mercoledì 24 maggio 2017

"LA NOTTE DELLE MATITE SPEZZATE": IL DRAMMA DEI DESAPARECIDOS (PARTE II)


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«Si informa la popolazione che da oggi, 24 marzo 1976, il Paese è sotto il controllo operativo della Giunta di Comandanti Generali delle Forze Armate». 
-1° comunicato della Giunta Militare- 


Parliamo tanto di cinema e fra le varie recensioni che pubblichiamo sul blog, capita di scriverne alcune con lo scopo di andare oltre la mera valutazione artistica dell'opera e scavare più a fondo nel suo significato storico-politico.
Qualche tempo fa facemmo questa operazione prendendo spunto da "La morte e la fanciulla" [Link], film del 1994 di Roman Polanski, per aprire uno spazio tematico dedicato ai desaparecidos ed agli avvenimenti politici che sconvolsero il l'America Latina fra gli anni '70 e '80. Oggi riprendiamo quel percorso, partendo come allora da un film: "La notte delle matite spezzate" (1986) di Héctor Olivera.
***
La Plata, Argentina, 1975.
Un gruppo di studenti delle scuole superiori dà vita a proteste e manifestazioni per ottenere il Boleto Estudiantil, un tesserino studentesco che garantisce riduzioni per l'acquisto di libri didattici e biglietti dell'autobus.
Le rimostranze sembrano aver buon fine: il Boleto viene concesso; nel frattempo dai telegiornali iniziano ad emergere notizie sconcertanti relative a misteriose scomparse di attivisti politici [1].
Passa poco meno di un anno, è il 24 marzo del 1976 ed arriva il golpe: Isabelita Peron, Presidente della Repubblica argentina, viene deposta dall'esercito ed il governo democraticamente eletto è sostituito da una giunta militare con a capo il generale Rafael Videla; e con essa arrivano le prime prime intimidazioni: sospensione di professori, arresti arbitrari e la scomparsa di 3 studenti.
Si giunge così al 16 settembre 1976, la data che segna il punto di non ritorno. Nel cuore della notte uomini incappucciati appartenenti alle forze militari irrompono nelle case di alcuni studenti che parteciparono alle manifestazioni per il boleto. Li sequestrano e di loro si perdono le tracce. Sparisce ogni forma di legalità; i familiari si mettono alla ricerca dei loro cari scontrandosi contro un muro di gomma ed omertà innalzato dalle autorità pubbliche.
Il film di Olivera è questo, il racconto (crudo) della desaparición di molti giovani, rei di attività atee ed antipatriottiche, una cronaca che proietta lo spettatore negli orrori del regime di Videla.
Da un punto di vista artistico il film è tutto tranne che perfetto, non gode della migliore recitazione e la stessa scrittura ha degli elementi che cadono nel retorico e nel grottesco (un esempio lampante sono i carcerieri estremamente stereotipati).
Ma allora perché abbiamo deciso di citare prima e di trattare poi questo film?
Per capire il valore dell'opera bisogna valutare il contesto storico-politico in cui operò Olivera. Le riprese vennero fatte nel corso del 1986, in un clima tutto tranne che pacificato. La giunta militare era stata deposta da meno di 3 anni ed il nuovo governo, per paura di nuovi colpi di coda, aveva emanato due leggi ( la cd. legge del punto finale e la legge dell'obbedienza dovuta [2]) con lo scopo di sollevare dalle responsabilità penali molti di quei militari e poliziotti che perpetuarono torture, detenzioni illegali e desaparición.
Il merito de "La notte delle matite spezzate" è da rintracciare prettamente sul piano civile, essendo tra le prime opere sul tema, nonché importante input di riflessione.


Frammenti di Storia: le matite nel contesto storico-politico argentino
« Prima elimineremo i sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti e infine gli indecisi. » 
-Generale Saint-Jean, governatore de facto della provincia di Buenos Aires-

La storia delle matite spezzate rientrava in un contesto che coinvolse buona parte dell'america Latina.
Molti furono i paesi funestati da regimi militari (Uruguay, Cile, Brasile, Paraguay, Etc.) che imposero una durissima repressione fatta di arresti arbitrari, omicidi e torture [3].
In Argentina le forze militari e di polizia, tra il 1976 ed il 1983, sequestrarono, interrogarono e torturarono decine di migliaia di persone. Di questi circa 30000 non se ne seppe più nulla. Si era inaugurata la cd. Guerra Sporca un'operazione volta a minare le fondamenta di tutte quelle organizzazioni politiche, sindacali, religiose e studentesche che potessero interferire in qualsiasi modo con la nuova linea politica.
L'azione, dapprima diretta verso guerriglieri peronisti e comunisti, si allargò a macchia d'olio. Essere bollati come terrorista, marxista ed antipatriota divenne piuttosto semplice. Nelle liste degli scomparsi finivano anche i semplici simpatizzanti di movimenti di opposizione ed argentini che non erano mai stati coinvolti in attività contro il regime.
L'attività governativa di repressione, forte dell'esperienza cilena di Pinochet, si svolse in totale segretezza; coloro che venivano sequestrati da forze militari e paramilitari, non venivano registrati in alcun registro di polizia risultando così semplicemente come scomparsi.
Le ragioni di questa condotta erano molteplici: salvaguardare l'immagine del paese che di li a poco avrebbe anche ospitato i mondiali di calcio (1978), rendere insostenibile l'ondata di terrore percepita dai dissidenti rimasti in libertà e garantirsi un'ampia libertà d'azione nel trattamento dei prigionieri [4].
Per molti dei detenuti, il governo militare optò per voli della morte, una pratica disumana scandita sempre dallo stesso iter; si radunavano i desaparecidos presenti nel centro detentivo; veniva comunicato a loro il trasferimento in un carcere dell'Argentina del sud per il quale si necessitava una vaccinazione; si iniettava ai reclusi il tiopental sodico, un medicinale con cui addormentali. Questi, vivi ma non coscienti, venivano caricati su un camion, portati al più avvicino aeroporto, imbarcate su un aereo per poi essere gettati in mare trovando così la morte.
Verso la fine del 1983 il governo militare, dopo la sconfitta nella guerra delle Falkland e su pressioni sempre più forti della popolazione, fu costretto ad indire delle elezioni. La Conadep (Comisión Nacional sobre la Desaparición de Persona) creata dal presidente argentino Raul Alfonsin, con i suoi rapporti sui desaparecidos, permise l'apertura di processi a capo di circa 2000 appartenenti all'esercito e polizia per la commissione di sequestri, torture ed omicidi.
Come già detto in precedenza però, il governo, per paura di un nuovo golpe, garantì una sostanziale impunità ai criminali, per mezzo di due leggi prima e di un indulto poi. Questa situazione mutò solamente nel 2005, quando la Corte Suprema argentina dichiarò l'illegittimità della legge del punto finale e quella dell'obbedienza dovuta, permettendo la riapertura dei processi.

