giovedì 28 dicembre 2017

L'ANGOLO DEL CULT #6: HALLOWEEN III IL SIGNORE DELLA NOTTE (1982) DI TOMMY LEE WALLACE

«Non sai molto su Halloween. Pensi che non sia nient'altro che la strana usanza di far indossare maschere ai tuoi bambini e farli uscire a elemosinare dolciumi»

Sembra che negli ultimi anni il terzo capitolo della saga di "Halloween" abbia subito un'operazione di vernissage, nata spontaneamente dal basso, ossia effettuata da folte schiere di cinefili che ne hanno rivalutato la portata fino ad innalzarlo allo status di cult.
La prima particolarità di questo film della saga di Michael Myers sta nel fatto che... non c'è Michael Myers. Eh si perché il terzo capitolo prende una direzione autonoma e slegata dal filone principale della saga. Il plot narra di androidi, riti pagani, maschere di halloween pilotate e jingles ipnotici. 
Già, poco stile Halloween la saga, ma tanta Carpenteria lo stesso: il regista americano qui è in veste di produttore, ma la sua mano si sente pesantemente, anche a distanza di macchina da presa.
Il male oscuro e ignoto, il lento e progressivo avvicinarsi della minaccia, scandito dal suono del synth, firma onnipresente di una filmografia, e la violenza tanto brutale quanto anonima, asciugata da ogni spettacolarizzazione, ma pur sempre esplicita e, a tratti, schifiltosa.
Non si grida al capolavoro, né al memorabile, ma, forse, è anche per questo che si è coniato il termine di cult. Una trama che, nonostante le bizzarrie, si dipana in modo piuttosto lineare, ma che gioca su un paio di colpi di scena riusciti. Tutto il resto è dannatissimo stile carpentierano, che già di per sé basterebbe, ma, soprattutto, è iconografia: iconiche sono le maschere di Halloween ed iconica la musichetta che accompagna le pubblicità della Silver Shamrock
I personaggi, pur semplici nel loro tratteggio, hanno un che di memorabile; ma più di tutto è noto che il cinema trae la sua forza dalla potenza delle sue immagini. Beh, che dire, quelle di "Halloween III" si stampano nella testa dello spettatore e continuano a ripetersi all'infinito, proprio come un vecchio jingle.

Habemus iudicium:
Bob Harris

domenica 24 dicembre 2017

L'ANGOLO DEL CULT #5: "UNA POLTRONA PER DUE" (1983) DI JOHN LANDIS

«I negri sono gente molto musicale, vero?»
-Randolph Duke-

Cos'è il Natale?! Ma è "Una Poltrona per Due", che domande! 
Recitava un vecchio detto cinese: "tre sono le cose sicure nella vita: la morte, le tasse e Una Poltrona per Due alla Vigilia di Natale".
Oggi si festeggia il ventennio tondo di programmazione del film di John Landis sulla rete del biscione. È dall'ormai (sigh!) lontano 1997 che Italia 1 si è presa a cuore l'onore di trasmettere la memorabile commedia del regista americano, ormai entrata nell'immaginario comune e, come direbbe la Tyrrel Corporation, questo film è più Natale del Natale.
Ma perché persistere nel mandare in onda un film del genere, considerando che, sul tema natalizio, si sprecano gli esemplari?
Viene poi naturale chiedersi che senso abbia parlare di un film già così radicato e metabolizzato nell'immaginario collettivo. Cercheremo di dare una risposta che valga almeno un dollaro.
A livello sinestestico "Una Poltrona per Due" è l'infanzia, i fritti, lo spumante e gli alberi di Natale con i loro generosi doni, possibilmente voluminosi; è il candore della neve, il freddo pungente e il tepore del focolaio domestico.
Ma soprattutto è l'odore plasticoso dei VHS (UPPD,  in quel mare magnum di cassette, era infilato tra "Grosso Guaio a Chinatown" e "Robin Hood") che girano continuamente dentro il videoregistratore fino a consumarsi.
Eccolo lo sguardo di un bambino, seduto proprio davanti al televisore, rapito da quelle immagini colorate, sensuali e magnetiche, sfiorato da quel leggero turbamento preadolescenziale, di fronte ad una Jamie Lee Curtis luminosa e sbarazzina, che gioiosamente mostra i suoi seni generosi.
La potenza del cinema.
Partiamo dalla coppia perfetta: Dan Aykroyd ed  Eddy Murphy (quest'ultimo pescato dal cilindro della televisione, dopo la dipartita del compianto John Belushi) sono perfetti nell'incarnare quella contrapposizione psico/fisico/sociale sullo schermo. Due comici complementari: uno minimalista e sommesso, l'altro istrionico e perennemente sopra le righe.
Ma un evento (e un avvento) cinematografico del genere non sarebbe stato possibile senza un'alchimia perfetta di tutto il cast, con una Curtis, fino ad allora celebre come Scream Queen, che tra parrucche cotonate, lustrini e gomme americane d'ordinanza, da buona donna vissuta fattasi da sé, prende il suo Amleto senza troppi complimenti o ricorrere a patetiche pazzie.
Ma il merito del successo di "Una Poltrona per Due" sta nella scrittura, nella capacità di contemperare perfettamente tensioni solo in apparenza divergenti. Sta nel genio che costruisce un caleidoscopio colorato fatto di scambi e travestimenti; uno spirito libertario che trova un perfetto punto d'incontro tra la commedia votata al cazzeggio ed alla demenzialità alla "Animal House" e quella parruccona, populista e a lieto fine alla Frank Capra. Il risultato è una satira sociale a vetriolo, poderosa costante della filmografia Landisiana.
That's the New Hollywood, baby!
Perciò la pellicola è tutto un serpeggiare di falso buonismo, che si traduce in una derisione compiaciuta del perbenismo della upper class, della quale mostra tutto il suo cinismo brutale.
"Una poltrona per due" è un'adorabile, furba e spietata commedia quindi, ma è anche minuzia e attenzione al particolare, dalle scenografie ai costumi, fino ai bivi e conseguenti soluzioni narrative.
Per esempio, chi è riuscito a capire al primo colpo la strategia finanziaria architettata dal duo comico riguardante i contratti "futures"? É talmente complessa, per chi non mastica di finanza, che Oliver  Stone se la sogna ancora la notte, per non aver pensato di inserirla in "Wall Street".
Perciò anche quest'anno spacchettiamo questo condensato di risate e stile, che ingolosisce lo spettatore a rispolverarne la visione periodicamente e ricordiamoci, ogni tanto fa bene, che quel bambino è ancora dentro di noi, pronto a meravigliarsi ora come allora.

