lunedì 30 maggio 2011

CONTADOR: UN TITANO AL GIRO O UN FUORICLASSE DEI DISONESTI?

"E' Contador!" direbbe Auro Burbarelli. E, in effetti, questo 94° Giro d'Italia è stato un lungo monologo del ciclista spagnolo. 
Sono due gli elementi che colpiscono dell'impresa del ciclista madrileno: il distacco di oltre 6 minuti dal secondo nella classifica generale, Michele Scarponi, e soprattutto il fatto che tale divario sia maturato attraverso tappe disumane. Zoncolan, Giau, Colle delle Finestre, Sestriere, Etna, Grossglockner e Gardeccia sono state le location da brivido dell'impresa del Titano Alberto. 
Mai in difficoltà, sempre in attacco, un Contador così non lo abbiamo mai visto. Dopo aver vinto 3 Tour de France, 1 Giro a forza di abbuoni, rapide fiammate e prove a cronometro mostruose, il tutto sempre con distacchi minimi, quest'anno abbiamo assistito a una rincorsa epica alla maglia rosa. 
Fin da quei 50 secondi guadagnati sull'Etna nei confronti di Nibali si capiva quale sarebbe stato l'epilogo della corsa. 
Le tappe successive di montagna (in tutto 7 arrivi) non hanno fatto altro che rafforzare il divario. La crono poi è stato l'epitaffio sulle velleità presenti e future dei rivali di Contador. E qui vorrei soffermarmi: comincio con l'escludere dal lotto dei pretendenti Roman Kreuziger e Denis Menchov (per non parlare degli anonimi e remissivi Joaquim Purito Rodriguez e Carlos Sastre): il primo è acerbo, ma il ragazzo si farà, è talentuoso e sfacciato e, nei prossimi anni, potrà dire la sua; Menchov è corridore alla Di Luca (sempre che vogliamo considerare corridore importante un atleta condannato a due anni di squalifica per uso di CERA, dopo averne scontati tre a seguito della condanna seguente all'inchiesta Oil for Drugs): è lì nel gruppo dei migliori, fra gli ultimi ad arrendersi al fenomeno di turno e può capitargli di vincere una grande corsa a tappe, sfruttando magari l'assenza della concorrenza con la C maiuscola.
Rimangono Scarponi e Nibali
Il marchigiano dal passato torbido, squalificato per due anni dopo aver ammesso di aver avuto legami con Fuentes nell'inchiesta che porterà alla squalifica di alcuni fra i più grandi corridori dell'epoca dei fatti (Basso e Ulrich), va per i trentadue anni. Per quanto ciò non significhi che non potrà togliersi qualche soddisfazione, anche vincendo una delle tre grandi corse a tappe, rimane un corridore della stessa specie di Menchov e Di Luca. Le sue fortune dipenderanno dal livello dei rivali e, se saprà sfruttare l'occasione di assenze illustri, potrà arricchire il palmarès. Il tempo gli è tiranno, avrà 3 o 4 anni al massimo di grande livello. Sempre che non lo becchino prima carico come una sveglia.
Vincenzo Nibali
Nibali è la croce e la delizia del ciclismo nostrano: è il tipico ciclista moderno, forte in tutto, salita, crono, discreto passista e superlativo in discesa. Purtroppo, però, non è in grado di fare la differenza in salita, mostrando, anzi, di essere predisposto ad andare in crisi alla lunga. 