Habemus Judicium:

Ismail





Note:
(1) Già prima del golpe militare, sotto la presidenza di Isabelita Peron, ci furono numerose scomparse di numerosi attivisti politici (se ne contano circa 500)
(2) Le due leggi fermarono molti dei processi che già si erano avviati. 
La Legge del punto finale prevedeva l'estinzione delle azioni penali rivolte a quelle persone che avessero commesso delitti legati all'azione politica sino al 10 dicembre del 1983. Si escludeva dall'applicazione della legge al sequestro dei figli neonati delle prigioniere dati in adozione alle coppie di militari.
La Legge dell'obbedienza dovuta sollevava la responsabilità dei militari, senza la possibilità di prova contraria A questi due interventi normativi si aggiunse, nel 1989, un indulto che abbreviò le pene comminate da quei processi che non furono bloccati dalle due leggi.
(3) Cfr. Operazione Condor.
(4) La mancanza di notizie spinse le madri degli scomparsi, consapevoli della responsabilità della Giunta, a dar vita ad una protesta silenziosa consistente in una marcia. La più importante si svolgeva ogni giovedì a Buenos Aires a Plaza de Mayo dove le donne portavano con se l'immagine ed il nome del caro scomparso su un cartello od un fazzoletto bianco. 
Anche questa forma di protesta venne repressa dalla giunta; si stima che le donne di Plaza de Mayo sequestrate ed uccise furono 720.


lunedì 22 maggio 2017

"EDGE OF TOMORROW-SENZA DOMANI" (2014) DI DOUG LIMAN

«Anzi, se è per questo mi hanno ucciso da un pezzo a quest'ora»
-Maggiore William Cage-

"Edge of Tomorrow" è il classico giocattolone della super produzione a stelle e strisce.
Un budget monstre di 178 milioni di dollari per un film d'azione tronfio di virilità ed eroismo.
Si superano i titoli d'apertura e ci ritroviamo catapultati in un futuro prossimo in cui la terra diviene l'obiettivo di un gruppo di alieni tentacolari che occupano prima l'Europa e poi si espandono in Asia. 
Siamo alla vigilia dello sbarco in Normandia 2.0, la grande battaglia che fungerà da crocevia per le sorti dell'umana gente, l'ultimo tentativo possibile per fermare l'avanzata aliena.
Qui troviamo il maggiore Cage (interpretato da Tom Cruise), un funzionario militare, uno di quelli che non ha mai calcato i campi di battaglia e l'unica cosa che sa fare è apporre timbri su pratiche.
Per qualche oscuro motivo, che mai ci verrà spiegato nel corso del film, è stato buttato in prima linea; qui riceve un addestramento di un solo giorno e viene armato di un bizzarro esoscheletro, creato per sconfiggere i temibili polpi dell'iperspazio, che non sa minimamente far funzionare.
Cage, durante la battaglia si ritrova a tu per tu con uno dei nemici; non gli resta che l'ultimo gesto estremo, far esplodere una carica esplosiva che uccide lui e l'alieno.
Fortuna vuole che il sangue del mostro tentacolare che lo cosparge gli dia un particolare potere, ritrovarsi, ogni volta che muore, nuovamente vivo al giorno precedente rispetto la battaglia.
Niente di nuovo ad Hollywood che ripropone un Giorno della Marmotta muscoloso, fantascientifico e dai costi esorbitanti. Seguendo la pellicola le sensazioni sono però positive.
Abbiamo per protagonista un inetto completamente inadatto al ruolo; questo rimane intricato in un vorticoso circolo temporale che si conclude sempre e comunque in un game over da videogioco. Un'idea non nuova ma rigenerata a dovere, un loop temporale costruito in modo veloce ed avvincente. Il tutto accompagnato da una gustosa ironia che esula dagli stereotipi hollywoodiano.
Cruise non è il solo a dover reggere il film ed ad un certo punto, durante una delle sequenze temporali, incrocia una nerboruta, immutabile e fascinosa eroina, tale Rita Vrataski (Emily Blunt), considerata dai più come unica speranza per le vicende belliche; si incontrano, ecco gli opposti che sotto sotto qualcosa in comune alla fine ce l'hanno...
Daje che ce se sta a divertì, Doug vedi de non fa cazzate!
E invece le fa, il film cambia di passo ed l'originalità lascia spazio ai soliti schemi.
I tempi si dilatano e Cruise diventa uno ubermensh, capace, nel marasma generale, di strizzare l'occhio allo spettatore con il risvoltino sentimentale.
E' andata così, anche questa volta.
Quando uscì al cinema, alcuni temerari si sperticarono in lodi incomprensibili e parlarono di capolavoro. In realtà questo "Edge of Tomorrow" è il più classico dei blockbuster, forse un'anticchia più credibile di molti suoi parenti e che non ti fa pentire di aver speso qualche spiccio per l'affitto del dvd. Nulla di più.
Che poi che con 178 milioni di $ si possa girare tanta altra roba è un altro discorso...ma ehi baby, questo è il mercato...