Habemus Judicium:
Bob Harris & Ismail

giovedì 21 dicembre 2017

"LA CHIMERA" (1990) DI SEBASTIANO VASSALLI

« Non erano gente malvagia, né sanguinaria. Al contrario, erano tutti brava gente: la stessa brava gente laboriosa che nel nostro secolo ventesimo affolla gli stadi, guarda la televisione, va a votare, e, se c'è da fare giustizia sommaria di qualcuno, la fa senza bruciarlo, ma la fa, perché quel rito è antico come il mondo e durerà finché ci sarà il mondo».

Il lavoro nei campi di riso era il peggio del peggio.
Ore ed ore con la schiena curva, le gambe ammollo, un'afa insostenibile e nuvole di zanzare tutte intorno.
I risaroli scendevano dalle loro montagne in primavera, dei miserabili spesso messi in catene e sottoposti alla rigida sorveglianza di coloro che erano andati a reclutarli nei villaggi.
Per quel lavoro dovevano firmare un contratto con cui perdevano volontariamente la loro libertà, una schiavitù temporanea ma completa dalla quale era preclusa ogni possibilità di fuga; se ci avessero provato,  c'era la presenza ingombrante dei Fratelli di Cristo, sempre vigili e pronti a recuperarli.
Immagini che nulla ci dicono rispetto alla storia narrata, ma che molto ci fa capire dell'opera dinnanzi alla quale ci si trova: un romanzo storico, che fa riemergere dal passato volti, figure ed eventi, tutte chiavi con cui interpretare un presente confuso e caotico.
"La Chimera", un curioso titolo che si riferisce al granitico osservatore della valle, il monte Rosa, fu l'opera che consacrò Vassalli portandolo alla finale del Premio Campiello ed alla conquista dello Strega.
Scorrono le prime pagine e veniamo catapultati nel 1590 a Zardino, paesino del novarese cancellato della storia, dove, in una fredda notte di gennaio, fa la sua comparsa Antonia, una neonata dai capelli nero corvino, lasciata nella ruota degli esposti della Casa di Cura di San Michele.
Allevata ed educata con metodi rigorosi dalle suore del Convento, all'età di dieci anni vede arrivare una simpatica coppia con in dote il gran sedere della dama e tanti deliziosi biscottini. Sono i Nidasio, i quali, a scapito delle prassi del tempo, decidono di adottare lei, una bimba: Antonia può finalmente uscire da lì e vivere il mondo.
Cresce, si fa bellissima ed intraprendente, una giovinetta con il coraggio di esprimere le proprie idee e di prendersi la briga di rifiutare la mano dei tanti spasimanti; ma, e c'è sempre un ma, che futuro potrà mai avere in un paesino pieno di orribili comari pronte a dire la loro su ogni cosa?
Vassalli prende a pretesto la storia di Antonia e ci propone, attraverso una scrittura piena e corposa,  che accudisce il lettore, uno sguardo sul secolo dell'intolleranza, fatto di fascine, untori e streghe.
Nelle righe del libro tornano a vivere il vescovo di Novara Bascapè, il cardinale Borromeo, la Santissima Inquisizione con i suoi metodi persuasivi di indagine, il Caccetta (un Don Rodrigo storico), la gente delle risaie, i pittori di edicole, i preti di campagna. Si respira il clima politico, sociale e religioso dell'Italia della Controriforma, fatta di francesi e spagnoli che si contendono i territori nel completo disinteresse dei popoli, e di Papi ed altri prelati che seguono i loro interessi dietro una croce,  che cela e protegge ogni cosa.
Si è al cospetto di un'opera rigorosa, una sorta di Promessi sposi 2.0, che si protende lungo trame storiche ricchissime; un romanzo denso che, nonostante le anticipazioni di trama e le molte digressioni che potranno limitare il pathos e l'empatia ad alcuni, riuscirà ad avvolgere ed appassionare tutti gli amanti del genere.

