con il più ampio ventaglio di spettatori, dalla casalinga di Voghera allo studentello simil-intellettuale da prendere a ceffoni. Nessuno è escluso. Ed intendiamoci questo è un immenso pregio, assolve alla funzione principe dell'arte popolare per eccellenza.
Scelta da vecchio volpone quindi e neanche troppo nuova a vedere il vero. L'approccio fantastico e fanciullesco lo aveva già portato sui grandi schermi Benigni con "La vita è bella"; nella letteratura, quella lontanissima parente della sceneggiatura, c'è l'esempio della Kristof con la "Trilogia della città di K."[LINK]; e, tornando alla settima arte, c'è chi ha scelto come sguardo altro lo scemo del villaggio ("Train de Vie").
Niente di originale (forse), eppure Guillermo sorprende.
I due piani cinematografici si incontrano e si inseguono l'un l'altro, divenendo forze complementari. Mai e poi mai avrei immaginato di trovare una ricostruzione così rigorosa del regime franchista attraverso sviluppi fantastici. Così come pensare di volare in mondi immaginifici partendo da un  contesto storico così drammaticamente reale.
"Il labirinto del fauno" è un film da vedere ed assaporare, una pellicola che rovescia il rapporto adulto/bambino; tocca le corde dell'animo ed emoziona, dando in pasto allo spettatore la storia di una bimbetta che ci ricorda la bellezza della fantasia, libertà irrinunciabile ed unica arma per difendersi l'ineluttabilità della storia.

Habemus Judicium:
Ismail

giovedì 14 giugno 2018

"TRILOGIA DELLA CITTA' DI K." DI AGOTA KRISTOF

«[...] il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e di obiettività. Amare le noci e amare nostra madre, non può voler dire la stessa cosa. La prima formula designa un gusto gradevole in bocca, e la seconda un sentimento.
Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe: è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti»

Siamo in guerra, in un luogo qualunque dell'est europeo. La grande città è schiacciata dai bombardamenti ed una madre, rimasta sola con i suoi due gemellini, non sa più cosa fare. 
Come unica speranza c'e la nonna dei due piccoli; lei abita nella piccola città e lì il conflitto è lontano. L'anziana donna è però l'ultima persona a cui pensare di lasciare dei bambini, è brutta, sporca e cattiva, un' avara e violenta che i suoi compaesani usano chiamare la strega.
Per la madre non c'è altra alternativa, i suoi gemelli dovranno andare lì e resistere alle angherie dell'anziana donna. 
"Il Grande Quaderno" quando uscì nel lontano 1986 fu una potente scudisciata sul mondo della letteratura, una prosa secca e tagliente per un racconto che pulsava perfidia e cinismo ad ogni rigo.
Dietro l'opera una signora nessuno, Agota Kristof, una scrittrice magiara di lingua francese che si era dedicata alla poesia da giovanissima ed alla scrittura di qualche spettacolo teatrale. Nel mentre una vita da esule. La sua Ungheria l'aveva abbandonata nel 1956 a seguito dell'invasione sovietica. Il primo marito, un professore di storia sposato a 18 anni, temeva di finire in carcere e di rimanere lì non aveva alcuna voglia; di quel matrimonio e della fuga successiva la Kristof se ne sarebbe pentita, «due anni di galera in Urss erano probabilmente meglio di cinque anni di fabbrica in Svizzera».
Ma lasciamoci alle spalle le questioni biografiche e torniamo al caso letterario.
Il "Grande quaderno" è difatti solo l'inizio. Nel 1988 viene pubblicata "La Prova" e nel 1991 "La Terza Menzogna", gli altri due tasselli della "Trilogia della citta di K.".
Bastano poche righe e si rimane imbrigliati in un vortice dal quale non è più possibile fuggire.
"Il grande quaderno" altro non è che il diario tenuto dai due gemellini nella loro nuova dimensione di vita. Un racconto cadenzato da fatti e persone, colpi secchi e ben calibrati che ci trascinano verso la normalità dell'orrore.
E' un austero processo di disumanizzazione, opera di quel conflitto che rimane minaccioso sullo sfondo ed in cui l'umanità e l'amore diventano ostacoli per un unico bisogno primario: sopravvivere; non importa che per raggiungere tale scopo si debbano prevaricare i corpi altrui.
Ne "La prova" e "La terza menzogna", mutano temi, stile e prospettive. I pensieri si articolano, non limitandosi più solo ai fatti, così come il tema della guerra lascia spazio alla solitudine ed a quel sentirsi esule. Eppure rimane vivo quel turbine scioccante accarezzato nel primo libro, acuito da una Kristof che si prende gioco del lettore mescolando continuamente le carte in tavola.
Capolavoro.
Una parola da tenere sempre a debita distanza.
Un suo abuso ne svilirebbe la portata.
Stavolta lo possiamo tirare fuori dalla naftalina, qui il suo impiego è pienamente legittimo.
Lo è per la prosa, immediata e visiva, che è degna dei migliori.
Lo è per il contenuto, una favola nera fatta di ombre e fantasmi che muove da un determinato contesto storico, se lo scrolla di dosso e ci pone dinnanzi ad un disfacimento esistenziale universale.
Lo è per quel cinismo ai limiti del surreale, che perfettamente rende la naturalezza del male, una forza incontrollabile che giunge senza preavviso sconvolgendo le esistenze.
Lo è perché "La trilogia della città di K." colpisce alla pancia e ti entra sotto la pelle.