Habemus Judicium:

Ismail

mercoledì 17 maggio 2017

ALFONSIN(A) STRADA: IL CICLISMO AL FEMMINILE


E' il 13 maggio del 1909, sono le ore 2:53 del mattino ed a Piazzale Loreto a Milano si apre la storia del Giro d'Italia. La prima tappa di sempre, un percorso di 397 km fatto di strade polverose, più di 14 ore in sella ed una media oraria di 28 km/h.
Insomma se l'aggettivo eroico è così usato in riferimento al ciclismo di quell'epoca ci sarà pure un perché no?
A tagliare per primo il traguardo posto a Bologna è un romano, Dario Beni, membro della mitica Bianchi. Il primo a vedere inciso il proprio nome sull'albo d'oro del giro è invece il lombardo Ganna.
Passano gli anni, 15 per l'esattezza, e si giunge al Giro del 1924: 12 tappe e 3613km da percorrere.
Ci sono tanti problemi per gli organizzatori di quel Giro. Le squadre più blasonate richiedono premi in denaro per partecipare alla corsa rosa, ma il direttore de "La Gazzetta dello Sport", Emilio Colombo, e l'amministratore Armando Cougnet si rifiutano e salta l' accordo.
Un caos, grandi campioni come Bottecchia e Girardengo non partecipano, altri corridori sono costretti ad iscriversi individualmente. Si rischia un flop clamoroso.
Poi l'illuminazione. Ci sta un ciclista che potrebbe far sorgere una grande attenzione sulla corsa, un corridore che aveva iniziato a pedalare a 10 anni con un mezzo rottame regalatogli dal padre e che da allora non si era più fermato. Una passione grande al punto che già prima di compiere i 14 anni, all'oscuro dei genitori che lo credono a messa, inizia a partecipare alle prime gare. C'è di più, il ciclista misterioso si sposa e si fa donare dal coniuge una bici tutta nuova, non c'è regalo più bello.
Negli anni di cose importanti poi ne aveva fatte poi: due partecipazioni al Giro di Lombardia, una gara in Russia dove aveva ricevuto una medaglia al valore dallo Zar Nicola II e sopratutto aveva siglato il nuovo record dell'ora (37,192 km/h), battendo quello precedente che resisteva da ben 9 anni.
Viene inserito dalla direzione tra i partenti ma il suo nome, sino a pochi giorni dal via, non compare in nessuna lista ufficiale. Il nome misterioso, 3 giorni prima della partenza, appare sui giornali: un certo Alfonsin Strada scrive "La Gazzetta", "Il Resto del Carlino" aggiunge una vocale e lo chiama Alfonsino.
Dei refusi forse, molto più probabilmente una remora di giornalisti e direttori, sta di fatto che il ciclista misterioso ingaggiato da Colombo è una lei, Alfonsina Morini coniugata Strada, la prima donna a buttarsi all'interno del virile e muscoloso mondo delle corse ciclistiche, l'unica ad aver disputato la corsa a tappe più dura e bella al mondo.
Fa scandalo, alcuni vedono la sua presenza come una pagliacciata. Altri invece manifestano approvazione e rispetto per il grande coraggio mostrato dalla giovane donna. Possiamo immaginare le difficoltà affrontate da Alfonsina, siamo nel 1924, in alcune parti d'Italia per una donna andare anche con una bici da passeggio crea disapprovazione, in più il fascismo bussa prepotentemente alle porte dell' Italia.
Fatto sta che la Nostra sta lì nel gruppo, lotta e riesce ad essere anche competitiva.
Il ciclismo è uno sport pieno di insidie, lo si sa. Lo è oggi, figuriamoci in quegli anni. Si correva su strade non asfaltate, su mezzi meccanici che oggi possiamo definire preistorici, non esisteva il cambio (per cambiare il rapporto i ciclisti dovevano cambiare la ruota), giravano con i tubolari al collo e ci sono immagini di repertorio in cui si vedono i corridori gonfiare a bocca i pneumatici. 
La Nostra stringe i denti e ce la fa, sta in mezzo al gruppo e combatte, arriva sempre entro il tempo massimo e solo 2 volte è l'ultima a arrivare (nonostante che, di tanto in tanto, si prenda delle soste per firmare autografi ai tanti spettatori assiepati lungo la strada).
E' il 24 maggio, siamo all' 8° tappa di quel giro, un percorso insidioso di 296 km che da L'Aquila giunge sino a Perugia. Alfonsina cade e si rompe il manubrio della bici.
Tutto sembra irrimediabilmente finito. Il sogno di terminare il Giro d'Italia può sfumare per sempre.
Leggenda vuole che lì dove la Strada è caduta ci sia una contadina. Questa le dà un manico di scopa di legno e voilà, viene montato sul telaio divenendo il nuovo manubrio con cui portare a termine la tappa. La Nostra arriva a Perugia ma nonostante la tenacia giunge con un ritardo clamoroso e supera il tempo massimo consentito dalla direzione della corsa.
Quella non fu una giornata fortunata per Alfonsina che oltre la caduta dovette affrontare numerose forature. La direzione della corsa (tra i quali anche lo stesso Colombo che la volle) sembra capire la situazione ed in un primo momento decide di tenerla in gara, poi però il clima dell'epoca probabilmente ha la meglio e si opta per un compromesso: Alfonsina può proseguire la corsa ma senza essere conteggiata nella classifica.
Dei novanta partiti, al traguardo finale di Milano, giunsero solo una trentina di corridori, tra cui Alfonsina Strada accolta dagli applausi del pubblico.
Con quel giro guadagnò circa 50000 lire che girò al manicomio dove era ricoverato il marito, colui che le regalò una bicicletta tutta nuova e le diede quel cognome, Strada, che tanto si addiceva alla passione ciclistica della donna. 
Alfonsina dopo quell'esperienza non riuscì più a partecipare al Giro, il maschilismo fascista le precluse ogni porta e si poté limitare a seguirlo ufficiosamente prima in bici e poi con una Moto Guzzi rossa comprata con i ricavi della vendita di alcuni dei trofei vinti. Nella sua carriera era comunque riuscita a togliersi tante soddisfazione, la vittoria in 36 corse contro i colleghi uomini e sopratutto la stima e l'amicizia di campioni come Girardengo, Magni e Bartali.