Habemus Judicium:
Ismail

lunedì 18 dicembre 2017

L'ANGOLO DEL CULT #4: PET SEMATARY (1989) DI MARY LAMBERT

«I don't Wanna be burieeed in a pet semataryyy, I don't want to live my life agaaaiiin! » cantava Joey Ramone. E perché il frontman del gruppo punk newyorkese più famoso al mondo non voleva essere sepolto in un cimitero di animali? Perché quel cimitero è stato costruito di fianco ad un altro cimitero, indiano e malefico! 
Tra i punti più eccelsi della bibliografia di Stephen King, "Pet Sematary" è oggetto, alla fine degli anni '80 (1989 per la precisione), di una trasposizione cinematografica: la prima, ma non l'ultima, essendo in cantiere la realizzazione di un nuovo adattamento, previsto per il 2019.
In sintesi: cast ignoto e un po' anonimo, regia lineare, ma con dei pregi, e colonna sonora da urlo.
Basta aver letto anche solo un'opera di King, e non per forza l'omonima da cui è tratta questa pellicola, per rendersi conto che tale adattamento cinematografico racchiude e sprigiona l'humus orrorifico, morboso e malinconico tipico dello scrittore del Maine.
"Pet Sematary" fa paura, abbastanza paura. 
C'è qualcosa nella pellicola che dà un sentore di sinistro e malato, che va al di là dell'elemento paranormale su cui si basa.
È un qualcosa che lo accomuna ad un altro classico del cinema horror 80: "Hellraiser". 
Entrambi parrebbero film di serie B nati per sguazzare nel genere, ad uso e consumo rapido. Eppure si respira in essi un'aria pestilenziale, che non abbandona lo spettatore dopo la visione. Un tale fenomeno accade quando un'opera dell'orrore rappresenta le passioni umane nella loro essenza più parossistica, come un immenso scrigno che le  racchiuda e le sprigioni tutte assieme. 
Quando una visione diventa un'esperienza di questo tipo non c'è catarsi per lo spettatore, ma solo un opprimente senso di angoscia e turbamento. 
Non succede quasi nulla nel film, almeno secondo l'ottica di un cinema contemporaneo ipercinetico, costretto a tirar fuori ogni due per tre un trucchetto ad effetto, per tenere lo spettatore sufficientemente sveglio.
L'orrore sta tutto lì, ossia nel quotidiano incedere di un'esistenza appesantita dalla costante minaccia della sua caducità, dal dolore del convivere con un lutto e dall'impossibilità della sua piena elaborazione. Una visione crepuscolare che ha il merito di portare avanti con coerenza un mood sommesso e angosciante/angosciato.
Detto della mediocrità stilistica di attori e regia, tuttavia le due componenti rendono in maniera efficace. Ci sono almeno due o tre sequenze che restano impresse nella mente, senza più possibilità di dissolversi. Peccato per l'utilizzo eccessivo dell'espediente macabro dell'apparizione ectoplasmatica di Pascow: di forte suggestione visiva, via via che se ne abusa nell'utilizzo durante l'arco del film, essa viene inflazionata e ridotta a macchietta, protagonista di svariati sketch, cosa che fa a pugni con l'atmosfera lugubre del film e risultante essere un boomerang clamoroso. Da questo punto di vista il libro di King aveva saputo dosare tale elemento con grande maestria ed era dovere della produzione tenerlo presente. 
Privo di elementi iconici e cifre stilistiche (ad eccezione della summenzionata soundtrack), oltreché di un pathos davvero coinvolgente, pur scandito su ritmi cadenzati, "Pet Sematary" trova comunque la sua via e, avvolgendo lo spettatore in una nube di pena e tormento, sprigiona una certa potenza visiva in alcune sequenze davvero raccapriccianti e disturbanti.