Habemus Judicium:
Ismail

lunedì 11 giugno 2018

MADE IN NETFLIX #2: "CARGO" DI YOLANDA RAMKE E BEN HOWLING

Sette minuti di quasi assoluto silenzio. Un'apertura claustrofobica a bordo di una berlina incidentata da cui fuggire. Fuori di essa la desolazione degli spazi vuoti di un presente post-apocalittico.
"Cargo" viene presentato nel 2013 al Tropfest Australia, uno dei festival più importanti per i cortometraggi, e da allora il successo, di critica e pubblico, è cresciuto sempre di più. Ed è tutto meritato, va detto.
A tirar su l'idea con due spicci c'è la bionda Yolanda Ramke e l'occhialuto Ben Howling, due che circa dieci anni fa si sono conosciuti sul di lavoro nelle vesti di autori del Big Brother australiano. Poi, visto che pecunia non olet, hanno continuato a mettere mano su altra spazzatura televisiva come la versione australiana de La pupa e il secchione ed X Factor.
Ma solo lavoro e niente divertimento rendono Yolanda e Ben dei ragazzi annoiati. I due hanno una passione in comune: la settima arte. Hanno gusti affini ed entrambi si dilettano nei cortometraggi. Diventano amici e mentre collaborano per un festival, non ci importa quale, ai due viene l'idea: un soggetto semplice ed incisivo che parte da quella berlina bianca bloccata nella vegetazione australiana.
Un uomo, seduto sul sedile passeggeri, riprende i sensi. Dietro, nel suo seggiolino, c'è il figlioletto neonato. Sta bene. Accanto a lui, al posto di guida, la sua compagna si è trasformata in una zombie!
"Cargo" è una storia di morti viventi, quei triti e ritriti esseri dalla carnagione cianotica e dal viso pustoloso, che vagano per città semi distrutte alla ricerca della succosa carne umana. Un terreno minato che, con il suo mix di effetti e maquillage, può condurre facilmente ad esiti quanto mai scontati.
Ed invece i 7 minuti di "Cargo" spezzano ogni pregiudizio di sorta; dà allo spettatore la giusta adrenalina; la storia, quella del padre che cerca di salvare il proprio bimbo, tocca le corde emotive dello spettatore; e visto che anche l'occhio vuole la sua parte, il corto si fa apprezzare per un make-up quanto mai credibile. E vuoi che in giro non ci sia una produzione assetata di denaro desiderosa di metter su una versione extended?!