Doveva essere il suo giro, ma è ampiamente rimandato. Nessuno pretende che Lo Squalo dovesse battersela con il titano Contador, ma se l'anno scorso tenne dietro Scarponi, non si capisce perché quest'anno abbia dovuto prendere la paga da lui. I suoi tentativi di attacco hanno solo avuto un effetto boomerang: se, da un lato, hanno esaltato il suo coraggio e la sua voglia di lottare, dall'altra lo hanno esposto ad attacchi e crisi psico-fisiche. Il rischio è che un talento puro del ciclismo italiano rimanga una promessa. Vedremo.
Ma il Giro di quest'anno è stato anche il giro delle polemiche
Alejandro Valverde
Comincio dalla più sterile: la cancellazione della discesa del Crostis. E' un peccato ed è una vergogna. La pressione di alcuni team ha spinto l'UCI a prendere una decisione ridicola, tanto nelle motivazioni (20 km senza ammiraglie,sic.) quanto nella tempistica, dato che è stata presa la sera prima del percorso. Alla faccia di tutti coloro che hanno lavorato per rendere sicura la discesa. 
Senza contare poi che squadre e ciclisti sapevano già da mesi il percorso del giro e, per quanto disinteressati, dovevano rimanere coerenti con l'accettazione che avevano fatto. 
Altre polemiche minori riguardano l'antisportività dei corridori spagnoli, che chiaramente hanno favorito Contador nei momenti più difficili. 
Perciò quasi quasi si meritano che l'organizzazione del Giro, al momento della premiazione di Contador, abbia suonato, toppando clamorosamente, l'inno franchista, suscitando sdegno da parte del popolo iberico. Poveri piccini. Così onesti e umili, sportivi e obiettivi. La Federparacula Spagnola (penso si chiami proprio così) ha dimostrato di essere molto propensa a coprire i suoi corridori con leggi permissive, in tutti gli sport. 
Vi ricordate Fuentes di cui ho parlato sopra? Figuriamoci se gli spagnoli accettavano di condannare corridori evidentemente coinvolti come Alejandro Valverde e lo stesso Contador. Ci voleva la procura del Coni a sollecitare, dopo anni, un intervento dell' UCI su quel mascalzone, eterno perdente, di Valverde. 
E ci voleva il caso clenbuterolo scoppiato durante il Tour del 2010 per rendere vulnerabile, davanti alla giustizia del Tas, quel furbacchione di Alberto. Ma di certo non è colpa sua se ha mangiato una fettina di carne contaminata...no? Mi sa che gli tocca diventare vegetariano
Di sicuro c'è che le prestazioni dello spagnolo sono disumane. 
Quando Riccò scattò in faccia agli avversari nel Tour del 2008 si gridò allo scandalo e dal gruppo volarono accuse pesanti, rivelatesi poi fondate. Ma sulla base di cosa? Di un'impresa sovrumana?Sovrumana come quelle di Contador? E perché il gruppo non lo accusa allo stesso modo?
Lungi da me, che ho a che fare quotidianamente con la legge, il voler emettere sentenze premature. Il dubbio però rimane e se due indizi fanno una prova.
Di sicuro c'è che Contador è abile nel tessere alleanze ed è stimato e rispettato dal gruppo dei corridori. In più ci pensa il peso politico della Federazione Spagnola. Queste sono solo insinuazioni, ma sono legittimate da episodi che hanno dell'assurdo e minano la credibilità di questo sport, già parecchio sotto accusa.