Habemus iudicium:
Bob Harris

giovedì 14 dicembre 2017

"STAR WARS EPISODIO VIII: GLI ULTIMI JEDI" (2017) DI RIAN JOHNSON

Oh finalmente anche "Guerre Stellari" entra nella categoria dei film che sforano abbondantemente le due ore! Fino adesso erano stati bravi a mantenersi entro la soglia di tolleranza fisica e mentale. Ovviamente una mezz'ora gratuita, ça va sans dire.
Comunque, nel post "riformato" riguardante il "Il risveglio della forza"[LINK] si era accennato al fatto che si erano gettate le basi per costruire un'evoluzione esponenziale della storia e dei personaggi ed era lecito aspettare questo nuovo capitolo con discreto ottimismo.
Ebbene, quei semi sono germogliati e "Gli Ultimi Jedi" si presenta in tutto il suo rigoglioso splendore. Eh si, perché la titanica produzione Disney fa pienamente centro e sforna un capitolo avvincente, capace di tenere costantemente lo spettatore incollato alla poltrona e che si può già considerare, a caldo, tra i più memorabili.
"Lascia morire il passato. Uccidilo, se necessario. E' il solo modo per diventare ciò che devi": questa frase, con cui Kylo Ren esorta Ray ad abbracciare il lato oscuro della forza, è il motivo ricorrente del film che, come i suoi personaggi, finalmente spicca il volo, lasciandosi il passato alle spalle e avviandosi verso una direzione sua propria, in tutti i sensi.
Nel persistere in un'operazione di copiatura delle linee narrative dei predecessori, vediamo che episodio 8 ricalca gli intrecci in parte de "L'impero Colpisce Ancora" e in parte de "Il Ritorno dello Jedi". Del primo mutua il percorso di formazione dello Jedi e il rapporto allievo/maestro, del secondo riprende l'ambiguità del bene e del male, sempre in costante tensione e in procinto di sbilanciarsi l'uno sull'altro.
Proprio questo gioco di ambiguità, impersonificato dal trio Ben Solo (Adam Driver), Luke (Mark Hamill) e Ray (Daisy Ridley), rappresenta la parte più corposa del film. A conti fatti risulta essere vincente, ma con alcuni lati oscuri.
In primis il miscasting di Daisy Ridley, il quale, ne avevamo già parlato nel precedente post, emerge in tutto il suo peso: è doveroso ribadire che quel volto disneyano così pulito e parrocchiano, mal si presta a porre dubbi nello spettatore. Tradotto significa che, neanche per un momento, si prende in considerazione la possibilità che Ray impugni la light saber rossa dei Sith.
D'altro canto il volto sofferente e conflittuale di Adam Driver mostra l'oculatezza e la lungimiranza della produzione, lasciando in bilico, fino alla risoluzione finale, la possibilità di una sua evoluzione/redenzione. Soluzione narrativa che, però lascia l'amaro in bocca, tacendo ogni rimescolamento delle carte e confermando il punto da cui si era partiti.
E questo discorso vale, in definitiva, per tutti e tre i personaggi summenzionati.
Parlando del personaggio di Luke Skywalker, resta il dubbio se lo script ne danneggi l'immagine leggendaria o se la elevi al livello massimo; ma considerando la concezione del maestro Jedi, costante coerente nell'intera saga, viene da concludere che la sceneggiatura compie un capolavoro nel disegnare un personaggio decadente e dalla elevata complessità il cui ruolo è essenziale alla storia.
Gli altri protagonisti, da Leia a Fin, passando per Poe Dameron e Amilyn Holden (che attrice straordinaria Laura Dern) si incastonano perfettamente all'interno del mosaico complessivo e sono fattori positivi del film.
Le innumerevoli scene d'azione, per quanto sovrabbondanti e votate, in parte, al mero intrattenimento, sono figlie di una realizzazione sopraffina: tecnicamente ineccepibili e in grado di mantenere la tensione e il pathos a livelli stellari.
Ciò è segno di una produzione intelligente (possiamo tranquillamente dire "aziendalista") che sa quello che vuole, ma soprattutto sa cosa deve dare allo spettatore, anche e soprattutto a quello più attento e prevenuto . Si capisce, in ciò, chiaramente, che la realizzazione di "Rogue One" è stato un allenamento formidabile e ha permesso di accumulare tanta esperienza fondamentale per poter confezionare un prodotto successivo di tale caratura.
A tal proposito si nota con piacere l'introduzione, in una saga da sempre caratterizzata dalla pomposità e pienamente votata all'epico, dell'elemento ironico e autoironico. Ad un certo punto vediamo una navicella spaziale a forma di ferro da stiro e, nello stacco successivo, l'inquadratura di un vero ferro da stiro al suo interno, intento a stirare meccanicamente una divisa imperiale: che meraviglia. E di scene così ne è zeppo il film.
Come non menzionare poi la scelta di giocare con il tema della maschera del villain, oggetto di controversie già ne "Il Risveglio della Forza" e ridimensionata completamente fino ad essere accantonata, quasi a ledere la maestà di un elemento iconico e fortemente connotativo della saga.
In conclusione ci si trova di fronte ad un film che, probabilmente, ricalcando la struttura dei predecessori, poco aggiunge a livello di contenuti, ma che, giocando di sponda con essi e anticipando lo spettatore, inaugura un nuovo modo di concepire "Star Wars", improntato alla totale autoconsapevolezza e capace di trattare con maestria un materiale così delicato.
Aspettando il terzo atto, che presumibilmente chiuderà il cerchio, "Gli Ultimi Jedi" si inserisce a pieno titolo nell'olimpo di quell'immaginario che ha cresciuto generazioni di sognatori, portandoci ancora una volta in quella galassia lontana lontana.
Mica pizza e fichi. 