Ismail

martedì 16 maggio 2017

"BRIDGET JONES' S BABY" (2016): CI BASTAVA IL PRIMO

E' una di quelle sere in cui entro in videoteca (no, ancora non c'ho 'sto Netflix) con l'idea di staccare la spina. Migliaia di copertine di dvd da scrutare che aprono ad una disperata ricerca di una commedia brillante.
Ho poca lucidità mentale, sono consapevole di poter cadere in errore e di incappare in una di quelle scelte che possono far male.
Incrocio uno sguardo. Lei mi osserva con tono basito.
Eccola lì, l'imbranata biondina inglese, ancora in una piena tempesta sentimentale, evidentemente fuori tempo.
Tentenno un po'. Faccio un passo verso di lei. Prendo questo cavolo di "Bridget Jone's baby".
E dire che quella oscenità scritta sulla locandina, "Situazione sentimentale: troppo complicato", avrebbe dovuto farmi desistere...

Riepilogo delle puntate precedenti (i primi due capitoli)
16 anni debuttava cinematograficamente Bridget Jones. Una gradevole commedia romantica incentrata su un' eroina sui generis, maldestra, goffa, grassa, con il vizio del fumo e del bere.
Una single ultratrentenne immersa in un ambiente sociale dinnanzi al quale doversi continuamente giustificare per uno stile di vita percepito come una trasgressione che fugge da ogni razionalità. Un film nell'insieme ben costruito e capace di rovesciare, almeno in parte, gli schemi classici del genere.
"Il diario di Bridget Jones" si poggiava su un buon cast, gag azzeccate ed il divertente triangolo amoroso tra lei (Renée Zellweger), Colin Firth (nei panni del bell'avvocato Mark) e Hugh Grant (Daniel), una riproposizione moderna, scanzonata e meno profonda di "Orgoglio e pregiudizio". Tutto si incastra, grande successo al botteghino, contenti i produttori, contenti gli spettatori che si ritrovano a passare 93 minuti di piacevole svago.
Per carità il film aveva le sue pecche, la cara Bridget rimaneva un po' appiattita nel suo personaggio, non aveva chissà quale evoluzione psicologica ed il lieto fine appariva più un adeguarsi alle logiche sociali inizialmente estranee a lei.
Il film raggiungeva però il suo obiettivo: intrattenere e divertire il pubblico.
Il successo spinse a replicare la formula, ed arrivò "Che pasticcio Bridget Jones".
Risultato: il titolo ci diceva la verità, il il film era realmente pasticciato, una storia forzata innervata dalla riproposizione degli stessi identici schemi del primo capitolo, delle stesse gag (le chiappone della Nostra in diretta televisiva, la classica scazzottata tra i due) che, come ovvio che sia, non avevano più la loro forza originaria. 100 minuti di poche risate e qualche sbadiglio, un film che poté donare qualche soddisfazione solo a chi entrò in sala per viversi lo scontato lieto fine.
Passano gli anni, e ci riprovano. Forse l'idea di concludere la serie con qualcosa di più degno, forse un ingiustificato credito verso personaggi che sembravano aver già dato tutto nella prima opera, forse l'idea di sfruttare ancora un grande successo commerciale.

"Bridget Jones's Baby":
Il film si apre con gli stilemi di sempre.
Troviamo la Nostra seduta sul divano, sola ed in pigiama a festeggiare il suo compleanno. In sottofondo l'ombra spettrale della voce di Celine Dion.
E' chiaro sin dalle prime battute la coerenza dell' inglesotta (non più così cicciottella ma ben carica di botox) con le puntate precedenti, sempre in balia dei dubbi amorosi ed incapace di mantenere una salda relazione con il fin troppo paziente Mark.
Sin da subito ci spiattellano tutti gli ingredienti un sequel rassicurante e scontato.
La storia del film è semplice e non ci sono chissà quali idee geniali di fondo. Bridget è una donna in carriera con un buon impiego in un'emittente televisiva e circondata dagli amici di sempre (a cui se ne sono aggiunti altri).
A rompere questa stasi entra in scena il sesso. Dapprima una sveltina con il fascinoso Jack (Patrick Dempsey), poi un fugace amplesso con il solito Mark. All'improvviso un bimbo in arrivo, l'inconsapevolezza di chi possa essere il padre e la decisione di dare la buona novella ad entrambi.
Il film nell'insieme si segue, per carità, ma non decolla.
La sostituzione del terzo incomodo non convince a pieno, Patrick Dempsey ha 1/4 del carisma del Daniel di Hugh Grant. Gradita è l'entrata nel cast di Emma Thompson nei panni della ginecologa di Bridget e protagonista delle gag più divertenti che scaturiscono dai doppi colloqui con i papà (alla fine è lei a sobbarcarsi l'assenza del buon Hugh Grant).
Cosa penso di questo ultimo capitolo?
E' un sequel. Mi spiego, è uno di quei film che mira ad i fan (tanti per questa serie) e li rincuora (e scemo io nel pensare di trovar qualcosa di diverso).
Dona a questi una Bridget Jones finalmente mamma facendola arrivare definitivamente alla tanto agognata normalità sociale. E' una pellicola che inevitabilmente mira sull'effetto nostalgia e lo fa dando un discreto intrattenimento che, a differenza del secondo, gode di qualche buona trovata comica senza però evitare qualche scivolone ed un finale davvero debole.
"Bridget Jones' baby" è un po' la rimpatriata che non ti aspetti, una di quelle cene con i compagni del liceo che non vedi da 10/20 anni . Può far piacere come no.
Tornando indietro? Mi eviterei la cena.