Bob Harris

domenica 29 maggio 2011

"CITY OF GOD" (2002) : IL CINEMA BRASILIANO DI QUALITA' (PARTE I)

Se dovessi scegliere un film che per certi aspetti mi ricorda ""Valzer con Bashir"(LINK)" direi senza dubbio "City of God": una pellicola che sa disorientare e sconvolgere lo spettatore, ed allo stesso tempo imprimere piacere nella visione con il suo stile accattivante.
Presentato fuori concorso al 55esimo Festival di Cannes nel 2002 e candidato a 4 premi Oscar, senza peraltro vincerne nessuno, l'opera porta la firma di Fernando Mereilles che si farà apprezzare successivamente con film di matrice hollywoodiana come "The Constant Gardener"e "Blindness"
"City of God" non è un film di denuncia. Il suo scopo non è mostrare la realtà dei fatti. I riferimenti a problematiche di attualità resta sempre marginale e generica. Semplicemente il film vuole raccontare una storia, anzi, più storie che si intrecciano fra loro. Storie che lasciano il segno per il loro svolgimento, ma soprattutto per il modo in cui ci vengono raccontate.
Mereilles è abile a dirigere il film prendendo a modello Tarantino Danny Boyle: dal primo mutua l'intreccio di personaggi e storie, ciascuna delle quali interdipendente dall'altra; dal secondo, invece, lo stile ipercinetico tipico dei videoclip, e quella fotografia intensa e colorata cara al regista di Manchester.
"City of God" sono 30 anni di vita (si va dagli anni '60 agli '80) in una favela brasiliana, un'epopea del crimine a cui non mancano elementi da tragedia greca.
Il protagonista, nonché voce narrante, è Buscapè, un giovane cresciuto della Città di Dio, sempre estraneo a violenze e criminalità e con il sogno di diventare un fotografo. E proprio per via della sua onestà, di tanto in tanto defila dal racconto dovendosi accontentare della funzione intradiegetica.
Allora spazio a Cabeleira, Marreco, Benè, Galigna e Cenoura, tutti personaggi presi da qualche poema epico e catapultati sul grande schermo. Oppure a Mane Galinha (bandito realmente esistito) che ci porrà dinanzi al quesito principale del film: ha senso vivere in modo onesto in un mondo, un ambiente in cui solo la violenza paga ed assira il giusto futuro?
E sopratutto spazio a Ze Pequeno, iper-violento, represso e nichilista, una figura titanica ed (auto)distruttiva attorno la quale costruire le trame narrate. Quando è in scena si può solo assistere passivamente alla violenza gratuita ed esasperata di cui egli fa uso e della quale sembra nutrirsi.
Immaginerete facilmente la presenza di scene crude, come uno stupro e l'uccisione di bambini, seppur mitigate da una forma che nega la visione esplicita e rispetta la sensibilità dello spettatore.
Così come non mancano gli intrecci tra diversi piani narrativi e temporali, lasciati in sospeso, ripresi e razionalizzati dalla voce fuori campo, un montaggio frenetico e d'impatto che ha richiesto ben 5 mesi di post-produzione.
Mereilles ci offre una gangster story alternativa rispetto ai canovacci tradizionali ed in grado di appassionare, una pellicola che, dietro l'impacchettamento pop, mostra la capacità di saper sa raccontare il lato disperato della società. Il cinema brasiliano, così di periferia ai nostri occhi, mostra capacità e coraggio nel raccontarsi. Lavori come "City of God" e "Tropa de Elite"(LINK) , stanno lì a dimostrarcelo.

Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 9 maggio 2011

"BLOODY SUNDAY": FINTA CRONACA DI UNA TRAGEDIA VERA

«How long? How long must we sing this song?»; erano gli anni '80 e gli U2 cantavano al mondo le violenze del 30 gennaio 1972, emblema dell'odio intestino che aveva infestato gli animi di cattolici e protestanti nord irlandesi.
Quel giorno doveva esserci solo una pacifica marcia di rivendicazione, ma si trasformò in un bagno di sangue. E purtroppo parliamo di sangue puro, anzi il più puro. Il sangue di chi ha ideali nei quali crede immensamente e che non sceglie di realizzarli con la violenza, ma percorrendo la via più difficile: sopportare e reagire pacificamente. Tutte le vittime della domenica di sangue erano disarmate, indifese e persino prostrate all'aggressore. Alcuni furono colpiti alla spalle, altri vennero finiti dopo essere stati feriti e immobilizzati. E poi c'era John Johnston che a quella manifestazione neanche partecipava, stava andando a trovare un amico e morì pochi mesi dopo per le ferite riportate.
I parà inglesi spararono sulla folla perché avevano perso il controllo della situazione; alla confusione ed al panico non seppero reagire adeguatamente. Tra i militari non mancarono gli esaltati, quelli che non aspettavano altro che riversare il loro disprezzo sul popolo irlandese, godendosi appieno l'esaltante carneficina di cui si stavano rendendo protagonista. 
Questo almeno è, in parte, ciò che ci mostra il regista Paul Greengrass.
"Bloody Sunday" appartiene alla categoria dei Mockumentary, finti documentari che tanto vanno di modo di questi tempi. Appartiene al genere ed allo stesso tempo sfugge da esso. Difatti, a differenza degli altri, la storia rappresenta un evento reale e non è frutto della mente di uno sceneggiatore. E la sfida sta tutta qui, nel mostrare un accadimento storico in modo documentaristico, quasi come se la camera fosse stata lì a riprendere, in quelle ore concitate. Cosa impossibile quel giorno di gennaio, non tanto per i mezzi dell'epoca, quanto per la gestione della vicenda. 
Per anni quegli eventi vennero insabbiati distorti dal governo di sua maestà.
Si arrivò ad affermare persino che tutte le vittime fossero armate e avessero avuto atteggiamenti ostili nei confronti delle truppe inglesi. A rendere giustizia sono arrivati i risultati della commissione d'inchiesta istituita da Tony Blair nel '98, la quale ha riconosciuto (nel 2010) la falsità delle dichiarazioni rilasciate nel '72 dai soldati inglesi.
Ma torniamo al film.
La macchina da presa segue freneticamente le ore antecedenti al massacro. La soggettiva si focalizza sul personaggio di Ivan Cooper, protestante membro del parlamento nord irlandese ed organizzatore dell' Associazione dei diritti civili dell'Irlanda del Nord. Si passa tra i giovani che si recano alla manifestazione; si giunge all'altra parte della barricata, tra le file dei soldati e dell'alto comando inglese.
Ne viene fuori un film concitato, in cui si respira la celebre calma prima della tempesta ed in cui oscuri presagi anticipano i fatti che di lì a poco accadranno.
La tensione cresce con le lunghe sequenze dei preparativi della manifestazione. Nell'aria si respira la loro ansia mista ad eccitazione. La fotografia è fredda e dominata da colori scuri, ci trasmette il cupo di un ambiente che vive una situazione irreale, quasi da scenario post-apocalittico.  Il montaggio frammentario e spezzettato, tipico dei documentari, e l'assenza di una colonna sonora ci calano in realismo tangibile.
"Bloody Sunday" funge poi da inchiesta, mostra il perché gli eventi presero quella piega, suggerendo un nesso causale tra gli eventi ed il fenomeno di ribellione armata allora nascente: l'IRA.
E quando, ai titoli di coda, parte la canzone degli U2, si crea un raccordo emotivo fra le shockanti immagini fin lì mostrate e la reazione dello spettatore.
Non c'è espiazione nel film, così come non ci fu nella realtà. E consci di ciò, si può solo provare un profondo senso di ingiustizia. "Bloody Sunday" non è niente più di questo e non vuole esserlo. La verità ci è stata per lunghi anni negata ed il film non solo ce la restituisce, ma ce la vuole mostrare, vuole che lo spettatore si immedesimi e si senta parte di una delle pagine più nere della storia recente. Una visione dolorosa, ma necessaria.