Habemus Judicium: 
Bob Harris

mercoledì 13 dicembre 2017

"STAR WARS EPISODIO VII: IL RISVEGLIO DELLA FORZA" - DUE ANNI DOPO

Sono passati due anni dalla mia non-recensione sul settimo capitolo di "Guerra Stellari". La mia disavventura che mi impedì di completare la visione è raccontata in quel post e, se avete voglia, andate a rivedervelo (Link).
In attesa dell'uscita prevista tra poche ore dell'ottavo tassello della saga, "Gli Ultimi Jedi", vorrei tornare sul luogo del delitto per concludere un qualcosa che poteva benissimo rimanere così come era, amabilmente incompleto, ma che non rendeva giustizia a una valutazione che si possa definire equidistante fino in fondo.
Ho avuto modo di completare la mia visione nello stesso modo in cui l'avevo spezzata, vale a dire infilandomi in una delle sale in cui proiettavano l'episodio VII e, così come non era mia intenzione iniziale interrompere la visione una prima volta, non era altrettanto mia primitiva intenzione il concluderla in una seconda tornata.
Solo che avevo pagato un truffaldino biglietto per assistere a quello strazio di "Vatican Tapes". Da qui l'idea malsana di fare un cambio in corsa, profittando della promiscuità del multisala, della stessa catena per'altro di quello che mi aveva sputato fuori la prima volta. Infine ho proceduto ad una seconda, stavolta completa ed ininterrotta, visione del film in dvd.
In definitiva "The Force Awakens" è un buon film ed ha anche personalità.
Perché ci vuole personalità per ribaltare i canoni del cinema classico e reazionario, di cui "Guerre Stellari" è sempre stato un paradigma. Prendi il nero e lo fai innamorare della bianca. Prendi il nero e gli fai fare lo stormtrooper con i rimorsi di coscienza e ribelle. Prendi le donne e le fai diventare davvero cazzute. Una diventa il capoccia delle truppe imperiali, l'altra diventa un Jedi in erba, ibrido tra Han Solo e Luke Skywalker.
Resta il fatto che Daisy Ridley con quelle fossette alla George Michael e quella faccia da Disney, suscita ben altre emozioni, rispetto all'aura di epicità e sacralità confacente al ruolo. Forse un miscasting, ma vedremo in futuro (cioè già da stasera).
I vecchi in realtà tornano abbastanza bene, nel senso che un occhio, se non proprio chiuderlo, lo dobbiamo serrare. E comunque, reduci da "Blade Runner 2049", Harrison Ford ce lo teniamo volentieri così com'è in episodio VII, col senno di poi molto più sobrio e basso profilo rispetto alla sua recente esibizione nei panni di Deckard. Si impegna anche abbastanza a recitare e fa ancora la sua porca figura quando ne tira fuori una dopo l'altra come la vecchia canaglia che era; certo la scena d'azione con i mercenari è una pagina di script tra le più tristi della storia del cinema.
Idem con patate per la compianta Carrie Fisher.
Il cattivone funziona alla grande, altroché, e ribadisco i motivi di due anni fa. Per di più quel faccione da pesce lesso ci può quasi stare: quasi nel senso che, in base all'evoluzione che subirà il personaggio, si potrà capire se sarà stata una scelta azzeccata o meno.
Accennando nuovamente al fatto che questo primo capitolo, palesemente introduttivo, è una copia in carta carbone di episodio IV, addirittura stesso plot e stesso svolgimento narrativo, il film, pur non aggiungendo ancora nulla alla saga, è complessivamente dignitoso. Perché poi J.J. lo gira in un modo pazzesco, che Lucas levati proprio prima e levati ancora di più dopo, col tuo bel pc e i fondali prerenderizzati. Tocca qui, è tutto massiccio.
Regia top, effetti visivi e speciali top (a parte Snooke che, si spera, sia solo uno burattino, uno specchietto per le allodole) e musiche revisioniste e nostalgiche allo stesso tempo.
Coinvolge e non stanca, i ritmi sono ben sostenuti e i passaggi a vuoto sono, in definitiva, pochi.
Finale moderatamente gasante.
Una volta corretto il tiro, perciò promuoviamo "Il Risveglio della Forza" e guardiamo con ottimismo all'imminente seguito.

Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 11 dicembre 2017

L'ANGOLO DEL CULT #3: "EASY RIDER" (1969) DI DENNIS HOPPER

« Una volta questo era proprio un gran bel paese, e non riesco a capire quello che gli è successo »
-George Hanson-

E via con un trip da acido in un cimitero. 
La macchina da presa si fa occhio soggettivo e, sostenuta da un montaggio psichedelico in cui si alternano brevi fotogrammi, travalica i normali canoni portandoci dinnanzi ad una scena allucinata e sacrilega.
C'è poco da fare, "Easy Rider" (1969) di Dennis Hopper, vincitore nel tripudio generale della Palma d'Oro al Festival di Cannes, fu il film giusto al momento giusto: pur imperfetto, si impose come vero e proprio spartiacque nella cinematografia made in USA, spalancando definitivamente le porte alla Nuova Hollywood. Per capire il ruolo di questa pellicola e del perché sia divenuto un mito intergenerazionale, si deve però fare un piccolo passo indietro e vedere il contesto in cui si mosse il buon Hopper. 
Hollywood era in crisi nera. Le produzioni cinematografiche avevano raggiunto costi insostenibili ed anche un gigante come la Fox rischiò di chiudere bottega a causa del colossale peplum "Cleopatra". 
A complicare le cose ci avevano pensato i registi europei. La nouvelle vague francese ed il cinema italiano con il neorealismo e la commedia, avevano rinnovato profondamente il linguaggio cinematografico dando vita ad una concorrenza spietata. 
Si aggiungeva a ciò il codice Hays, un regolamento interno alle case di produzione che imponeva una sorta di censura preventiva. Niente violenza, niente sesso, niente droga, il cinema doveva rassicurare il suo pubblico e farlo arrivare al più rincuorante happy ending
E proprio quando tutto sembrava essere finito e la televisione stava diventando la prima forma di entertainment delle famiglie americane, arrivò la svolta: una gragnuola di giovani attori e registi irruppero sulla scena e le case produttrici, come ultimo colpo di coda, gli diedero fiducia, concedendo loro qualche spiccio e spazi di manovra più ampi rispetto ai colleghi più anziani. 
Il simbolo di questo strappo, avvenuto in modo più graduale di quanto si possa immaginare, è "Easy Rider", vero e proprio catalizzatore di quella nuova corrente cinematografica che aveva visto i suoi prodromi ne "Il Laureato"(1967) ed in "Gangster Story"(1967). 
La trama è delle più semplici. 
Due ragazzi, Wyatt (interpretato da Peter Fonda) e Billy (Dennis Hopper) trasportano un carico di cocaina dal Messico agli USA e con i ricavi acquistano due moto chopper. Il loro obiettivo è attraversare il paese, un viaggio dalla California a New Orleans dove andare a festeggiare il carnevale. 
"Easy Rider" è il film on the road per eccellenza, dove il classico tema del viaggio viene mescolato con la controcultura esplosa con la contestazione giovanile del '68. 
Quella di Wyatt e Billy è una fuga dal sapore di libertà, il ripudio di quella società borghese, votata anima e corpo al profitto, pronta a calare in ogni momento la maschera del perbenismo per scatenare la propria violenza verso il diverso (i protagonisti del film sono invisi all'uomo comune, modi di vivere, comportarsi e vestirsi non inquadrabili negli schemi comuni e perciò considerati deprecabili). E' l'epilogo del sogno americano, suggellato da un un finale che lasciò, e lo fa tutt'ora, gli spettatori ammutoliti con un grido di rabbia bloccato nella gola. Una cavalcata epica accompagnata dalla bellezza dei paesaggi naturali, fotografati da Laszlo Kovacs, e dall'esplosiva colonna sonora che va dai Byrds ad Hendrix fino alla grinta blues degli Steppenwolf.
"Easy Rider" mostrò un modo nuovo di fare cinema.
Un film indipendente, con un budget ridotto all'osso, girato fuori studio, che si avvaleva di giovani attori (tra cui un Jack Nicholson ancora semisconosciuto) e distribuito nei circuiti alternativi. Una storia originale in grado di dialogare con il politicizzato pubblico giovanile e che mostrava con forza una realtà socio-politica percorsa da droghe, violenza e sesso. Il nuovo cinema d'autore americano si faceva largo, niente (o quasi) sarebbe stato più come prima.