Habemus Judicium:


Ismail

martedì 9 maggio 2017

"CARO DIARIO C'E' UNA COSA CHE MI PIACE FARE PIU' DI TUTTE"

«D'estate a Roma i cinema sono tutti chiusi, oppure ci sono film come "Sesso amore e pastorizia", "Desideri bestiali", "Biancaneve e i sette negri", oppure qualche film dell'orrore come "Henry", oppure qualche film italiano»

Alla base di tutto un cortometraggio, poi al giro "In Vespa" si  sono aggiunti "Le Isole" e "Medici": arriva così "Caro Diario", film ad episodi premiato al Festival di Cannes con il prestigioso Prix de la mise en scène.
"Caro Diario" segna l'abbandono di Michele Apicella, l'alter-ego che aveva accompagnato Moretti per (quasi) tutta la sua carriera, un contenitore in cui cui rifugiare dubbi, pensieri ed ossessioni. Dentro la scena, e fuori attraverso una voce-off che non si limita a descrivere le immagini e gli avvenimenti, rimane solamente Moretti; guardando il suo percorso artistico, questo è l'approdo più naturale possibile.
Ad aprire il trittico è un giro in vespa per una Roma agostana, completamente deserta e distante da quella solita da cartolina. Poi è il turno di "Isole", una lunga e spasmodica ricerca di un posto lontano dal caos dove poter lavorare; il luogo giusto sembra essere Lipari, lì 11 anni prima si è rifugiato un suo amico per studiare in tranquillità lo "Ulysses" di James Joyce.
Più dialogato e ricco di trovate il primo, più contemplativo e paesaggistico il secondo, "In Vespa" e "Le Isole" rappresentano l'essenza del cinema morettiano: "Caro diario" è un percorso egotico fatto di incontri che aprono ad un dialogo maieutico, di riflessioni ironiche su di sé, la società ed il cinema; ritroviamo così alcuni degli elementi che hanno fatto di Moretti uno dei più attenti e raffinati osservatori del nostro cinema.
Tra momenti esilaranti ai quali è difficile resistere (pensiamo al sindaco megalomane de "Le Isole" o alle scene con Mazzacurati e la Beals di "Flashdance") ed una colonna sonora che passa da un immenso "I'm your man" di Cohen a Nicola Piovani, arrivano cinque minuti che presi da soli varrebbero la visione del film. 
Moretti è sul lungo mare romano a bordo della sua Vespa; tutt'attorno gente in costume, spiagge, case, muri crepati, automobili, guardrail arrugginiti e piegati. Nanni si ferma, scende dalla Vespa e la telecamera si dirige altrove: quello è il monumento funebre dedicato a Pier Paolo Pasolini, posto nel luogo in cui venne barbaramente ucciso. E' in completo stato di abbandono, un degrado che sembra voler simboleggiare una violenza ancora oggi inspiegabile e la cattiva coscienza di una società che lo ha abbandonato una seconda volta. Non ci sono parole per poterlo spiegare; non servono.
Poi è il turno dei "Medici", la bestia strana di "Caro Diario". 
E' una storia di un prurito irrefrenabile, colpisce gli arti durante la notte, togliendo sonno e serenità. È un susseguirsi di conversazioni con i medici, appunti da prendere, farmaci prescritti e cure. Ma niente, quel prurito non passa ed ad un certo punto sembra anche essere contagioso; mi gratto anche io vedendolo ridotto in quello stato.
Moretti ci porta nella sua sfera privata e ci racconta la sua battaglia contro il cancro. Lo fa compenetrando la finzione con la realtà, al punto di mostrare la sua ultima seduta di chemioterapia girata in 16 mm.
Oramai si è aperto a noi, ha mescolato la sfera pubblica con quella privata, e, seduto ad un tavolino di un bar, ci mostra tutte le medicine prese, ci spiega l'importanza di bere dell'acqua prima di colazione, ci guarda dritti negli occhi.
"Caro Diario" è l'affresco intimo e sincero di un regista libero nelle idee e che ha fatto di sé stesso il cinema; e ci riesce nel miglior modo, cogliendo la funzione principale del cinema: veicolare emozioni.

Habemus Judicium:
La Picella & Ismail

sabato 6 maggio 2017

PRETENDERE A TUTTI I COSTI UN "GHOST IN THE SHELL"

Cerchiamo per un momento di ricostruire il percorso di "Ghost in the shell": manga di Masamune Shirow; OAV di Mamoru Oshii; un anime diviso in due stagioni; ancora OAV di Oshii; altri OAV vari; ed ora un film in live action, di produzione americana e con la regia di Rupert Sanders.
Non ho mai letto il manga di Shirow, ahimè, pur essendo affascinato dai fumetti giapponesi a tematiche adulte, i seinen. Per il resto credo di aver visionato quasi tutti gli OAV (aggiungo di aver acquistato di recente quella trollata di versione in in DVD di "Ghost in the Shell 2.0"), visto le due serie animate e, da ieri, visto anche il film.
Cosa aggiungere rispetto a quanto detto da oltre vent'anni a questa parte? Nulla.
Perciò farò una breve considerazione per voi viandanti che leggerete con occhi vergini.
Chi ha letto il manga è sicuro che non è al livello dell' OAV, cosa che nel mondo delle trasposizioni manga-OAV è piuttosto rara. Ciò è dovuto al fatto che del progetto se ne è occupato un genio dell'animazione giapponese come Mamoru Oshii.
L'OAV è farcito di tutta una serie di considerazioni filosofiche universali, che stanno tanto a cuore alla disciplinata e spirituale tradizione giapponese.
Laddove gli americani ci vanno di pancia e poco di testa, l'arte giapponese sussurra le emozioni e inizia a macinare concetti su concetti, riflessioni su riflessioni. Laddove i primi semplificano il più possibile le trame, i secondi le complicano e le ingarbugliano all'inverosimile.
Perciò anche in "Ghost in The Shell" facciamo una fatica del demonio a capire la trama e a identificare gli schemi di un canovaccio classico. Zero cattivoni, zero intrallazzi sentimentali, poco pathos. I personaggi parlano tanto, discutono su concetti esistenziali: rapporto uomo/macchina, l'identità come un qualcosa di artificiale, l'animo come serie di processi matematici che poco ha di umano e più assimilabile ad un software.
Ovviamente si riflette sulle emozioni, sulla capacità di provarle, riprodurle, controllarle.
Infine, eleva al massimo, la teoria in base alla quale se la nostra personalità non è che il frutto di un programma, essa potrebbe fondersi nella rete con altre personalità, dando vita ad una sorta di super-io. Quante infinite applicazioni avrebbe una possibilità del genere?
Il meglio di sé comunque il film di Oshii lo dà attraverso le immagini che passano sullo schermo: la bellezza di quei 5 minuti di pausa che si prende nel bel mezzo del suo svolgimento, sono qualcosa di indescrivibile; ti passano davanti penetrando lo sguardo estasiato, fino a pervadere il cervello, il tutto accompagnato dal lirismo di cori di voci bianche tribali: evocatività livello 100. Questo per citarne una. Ma ce ne sono altre, perciò gustatevele.
Passando a questo adattamento amerigheno voglio concentrare il succo del discorso. Ora mi spiegate una cosa? Secondo voi è più limitata una persona alla quale madre natura non ha donato una mente particolarmente raffinata, oppure quel fan club di integralisti filologi delle opere originali che si scagliano, per partito preso, contro ogni tentativo di adattarle?
Vi faccio un esempio: immaginate uno chef stellato abituato a cucinare e a mangiare piatti d'alta cucina. Bene ora immaginate di portare il suddetto stellato a mangiare una pizza da Gennarino a Pozzuoli. Cazzo, la pizza non è un piatto così elaborato, ma quanto è buona? Direste mai che fa schifo solo perché viene preparata con una manciata di ingredienti?
No! Bene, gli espertoni fondamentalisti, nei panni di quello chef, schiferebbero quella pizza spaziale.
Perché intendiamoci: "Ghost in The Shell" the movie non ha l'anima del manga e non ha l'anima dell'OAV. Come già detto sopra è il classico esempio di film hollywoodiano che aggiunge patos, azione e sentimento ma toglie raffinatezza, poesia e visionarietà.
E va bene, ok, non è come l'anime bla, bla, bla...
Allora facciamo finta che, per un momento non si chiami "Ghost in the shell", poniamo si chiami Blade Run...Vabbe' dai si chiama "Fantasma nel Guscio". Ebbene è un fottutissimo film godibile, ritmato e abbastanza ben recitato (ciao mi chiamo Juliette Binoche e vi obbligo ad aggiungere abbastanza muahahah). Intrattiene e fa riflettere un pochino.
A livello visivo è orgasmico e, tutto sommato, sta cosa che si ispira a gli dà quel qualcosa in più nella trama e nelle caratterizzazioni. Perciò, fan intelligenti e non, andate a vederlo!
È così che deve essere un blockbuster di qualità. Amen.