Habemus Judicium:
Bob Harris

domenica 8 maggio 2011

CAPPUCCETTO ROSSO SANGUE: UN TWILIGHT SENZA VAMPIRI

La favola di Capuccetto Rosso la conosciamo tutti, perciò l'uscita al cinema di un film dal titolo "Cappuccetto Rosso Sangue" non poteva che destare curiosità e attesa. 
Il problema è che bisognava tenere conto di un piccolo particolare: il regista, che, in questo caso donna, è Chaterine Hardwicke. Ex architetto e scenografa di successo (ricordo film come "Three Kings" e "Vanilla Sky") è passata dietro la macchina da presa, specializzandosi in film dalle tematiche adolescenziali: " Lords of Dogtown", "Thirteen" e soprattutto lui. Si dai quel film pieno di vampiri e lupacchiotti innamorati. Si, insomma, "Twilight". Ossia la storia di un vampiro che ama una mortale che ama lui, ma non disdegna nemmeno un indiano mutaforme che assume spesso sembianze da lupo. 
Semplice, no? 
Con trama inesistente, il film è stato riempito da una marea di cazzate una dopo l'altra, fra cui cattivoni di turno depressi e rinunciatari, trovate indecenti (i vampiri che luccicano al sole e quando colpiscono una palla da baseball con la mazza producono un rumore identico a quello di un tuono...!) e caratterizzazioni degne dei peggiori teen movies. 
Se, quindi, "Twilight" deluse le aspettative di molti poco informati che si aspettavano un film horror, "Cappuccetto Rosso Sangue" deluderà chi si aspetta un film fantasy
Siamo di fronte alla solita solfa: lei ama lui, lui però è maledetto, il loro amore è tormentato, etc etc.
Insomma, il genere fantasy-horror diventa un pretesto per impacchettare la classica storia d'amore adolescenziale con una struttura narrativa che ricorda molto, se non fotocopia, l'illustre predecessore. Si fa solo a meno dei vampiri: il lupo finalmente diviene protagonista.
E manco a dirlo, il film non vi spaventerà mai, neanche mezzo secondo.
"Cappuccetto rosso sangue", se togliamo il preponderante stile alla "Twilight", risulta essere un misto tra "The Village"(2004) e un giallo qualsiasi di Conan Doyle. A questo si può aggiungere "Solomon Kane"(2009), modello che si palesa con l'arrivo in scena di padre Solomon (ma ti pare...), un invasato e machiavellico cristiano interpretato da Gary Oldman (ah quanti bei soldini), che non risparmierà nessuno per raggiungere il suo scopo: trovare il lupo.
Bella invece la cornice scenografica, un villaggio vivo e pulsante, abitato da una serie di caratteri, ognuno dei quali con una propria dignità e tutti indiziati nella fase investigativa del film, in cui Cappuccetto Rosso cerca di capire chi di loro sia il lupo. Da questo punto di vista la Hardwicke se la cava egregiamente nel mischiare le carte in tavola, garantendo un minimo di suspense
Ultima menzione va per i due protagonisti: Amanda Seyfried e Shiloh Fernandez. Entrambi recitano da cani (anzi, da lupi...). Lei è perennemente mono-espressiva nella sua disperazione. Lui un mono-musone immerso nel risentimento/rabbia. E poi, va bene la rilettura in chiave pop, ma lui vestito come una rockstar proprio nun se po' vedè. 
Che robetta insipida.

Habemus Judicium:
Bob Harris

martedì 3 maggio 2011

FIORELLO: STORIA DI UN PREDESTINATO

«Era la metà degli anni novanta, giravo con guardie del corpo, addetto stampa, segretarie. Avevo fidanzate da rotocalco e storie da una botta e via. Non parlavo più con nessuno, tiravo cocaina. Mi sentivo un duro e invece ero un pupazzo». 