Habemus Judicium:
Ismail

giovedì 7 dicembre 2017

"ENEMY" (2013) DI DENIS VILLENEUVE

«È impossibile non avere nemici che non nascono dalla nostra volontà di averli ma dal loro irresistibile desiderio di avere noi»
-José Saramago-

Un preambolo assurdo.
Adam, (Jake Gyllelhaal) un barbuto professore universitario con un divorzio alle spalle, è impegnato in una relazione oramai povera di entusiasmi con Mary (interpretata da quella meraviglia d'attrice che è Mélanie Laurent). Il prof, in una sera come tante, si mette a guardare un filmetto affittato in videoteca e, tra gli attori scorge una comparsa, un certo Anthony, identico a lui per aspetto e voce. Incuriosito si mette alla ricerca dell'attore cadendo inesorabilmente in una profonda crisi d'identità.
"Enemy", film del 2013 di Denis Villeneuve, è la trasposizione cinematografica de "L'uomo duplicato", opera letteraria del premio Nobel Josè Saramago. L'operazione è delle più complicate.
Il regista canadese si pone dinnanzi al rischio sempiterno del paragone tra cinema e letteratura, per giunta lo fa con un romanzo iconico e profondamente anticinematografico. "L'uomo duplicato" è un'opera quasi priva di immagini, che gode di un'impalcatura narrativa tutta fondata sui pensieri di Tertulliano, un lungo soliloquio da cui scaturisce il confronto con il senso comune, vero e proprio co-protagonista del romanzo. Ne deriva una verbosità titanica che si ripercuote su tutta la struttura narrativa, capace di imbrigliare la punteggiatura ed il discorso diretto/indiretto.
E cosa fa il buon Villeneuve per la sua trasposizione?
Semplice, fa ciò che meglio gli riesce (nel bene e nel male): prende immagini e suoni e li sostituisce alla sovrabbondanza di parole; non pago stravolge l'impianto narrativo del romanzo, difficilmente inquadrabile in qualche etichetta, e lo incanala nel genere.
"Enemy" è un thriller che gioca sulle ambiguità narrative, allontana lo spettatore dall'oggettività, lo pungola attraverso simboli che dissemina lungo tutta la pellicola e lo spinge all'interpretazione dello scontro psicologico in scena. E lo straniamento viene sostenuto da una regia dal grande impatto visivo che dona immagini di rara bellezza: i lenti e sinuosi movimenti di macchina; le carrellate lungo i corridoi che ribaltano l'immagine; il rapporto/scontro tra le architetture di Toronto, massicce, solide e alienanti, ed un Io disgregato dai dubbi; la fotografia.
E quindi questo "Enemy" è una buona trasposizione de "L'uomo duplicato"?
La risposta non può che essere affermativa.
Villeneuve, con coraggio, muove dal mondo di Saramago e se ne distacca, dando vita ad un buon thriller, che muove lento, ammalia e ci conduce ad un finale spiazzante alla Polanski.
Il regista candese qui mostra quel potenziale, mai pienamente espresso, visibile in "Polytechnique" [LINK] (sua migliore opera per chi scrive) e rimasto imbrigliato nelle successive, ed a dir poco deludenti, produzioni americane ("Prisoners", "Arrival"[LINK] e "Blade Runner 2049" [LINK]).
In questi giorni si è sparsa la voce della futura lavorazione di un remake di "Dune", portato sui grandi schermi da Lynch nel 1984, un confronto duro da reggere ed allo stesso tempo progetto ricco di stimoli. Io e il mio collega nel frattempo aspettiamo qui nella blogosfera, curiosi di vedere cosa deciderà di fare da grande il buon Villeneuve.

Habemus Judicium:
Ismail

lunedì 4 dicembre 2017

"GARAGE OLIMPO" (1999) DI MARCO BECHIS: IL DRAMMA DEI DESAPARECIDOS (PARTE III)


«Buenos Aires durante i campionati mondiali di calcio del 1978 ospitava migliaia di giornalisti di tutto il mondo che seguivano, concentrati, una partita di calcio mentre, semplicemente sotto i loro piedi, stavano funzionando a pieno ritmo trecento campi di concentramento» .
-Marco Bechis-