Habemus Judicium:

Bob Harris

venerdì 5 maggio 2017

I VACCINI AI TEMPI DELLA POST-VERITA'

Premessa: 
Qualche giorno fa parlavo con alcuni conoscenti di vaccini, una di quelle discussioni in cui il volgo stolto completamente privo di conoscenze scientifiche si erge a ruolo di sapiente ricercatore scientifico. Una serie di cretinerie dette in libertà, sicurezze dogmatiche che si scontrano e si pongono al di sopra di certezze e dubbi scientifici: dove la scienza non arriva ci pensa il primo stronzo che passa e si ferma al bar.
Alla fine eccomi qui a scrivere qualcosa in proposito di vaccini e post-verità (odio questo termine, un abuso linguistico che è andato a sostituire termini più azzeccati come cazzata, falso, stronzata, boiata etc. etc.).

I vaccini ai tempi della post-verità:
"C'è una sentenza che sostiene che il vaccino può causare l'autismo. Ci sono molte persone che stanno portando avanti questa teoria. Ci date la possibilità di verificare? 
[...]Ormai come si mette in discussione il diktat della maggioranza o la posizione generalizzata sei complottista. [...] La gente non fa più vaccini perché purtroppo molte case farmaceutiche, molte posizioni prese dal Ministero della salute e da vari comparti sanitari hanno portato a una profonda sfiducia da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni. [...] Oggi qualunque cosa dicano ti fai quattro domande. Perché te lo stanno dicendo? Forse c'è un interesse dietro a quello? Le case farmaceutiche devono vendere qualche cosa? Si sono trovati un vaccino che non sanno cosa farci e ce lo vogliono somministrare? [...] Forse hanno capito [le persone che non si vaccinano, nds] che in quello che passa c'è parte di verità, parte di interesse, parte di menzogne"

(Senatrice M5S Paola Taverna, in un' intervista a "Piazza pulita", 22 ottobre 2015)