Il film:
Dal corto di cui sopra è stato tratto un lungo brodo direttamente fruibile su Netflix dal 18 maggio 2018. E meno male che si è evitato di occupare inutilmente sale cinematografiche, che poi, i grandi distributori ce lo avrebbero rinfacciato, magari facendo poi pagare lo scotto a produzioni (sempre indipendenti) di qualità superiore. Poi, ovviamente, sullo sfondo, procede incessante l'inesorabile risucchiamento su piattaforma online dei prodotti cinematografici.
"Cargo" riprende la struttura narrativa del suo corto di riferimento, senza modificare le parti essenziali del plot, ma estendendolo con qualche contenuto e qualche approfondimento qua e là: in sintesi trattasi di un'operazione di stretching narrativo.
Perciò, da questo punto di vista, ne esce, solitamente, nei casi di opera direttamente derivata da un corto, un qualcosa di pedissequamente ricalcato in certi punti ed in qualcosa di totalmente diverso in altri.
Nella fattispecie, il corto mostrava semplicemente il trittico famigliare classico (madre, padre, pargolo) in uno scenario australiano (ultimamente pare di tendenza) post-contagio. Il film, invece, innesta alcuni personaggi centrali, i quali portano con sé annesse tematiche.
Abbiamo, innanzitutto, la bambina aborigena dispersa nell'outback, la quale non si rassegna a considerare quell'essere infetto come un qualcosa di diverso dal padre che era. Sulle sue tracce c'è la tribù di appartenenza, capeggiata dal Wise Man anziano aborigeno di turno. Oltre ad articolare la trama, tale aggiunta conferisce un tono mistico al film (come resistere alla tentazione di filosofeggiare con gli aborigeni?) e si prende in carico il solito messaggio di sensibilizzazione verso la minoranza etnica in estinzione, senza per'altro eccedere nei moralismi o nelle idealizzazioni.
Perciò, a parte alcune inutili licenze di stile, bisogna dargliene atto. Ma sicuramente la ricerca di un contatto panico con la natura non viene espressa in un modo tale da trasportare la visione. 
Non si può poi prescindere dal villain (Vic); come da tradizione di genere il pericolo principale è rappresentato non dalla massa di infetti, ma dall'uomo, in questo caso un bifolco dal grilletto facile, che ha rielaborato un concetto tutto suo di sopravvivenza. Ma anche sotto questo aspetto "Cargo" ha il pregio di umanizzare la brutalità di chi, di fronte al caos dilagante, si è spogliato di ogni senso di colpa e si trascina con la sola forza dei suoi istinti. Il personaggio di Vic non fa che rispondere costantemente ai suoi bisogni primari, senza curarsi minimamente di calpestare il prossimo.
Ma in fondo ci viene mostrato come sia molto umano il suo attaccamento alla vita e a tutto ciò che possa essere bramato dall'uomo; la redenzione non può che essere dietro l'angolo. 
La vera particolarità di "Cargo" sta nella coerenza assoluta nel non voler mostrare: gli infetti non sono mai al centro della scena, sono relegati sullo sfondo della messa in scena ma anche della trama e, spesso, le loro azioni avvengono fuori campo. In generale il film evita di immolarsi alla violenza, sempre molto pervasiva e sensazionalistica nei film di settore (i Romero in primis, ma anche i recenti "28 giorni dopo" e "28 settimane dopo"). Ed anche l'accento sul macabro, presente nel corto e nel poster del presente film (ah il marketing!), viene edulcorato, specie riguardo al make-up degli infetti. 
Poi però ci pensa la regia di Howling e Ramke (chissà se si offende la seconda per non essere mai citata per prima) a banalizzare il film: scene senza senso, scene senza scopo, ritmo spezzettato e naufragante. Davvero si fa fatica a mandare giù l'inutilità di alcune sequenze e la banalità di altre: ecco che allora la morte di un personaggio viene resa in un modo semplicemente comico e grossolano, laddove doveva rappresentare un momento altamente drammatico; o, ancora, si indugia sull'elemento patetico e ridondante. Per non parlare poi di una scena verso la fine della pellicola, che vede protagonista un uomo e 6 proiettili; lasciamo allo spettatore lo sfizio di contorcersi. 
"Cargo" era semplice e intuitivo ma davvero riuscito come corto, commovente e adrenalico. Cosa che non riesce ad essere la sua emanazione cinematografica: dispersivo, a tratti fastidiosamente melenso, diretto stancamente e poco stimolante nelle sue novità. Sembra poi molto fine a se stessa la scelta di mettere in risalto la presenza, piuttosto stilizzata, degli aborigeni.
Resta la godibilità di un prodotto di settore che si avvale del viso sofferente di Martin Freeman e che ha la capacità di far empatizzare, almeno in parte. 
Niente di nuovo sotto il sole australiano. 