La genesi:
Siamo nel marzo del '76 e l'Argentina è scossa da un golpe: Isabelita Perón viene deposta dall'esercito e sostituita da una giunta militare con a capo il generale Videla. Inizia un nuovo ordine politico che, attraverso sequestri, omicidi e detenzioni illegali, mira a spazzar via ogni forma di opposizione politica nel paese. 
Tra i molti dissidenti c'è anche Marco Bechis, un 22enne italo-argentino di Buenos Aires, che, nell'aprile del '77 subisce la sorte di tanti altri come lui: sequestrato da alcuni militari in borghese, viene rinchiuso nel campo di prigionia denominato Club Atletico. Il giovane ha però la fortuna di rimanerci solamente 4 mesi, trascorsi i quali gli apparati governativi decidono di scarcerarlo ed, in virtù del doppio passaporto, di espellerlo dal paese. 
Bechis si ritrova a Milano, dove studia cinema, ed affronta per la prima volta, in chiave artistica, la sua terribile esperienza nei campi di prigionia argentini; in uno scantinato milanese, sito in Via Morigi 8, nel corso del 1982, allestisce una video-installazione dal titolo "Desaparecidos, dove sono?(1), composta da due spazi separati attraverso cui far percepire e conoscere ciò che aldilà dell'Atlantico sta accadendo. Entrando ci si trova dinnanzi a due file di televisori, dove, sull'immagine di una bandiera argentina, scorrono informazioni sui desaparecidos: la data di scomparsa, il nome e l'età. In sottofondo vengono trasmesse le telecronache dei goal del mondiale d'Argentina del 1978. Dalla sala dei televisori si passa al piano di sotto e si rimane spiazzati. Ci si ritrova nel Club Atletico, una ricostruzione del suo carcere. 
Passano tanti anni, quasi venti, e Bechis torna sull'argomento immaginando un dittico cinematografico; nel 2001 arriva nelle sale "Figli/Hijos" (2001), un film sul presente che narra le vicende dei tanti figli degli scomparsi, neonati strappati dalle loro madri naturali e dati in adozione a famiglie conniventi con il regime; ad anticiparlo c'è "Garage Olimpo", pellicola presentata nel 1999 al Festival di Cannes ed incentrata sul passato. 

Il Film:
La protagonista, Maria Fabiani (Antonella Costa), è una maestra elementare che insegna in una bidonville della città e milita in una organizzazione clandestina che si oppone al regime. Vive in una grande casa assieme alla madre (Dominique Sanda) ed a Felix (Carlos Echavarria), un silenzioso e misterioso ragazzo, al quale hanno affittato una stanza per ovviare alle numerose difficoltà economiche. L'attività politica di Maria viene scoperta dal governo ed alcuni militari in borghese irrompono dentro l'abitazione portandola via davanti gli occhi di una madre che nulla può. 
Alla giovane si aprono le porte del Garage Olimpo, un inferno sotterraneo gestito da una nutrita schiera di carcerieri che, come tanti impiegati del catasto, tra una tortura nella sala della chirurgia ed una puntura di tiopental diossico(2), compilano moduli, chiedono direttive dall'alto, timbrano i cartellini in entrata ed in uscita e giocano, di tanto in tanto, a di ping pong. 
E' una realtà straniante in cui la vista è negata ed a dominare sono i rumori, i suoni, le grida e le radio accese, un ignoto terribile nel quale l'unica fievole speranza è rappresentata da un intenso (ed inaspettato) rapporto di dipendenza (?) tra vittima e carceriere. 
Siamo catapultati in uno scontro tra il reale, fatto di dialoghi duri, asciutti e mai ad effetto, torture, raid militari, e la finzione, un garage-carcere che con lo scorrere dei minuti diventa un piccolo spazio teatrale in cui mettere in scena la memoria storica.
"Garage Olimpo" è un film straordinariamente maturo, in cui l'impegno civile e la settima arte sono perfettamente equilibrati. Non ci sono gli scivoloni retorici. La violenza sui corpi non viene mai spettacolarizzata/ostentata, bensì evocata e fatta percepire allo spettatore con un'intensità incredibile. E' la nostra immaginazione che si trova costretta a ricostruire gli orrori. 
Un collage narrativo tra il mondo sotterraneo e quello esterno che assume, via via, una sorprendente forza grazie alle scelte di regia e montaggio
Qualche esempio? La misteriosa panoramica sul Rio de la Plata, increspato, nervoso, carico del più inconfessabile segreto, che apre e chiude la pellicola; l'alternanza tra gli spazi chiusi e quelli aperti, tra le soggettive che rincorrono sguardi e le riprese dall'alto di una città, un occhio che osserva e controlla una normalità angosciante. 
Bechis gioca sulla banalità della perversione, si insinua nella nostra psiche e costruisce una memoria dolorosa che ci lascia ammutoliti; ci racconta la sua Argentina ed allo stesso tempo, mancando dei riferimenti puntuali nella pellicola, ne travalica i confini spazio/temporali; "Garage Olimpo" gira un film universale che si erge a denuncia verso ogni forma di violenza e disumanizzazione derivante dall'esercizio del potere. 

Habemus Judicium:
Ismail





Note:
(1) Un servizio giornalistico del TG3 dell'epoca sulla video-installazione: Link
(2) Il tiopental diossico veniva somministrato ai traslados. Questi venivano dapprima radunati, comunicato il trasferimento in un centro di detenzione e la necessità di un vaccino.
Con il Tiopental, i detenuti, venivano addormentati, caricati su un aereo militare ed essere lanciati ancora vivi in mare.