Muovo dalle dichiarazioni che la senatrice Paola Taverna rilasciò il 22 ottobre del 2015 a "Piazza Pulita" (puntata dedicata ai vaccini con la presenza del Ministro della salute Lorenzin in collegamento video) ma sarei potuto partire dalle posizioni assunte da altri politici.
Così, sempre nell'ottobre del 2015 il gruppo del M5S del Parlamento Europeo assunse una dura posizione verso i vaccini sostenendo che le vaccinazioni di massa fossero un "regalo alle multinazionali farmaceutiche", un approccio poco appropriato da sostituirsi con uno sintetizzabile nella formula "vaccinarsi meno vaccinarsi meglio".
In realtà tale visione non è rintracciabile solamente nei 5S (oggi inoltre le linee guida tracciate dal loro capo politico sembrano essere dirette, fortunatamente, in altra direzione); esempio è ciò che è avvenuto a metà dello scorso aprile, quando Zaccagnini, un parlamentare del gruppo MPD , quello formato dai fuoriusciti dal Partito Democratico, organizzò una conferenza dal titolo "Vaccini, l'altra verità" dove si ponevano dubbi sulla salubrità degli stessi.
A questo punto bisogna porsi alcune domande.
Dove sorgono le preoccupazioni che serpeggiano tra popolazione ed esponenti politici?
E sopratutto, c'è un fondamento di verità?
Per capire ciò bisogna fare un salto temporale indietro e tornare al 1998.
In quell'anno, su una delle riviste mediche più autorevoli, "The Lancet", apparve un articolo a firma di Andrew Jeremy Wakefield, medico chirurgo inglese, che prometteva di sconvolgere la visione del mondo scientifico sul ruolo dei vaccini. Dalla sua analisi emergeva un allarme inquietante: la trivalente (morbillo, parotite e rosolia) può causare l'autismo.
Si apriva una possibile rivoluzione copernicana in campo medico: i vaccini che per lungo tempo erano stati considerati la prima forma di prevenzione medica potevano divenire fonte stessa di malattie.
Anni dopo in Italia arrivò una sentenza (quella citata dalla Taverna a "Piazza pulita") emessa nel 2012 dal Tribunale di Rimini. I genitori di un bambino avevano intentato una causa contro l'ASL di Rimini. Oggetto del contendere la manifestazione della sindrome autistica al loro figlio a seguito della somministrazione della trivalente. Fondarono la causa sulla loro testimonianza e sopratutto sulle tesi esposte nel 1998 su "The Lancet" da Wakefield.
Il tribunale si pronunciò in favore dei genitori, certificò il nesso causale tra vaccino ed l'autismo riscontrato nel bambino e condannò l'ASL al risarcimento di una somma pari a 200000 euro. La giurisprudenza riconosceva per la prima volta il dubbio insinuato dal medico inglese, una rivoluzione nel campo del diritto.
Ma allora i vaccini che abbiamo fatto un po' tutti noi sono davvero così pericolosi?
E sopratutto perché perpetrare il loro utilizzo e far correre rischi ai nostri piccoli?
In realtà c'è un però (gigante) in questa storia. Bisogna ricordarsi che viviamo nell'epoca della post-verità (ho deciso di schiaffeggiarmi ogni volta che userò questa parola), un tempo in cui la discussione su un fatto diviene più importante della fondatezza dello stesso.
Trascorrono 3 anni, siamo all'inizio del 2015, e si delinea un revirement giurisprudenziale.
Il Giudice di Appello di Bologna, sconfessa il tribunale di Rimini. La realtà processuale è un'altra.
Viene nominato come Consulente Tecnico il medico Vittorio Lodi e la sua relazione smonta pezzo per pezzo tutta la ricostruzione operata in primo grado: 1) non è attendibile la testimonianza dei genitori per valutare il fatto; 2) c'è una visita pediatrica precedente di un anno rispetto alla somministrazione trivalente, dalla quale era emerso un ritardo nello sviluppo psico-motorio; 3) considera inattendibile le tesi di Wakefield, il nesso causale tra autismo e vaccino trivalente non esiste.
Ma come, qualcuno penserà, ma il medico non aveva fatto quella pubblicazione sull'autorevolissima rivista?
In realtà da quello studio partirono sviluppi assai tristi per il mondo della ricerca medica.
Si aprirono diversi filoni d'inchiesta (non vi tedierò riportandovi tutta la storia nei minimi dettagli, ci sono molte fonti autorevoli sia in inglese che in italiano facilmente consultabili) sia in ambito giornalistico che medico.
Si scoprì che il medico alterò volontariamente i risultati della sua indagine e lo fece per ragioni prettamente economiche. L'obiettivo era quello di permettere ad un avvocato di porre in essere onerose cause contro alcune cause farmaceutiche e di aver garantita la vendita di un vaccino, da lui brevettato, alternativo a quella trivalente di cui aveva dimostrato la pericolosità. "The Lancet" ritirò la pubblicazione e Wakefield venne radiato dall'albo.
Nonostante ciò il falso studio continuò ad avere i suoi effetti provocando un netto calo delle vaccinazioni nel Regno Unito ed in molti altri paesi occidentali (Italia compresa).
Come detto in precedenza la nostra è un epoca in cui tutto può essere smentito, compreso lo smascheramento della frode costruita da Wakefield. Viviamo di complotti e complottisti.
Con lo sviluppo dei social si è data la possibilità ad una massa indistinta di fare informazione direttamente da casa, in assenza della minime conoscenze tecniche.
Ci troviamo dinnanzi a continue distorsioni, che vanno a minare anche ciò che di più solido ci può essere, compresa la stessa scienza. La realtà dei fatti ci dice che grazie alla vaccinazione la mortalità da morbillo nell'arco di tempo che va dal 2000 al 2013 è stata abbattuta del 75% (dati ufficiali dell' OMS). I dati ci dicono inoltre che in Italia a causa della diminuzione dell'uso della trivalente si è avuto un nuovo pericoloso incremento del morbillo (notizia di questi giorni sono i 395 contagi di morbillo nell'ultimo aprile, 5 volte di più rispetto all'aprile 2016).
Ma i numeri interessano a pochi. E poi che diamine, la vaccinazione obbligatoria è un regalo che si fa alla Big Pharma; maledetti lobbisti!
A lor signori basterebbe andarsi a guardare i dati di spesa per la salute in Italia.
Si scoprirebbe, con relativa semplicità, che il costo annuo sostenuti dallo Stato per i vaccini è pari allo 0,3% delle spese totali, molto meno rispetto alle risorse impiegate per la cura delle malattie prevenibili; qui nel Bel Paese spendiamo 1.5 miliardi di euro per le epatiti.
Insomma, le ditte produttrici di farmaci guadagnano di più con i malati che con la prevenzione.
I fatti, e il metodo (scientifico) per accertarli, oggi sembrano però perdere ogni credibilità, siamo in un'epoca di ruoli interscambiabili, in cui tutti sono giornalisti improvvisati e si prendono la briga di creare una molteplicità di verità contrastanti. Un continuo ed allarmante rifiuto del sapere (scientifico, filosofico, giuridico, non importa quale) che appare agli occhi di qualcuno come un' orrenda menzogna creata da un potere costituito da abbattere e da cui fuggire. Lo sviluppo di un pensiero acritico che si appiattisce sulla relatività del dato. Un quadro in cui la politica ha la sua fetta di colpe.
Come disse un personaggio verso cui nutro profondo disprezzo, "una menzogna ripetuta all'infinito diventa la verità".