Se vi dico il nome Fiorello che vi viene in mente? 
I più giovani risponderanno: "lo showman che imita La Russa, Buongiorno, Mucciaccia e via dicendo". 
Quelli un po' meno giovani invece si ricordano di un altro Fiorello, un ragazzone munito di codino e sorriso brillante, dall'aria scanzonata e goliardica, che per anni, parlo dei 90s, è stato un'icona del panorama giovanile. 
Rosario Fiorello nasce a Catania il 16 maggio del 1960
Fin da piccolo mostra una naturale predisposizione a intrattenere la gente, nelle sue innumerevoli scenette che, agli inizi, avevano come spettatori amici e parenti. 
Ormai ragazzo si avvicina al circuito dei villaggi turistici Valtur, dapprima come aiuto cuoco e barman. Poi, divenuto animatore a tutti gli affetti, comincia ad affinare le sue capacità e il suo talento di fronte a un pubblico sconosciuto. E' questo il periodo in cui Fiorello si fa le ossa e rafforza la sua personalità scenica. 
I villaggi turistici diventano così fucina di una futura stella, ma anche vetrina per possibili talent scout. 
E così capita l'occasione giusta, un provino davanti a Pippo Baudo. Viene però scartato: «sei bravo caro Fiorello...ma non ti prendo! Non hai i tempi giusti, i tempi televisivi per la mia trasmissione»
Ma quando sei un predestinato l'occasione ti si ripresenta. E difatti accadde proprio questo. L'occasione venne sotto forma di Bernardo Cherubini, fratello d'arte, del ben più noto Lorenzo. Bernardo si trovava in uno dei villaggi in cui Fiorello faceva da animatore. Notò il suo talento da showman e lo propose a Claudio Cecchetto di Radio Deejay, con il quale era in contatto grazie al fratello. 
Il ragazzo siciliano approda così a Milano
L'anno è il 1989Quelli erano gli anni della Milano da bere («e io me la sono bevuta tutta!» dirà poi), in cui moda la facevano da padrona e in cui radio e televisioni sperimentavano nuove forme di intrattenimento ed i palinsesti istituzionalizzati del giorno d'oggi erano ancora lontani. 
Fiorello arrivò a Milano (divideva tra l'altro l'appartamento con un certo Sandy Marton) come se fosse un uomo di Neanderthal. Disordinato, casinista, ritmi di vita e comportamenti disumani. 
Su tutti il famoso episodio della coscia di pollo: talmente era incasinata la sua camera che Fiorello una mattina se la ritrovò nel letto. Ma il ragazzo si farà e ci vorrà poco tempo prima che i suoi modi semplici e spartani da bestia da villaggio turistico si trasformino in uno stile brillante e trendy. 
Arriva la collaborazione in radio con Marco Baldini all'interno della trasmissione Viva Radio Deejay e con essa una schiera di fan sempre più nutrita. 
Il suo repertorio è pressoché completo: imita, canta, intrattiene e, inoltre, ha uno stile accattivante che può facilmente fare presa e tendenza. 
Così viene chiamato a condurre il Karaoke, una trasmissione televisiva che si propone di introdurre un format allora sconosciuto in Italia: a chiunque viene data la possibilità di cantare su un palco per qualche minuto; a tutti si garantisce l'attimo di notorietà. Siamo nel '92
Il debutto televisivo però non è di quelli sperati. 
Le registrazioni delle puntate che vengono mandate in onda, sembrano non attirare più di tanto l'audience. I dati auditel sono tiepidi e insoddisfacenti. Si decide perciò di mandare le ultime puntate registrate e poi chiudere il programma. 
Poi accade l'incredibile. 
Le ultime registrazioni cominciano ad avere un successo strepitoso, superando il 24% di share. Fiorello viene così richiamato a presentare altre puntate. 
Codino e giacca colorata sono i suoi marchi di fabbrica, il pubblico è tutto per lui: "Fiorello!!!" urlano folle di ragazze. 
Fiore esce di casa e viene assalito dalla massa, Fiorello va la cinema e...beh, stessa cosa. Ormai è una stella. Tutto sembra perfetto. Fama, soldi ,donne, talento, non gli manca niente. Ma l'animo del ragazzo è in crisi. 