Habemus Judicium:
Bob ft. Ismail

lunedì 4 giugno 2018

"A BEAUTIFUL DAY" (2017) DI LYNNE RAMSEY

Sogno o son desto? Si starà chiedendo lo spettatore che si trova di fronte a un'opera così cucciolosa come "A Beautiful Day".
Ciao cucciolotta! Ma come sei bella e pacioccosa.. Vieni qui che ti stringo quelle guanciotte!
Partiamo dal titolo che, nell'era dell'adattamento italiano 3.0, si pone ad uno step successivo rispetto al passato: non più storpiatura di titolo inglese con titolo italiano, ma, addirittura, storpiatura from inglese to inglese; la qual cosa è già di per sé bizzarra, ma va aggiunto il fatto che, in questo caso, è un'operazione migliorativa: "You Were Never Really Here" è qualcosa di terribile, specie considerando il fatto che rende bene l'idea del flipper onirico dentro cui viene sballottato lo spettatore. Ma forse stiamo anticipando un po' troppo della presente disamina. 
Tornando al principio esponiamo la trama: Joe (Joaquin Phoenix) è un ex militare ora killer di professione, ormai stanco del suo lavoro e infestato dai suoi traumi pregressi. Il senatore John McClean gli affida un incarico delicato: trovare la figlia Nina, rapita da alcuni trafficanti di schiave sessuali.
Pronti, via il film si spara tutto il bagaglio synthwave anni '80. E la regia, fatta di continui stacchi alternati a riprese statiche, strizza l'occhiolino alla moda Refn.
Parlando terra terra siamo di fronte ad un classico action iperrealista che cita diverse opere del passato (un modo come un altro per dire che prende un pezzo di quà e uno di là per poi assemblarli). La particolarità, che almeno in parte gli va riconosciuta, sta in quello stile evanescente e naif. 
Il film vuole trasmettere il candore di menti limpide (Joe, la madre e Nina), devastate dalla brutalità del prossimo, ma, pur sofferenti e claudicanti, deformate nel corpo della e nella mente, sempre custodi del proprio io incontaminato. 
Il rapporto tra Joe e la Madre è tra le più belle rappresentazioni cinematografiche. La mano femminile del regista, Lynne Ramsey, può aver aggiunto quel tocco di sensibilità in più nel rendere la meraviglia di un amore incondizionato, rimarcato nelle piccole gestualità del quotidiano. 
Viceversa il rapporto del protagonista con la lolita del film, Nina, non solo non aggiunge nulla a quanto già visto nei citati predecessori ("Léon" e "Taxi Driver"), ma è di una debolezza evidente, sia a livello di dialoghi che nella sua costruzione. 
L'impressione complessiva del film è di un'opera con del potenziale, che però calca troppo la mano su elementi emotivi e scene ad effetto: per citarne un paio, si può dire che sentire rimbombare fuori campo, per tutta la pellicola, il conto alla rovescia di Nina (già di per sé espediente grossolano) , per ricordarci continuamente il suo modo di distrarsi dagli abusi a cui era stata sottoposta, significa andarci giù di pennellone.
E che dire della, pur concettualmente magnifica, scena della sepoltura in acqua? Un approccio evocativo e intenso nel suo mistico e doloroso richiamo pagano, che sfocia in una lunga  e scadente inquadratura new age, non degna nemmeno di una pubblicità di acqua minerale. 
Ma la regia di Miss Ramsey va bocciata, sopratutto, per quei continui stacchi fotonici, che dovrebbero creare un cortocircuito nella visione e rendere così più traumatici i flashback del protagonista: il risultato più che impattante è confusionario. Sfido chiunque a capirci compiutamente qualcosa. 
Dall'altro lato assistiamo a eccessivi rallentamenti: momenti eccessivamente statici e riflessivi che tanto vanno di moda. Fin quando lo fa Refn lo si accetta perché è coerente con la visione e lo stile del regista (e che stile). Ma poi arrivano questi epigoni non all'altezza e il risultato è stancante.
Viene da chiedersi perché Phoenix abbia accettato di recitare in questo film, che sicuramente, risulta totalmente incentrato sulla sua presenza scenica (anche fisica). A giudicare da come rende il personaggio, pare che lo abbia preso seriamente, in quanto sfodera l'ennesima prova d'attore. E il che non può che dare una disperata mano a risollevare un po' il giudizio complessivo. 
In conclusione siamo di fronte ad un tentativo non riuscito di creare un film sui generis, pur attingendo dal più classico tema action del giustiziere. Qualche potenzialità, un'atmosfera a tratti coinvolgente, ma tanta foga grezza di coinvolgere il pubblico, che, di fronte a questo insipido ibrido, non può essere identificato né nella nicchia né nella media dei fagocitatori di action.
Né carne né pesce.

Habemus Judicium:
Bob Harris