Due sono le cose che lo tormentano: per prima cosa, Rosario sente di non essere lui quel personaggio. E' diventato famoso si, ma non grazie a ciò che sapeva fare meglio: intrattenere e far ridere il pubblico. Il suo compito si limita a passare il microfono di persona in persona e introdurre nuovi concorrenti. E chi ha avuto la fortuna di conoscerlo ai tempi della Valtur non fa che ricordaglielo. 
In secondo luogo bisogna considerare un aspetto non secondario: un ragazzo come tanti, cresciuto in condizioni modeste, non è pronto a reggere l'urto di un successo così strabordante e improvviso. 
Di colpo la sua vita viene data in pasto ai media, la sua privacy azzerata. Per di più la sua relazione con Anna Falchi contribuisce a spingerlo ulteriormente sotto la luce dei riflettori. 
I giornali parlano, anzi sparlano, e lo fanno continuamente. 
Va da sé che piano piano, si monta la testa e perde contatto con la realtà. Ormai conduce una vita da star, immerso però nella solitudine di chi attraversa una crisi di identità, causata dal troppo successo. 
In questo periodo esiste solo un'amica per Fiorello: la droga. Egli avrà più tardi a dichiarare: «Cocaina. Per me è stata una malattia. La cocaina è il diavolo, ti illude di non essere solo, ti convince di essere il più forte. Tanti la prendono, tantissimi. Nessuno lo sa, nessuno li scopre. Avevo milioni di spettatori, avevo tante donne, avevo tutto, quindi non ho alibi, sono più condannabile di altri. Qualcuno, sui giornali, mi fece passare quasi per un narcotrafficante. No, ero solo caduto in un tombino, forse nel momento del massimo benessere. Ma pochi sanno quanto è triste trovarsi da soli, dopo la serata, in una camera d'albergo, con due guardie alla porta. Ne sono uscito grazie mio padre, non potevo tradirlo, uno che si batteva contro il traffico di droga, uno che ci aveva insegnato: 'Ricordatevi che un uomo onesto cammina tutta la vita a testa alta'».
Il segno più tangibile della sua rapida discesa nel baratro è l'apparizione al Festival di Sanremo del 1995
Qui canta la canzone Finalmente tu, scritta da Max Pezzali. L'interpretazione è sentita, Fiorello non si presenta a Sanremo da quando fu inviato per Radio Deejay, occasione in cui venne a mancare il padre. Logico che l'emozione è forte e tradisce lo showman che stecca diverse volte il pezzo davanti al suo pubblico. I tentativi di tornare in tv arrivano prima con Costanzo a Buona Domenica e varie conduzioni del Festivalbar (vi aveva già partecipato in qualità di cantante-conduttore con la canzone "San Martino"). 
La svolta arriva quando conosce la sua attuale compagna Susanna Biondo. La donna porta armonia nella vita di Fiore che trova così la forza per superare la depressione che lo perseguita. 
Dal 2001 conduce il programma radiofonico Viva Radio Due con l'ex-compagno di merende Baldini. Torna poi in tv con lo strepitoso successo di Stasera Pago Io
Finalmente lo showman può mostrare tutto il suo talento. 
Imita, canta, scherza con gli ospiti e il pubblico, presenta e balla, persino. E' un Fiorello al culmine della sua maturazione artistica. Diventa il numero uno, non solo dal punto di vista mediatico, ma anche artistico. 
Nel 2009 Sky lo ingaggia per un anno per condurre un varietà alla pazzesca cifra di 15 milioni di euro. Oggi si appresta a tornare in Radio con la trasmissione Il Buon Varietà su Radio 1
Il ragazzone simpatico e istrione, col codino e dal sorriso brillante ha lasciato spazio a un uomo maturo, pacato, seppur nella spontaneità e naturalezza che da sempre lo ha contraddistinto. Per chi ha nostalgia del primo Fiorello posto qui uno dei brani che ha fatto ballare una generazione di giovani italiani:


Bob Harris

domenica 1 maggio 2011

MOSTRI CITTADINI: DALL' UTOPIA ALL'ORRORE ( DAL RAZIONALISMO TEDESCO ALL' EUROSKY )

Le Corbusier-Unité d'Habitation di Marseille
Incipit:
Era il 1919 e in quel di Weimar (in Germania) nasceva la Bauhaus e con lei il razionalismo tedesco, corrente artistica assai rivoluzionaria, che si scardina dai canoni, ormai accademici, dell'Art Nouveau per rifarsi agli ideali socialisti che avevano infuocato l'Europa di fine ottocento, lasciandosi completamente alle spalle l'eclettismo e andando alla ricerca di nuove e più moderne frontiere.
L'intento degli esponenti di questa nuova corrente artistica (Le Corbusier, Mies Van Der Rohe, Frank Lloyd Wright ed altri) è rinnovare radicalmente l'architettura di inizio novecento, e creare così città utopiche che potessero rispecchiare il volere ed i bisogni degli uomini del domani, usciti da un terribile conflitto e completamente distrutti. Con l'avvento del cemento armato poi, si materializza la possibilità di creare nuovi edifici, sia nella tecnica che nella forma. 
Nello stesso anno in Italia vediamo nascere il Partito Nazionale Fascista che prende il sopravvento anche grazie alla disperazione del popolo italiano. 
Mussolini si fa promotore, anni dopo, di un enorme propaganda politica, sfruttando le caratteristiche salienti del razionalismo tedesco, privandolo fino all'ultimo degli ideali originali e trasformandolo in un'arma di regime: l'architettura doveva essere il simbolo della potenza monumentale del movimento fascista e del Duce. E' in questi anni che nasce a Roma l'EUR, il quartiere moderno che doveva rispecchiare perfettamente l'identità del regime. E' il 1945, la seconda guerra mondiale finisce e Mussolini viene giustiziato.
Mario Fiorentino-Roma,Corviale
Inizia la ricostruzione del dopoguerra che dura una decida di anni.
Si approda così negli anni '60 e '70, anni simbolo per l'Italia oramai uscita dalla guerra e dalla ricostruzione; con essi giungono i nuovi quartieri residenziali immersi nella verzura più rigogliosa, forniti di negozi, supermercati, teatri, spazi comuni e ricreativi, giardini, parchi, viali alberati; edifici resistenti, tecnologici, dotati di ampi spazi aperti e luminosi, lontani dal caos cittadino. Quartieri a misura d'uomo, pensati per uomini e donne di ogni ceto sociale: questa è la nuova frontiera dell'architettura e dell'edilizia! 
Il tragico risultato fu però la realizzazione, consapevole o meno, di giganteschi ghetti (due esempi sono il grattacielo di Rimini, ed il Corviale) in cui il degrado è divenuto l'unica prospettiva. L'arte viene meno e diviene un mostro sociale.

Riguardo l'Eurosky:
«L' immagine dell' Eurosky si propone nel panorama della parte di Roma su cui sorge un elemento chiaramente riconoscibile, un segno metropolitano autorevole e duraturo che darà un senso diverso alle emergenze verticali dell' EUR, conferendo ad esso una nuova e più significativa visibilità»
-Franco Purini

Tra mille peripezie, arriva il 2010 e nella Capitale vengono posate le fondamenta di un nuovo edificio, l’Eurosky, il più alto grattacielo residenziale del Bel Paese ed il primo della città eterna. 
Lo Schiacciamosche presenta palesi riferimenti all’architettura bellica medievale (l’idea della torre che sovrasta la città) con caratteristiche più moderne che si rifanno al razionalismo: le linee geometriche, la divisione regolare delle facciate, l’utilizzo del calcestruzzo e del granito.
I miei dubbi in merito sorgono spontanei: il grattacielo di Rimini fu presentato allo stesso modo; anche quello doveva essere un grattacielo residenziale per gente facoltosa e benestante, ma si è rivelato solo un abuso per gli occhi e per le tasche. 
Indubbiamente la scelta della location, nel nostro caso, è più azzeccata, ma si rischia davvero di creare un enorme torre che contrasta con il filo logico circostante, per non parlare poi del fatto che di avanguardistico non c’è quasi niente; ciò che poco più di 90 anni fa era il massimo dell’affermazione dell’uomo moderno, ora non è altro che la riproposizione di stili che ad oggi, inseriti nella nostra società, perdono di significato; il movimento è nato da grandi ideali, arrivato in Italia è stato assorbito e utilizzato come arma e infine, quando poteva finalmente essere riscattato, è stato trasformato in un mostro. 
La domanda è questa: i romani hanno davvero bisogno dell' Eurosky per far fronte alle “emergenze verticali” dell’EUR, o non è che l'ennesino esempio di come l'oro possa essere trasformato in letame?

MezzoForte