Ismail

mercoledì 3 maggio 2017

"CONTROL" (2007) DI ANTON CORBIJN: UN DOPPIO COMMENTO AL FILM

« L'esistenza. Che importanza ha? Io esisto meglio che posso. Il passato fa parte del mio futuro. 
E il presente è fuori controllo»

1) Ordinare il dvd di "Control" dall'Inghilterra per spararmelo in versione originale con sottotitoli in Inglese credo sia stato un atto d'amore da parte mia nei confronti dei Joy Division. In realtà sto formulando una frase fatta buttata li perché si ficcava bene nella mia fluida stesura di questa introduzione. 
No, non posso definirmi un fan dei Joy Division. Sono stati uno dei primissimi gruppi che ho iniziato ad ascoltare nella mia iniziale fase di miglioramento dei gusti musicali. Eccomi lì in un periodo di transizione dalla musica pop e, ganzo ganzo, potevo difendermi (almeno per qualche minuto) con gli intenditori citando il consideratissimo e radical chicchatissimo gruppo di Manchester, elencandone qualche pezzo. Che poi mi piaceva molto ascoltarli, solo che, ovviamente, sono un po' depressivi e ossessivi, cosa che ne ha contraddistinto il sound ed è assunto a marchio di fabbrica. 
Ora sicuramente la recensione del mio illustre collega sarà più partecipata e scrupolosa della mia , perché parliamo di un possessore di vinili di entrambi gli album e afiocionado da decades: perciò vi rimando a dare l'occhiata più partecipe al suo post.
Il film è fatto molto bene.
Recitato bene dagli attori (i live sono riprodotti fedelmente e Sam Riley si avvicina molto al timbro e alle movenze di Curtis) e girato bene da Anton Corbijn, regista di videoclip che però non usa uno stile da videoclip manco per niente. Anzi il film ha un piglio documentaristico e, raramente, vedrete un biopic musicale così asciutto (vero Oliver Stone?).
Il bianco e nero fa la sua porchissima figura ed è fondamentale per immergerci nel clima ossessivo/cupo/espressivo del protagonista e, soprattutto, della provincia grigia e industriale del nord dell'Inghilterra. Il regista, tra l 'altro, aveva già avuto a che fare con i Joy Division: aveva girato il videoclip di Atmosphere, proprio in bianco e nero (nella riedizione del brano del 1988).
Il film è incentrato ovviamente su Ian Curtis; la band è contorno di patate; le donne della sua vita sono il tormento che lo farà a pezzi; l'epilessia un demone infimo che si nasconde per poi assalire all'improvviso, una sentenza di morte che non ha un perché né una speranza. Chiunque voglia avvicinarsi a questa figura misteriosa e magnetica, capire il perché del gesto estremo che ha mosso la sua mano, dovrebbe vedere questo film: ciò che "Control" ci restituisce è l'animo fragile, vessato dalla malattia e dal dolore distruttivo di un sentimento continuamente fagocitato e rigettato; consumandosi tra due fuochi, ciò che Ian non è riuscito ad accettare, è il fatto che l'amore possa diventare da un lato una prigione di doveri, una zavorra di sensi di colpa e dall'altro è l'effimero e frustrato tendere verso qualcosa di irraggiungibile.
Ciascuno di noi lotta ogni giorno con questa consapevolezza.
Ian Curtis non era un divo, era un ragazzo qualsiasi.

Habemus Judicium:

Bob Harris
2) I Joy Division sono uno dei simboli più fulgidi del post-punk.
Due soli LP all'attivo, "Unknow Pleasure" e "Closer", due capolavori che rinnovarono profondamente la scena musicali. Un alternarsi di suoni gelidi ed ossessivi (più rabbiosi nel primo, quasi levigati nel secondo) che accompagnano e riflettono le cupezze dei testi di Ian Curtis: è lo specchio di un'esistenza dilaniata, un racconto austero e fascinoso mai alla ricerca di compatimento.
L'idea di fare un film sulla figura tanto carismatica quanto fragile del cantante macuniano sfiorava la mente di qualche produttore già da circa un decennio; l'occasione era di dar immagine a "Touching from a distance", romanzo autobiografico edito nel 1995 e scritto da Deborah Woodruff, la vedova Curtis.
Dopo tanti anni si giunge a dama ed il progetto viene affidato all'olandese Anton Corbijn, un esordiente ai lungometraggi, sino ad fotografo celebre per i suoi ritratti a tanti musicisti nonché regista di numerosi videoclip musicali di importanti band come i Depeche Mode ed i New Order.
Il progetto per Corbijn rappresentava un ritorno al passato.
In un'intervista di qualche anno fa disse "I moved from Holland to England in '79 because of Joy Division". Fu grazie a quel trasferimento che arrivò la sua svolta artistica.
I dubbi prima della visione del film (quasi dieci ani fa, sic) erano molti.
I biopic sono un campo minato per i registi; a volte danno vita a prodotti simil-televisivi in cui si corre didascalicamente lungo gli eventi principali di una vita; altra volte, in caso di biopic a sfondo musicale, ci siamo ritrovati tra i piedi pellicole scialbe, infarcite a più non posso di brani musicali, tese a costruire più un'agiografia che a raccontare una storia. Altre volte ancora si è caduto nel grottesco con ricostruzioni della vita privata così goffe da sembrare quasi un inutile tentativo di smitizzare l'artista in questione.
Poi la scelta dell'esordiente Corbijn fu un bell'azzardo.
La visione di "Control" fugò ogni dubbio iniziale.
Non un capolavoro, ma sicuramente una buona prova.
"Control" muove dallo Ian diciassettenne ed intreccia il racconto della vita artistica con quella privata. Da un lato i primi passi dei Warsaw (il primo nome dei Joy Division), i concerti ed il tentativo di sfondare, una storia che accomunava Ian e soci a quelle decine di band che sorgevano dalla dirompente rottura apportata dall'ondata punk. Dall'altro lato i difficili rapporti sentimentali con Deborah Woodruff, la moglie, e la giornalista belga Annik Honorée.
Il film è quadrato ed austero, contraddistinto da un glaciale B/N (che il regista conosce molto bene) che ben inquadrano il contesto storico-sociale dell'Inghilterra operaia (bello il rapporto tra spazi urbani e persone che sembrano compenetrarsi l'uno con l'altro), nonché le luci ed ombredello Ian ragazzo.
Ricca e meravigliosa la colonna sonora, ma non poteva essere altrimenti. Tanti i brani dei Joy Division, come ovvio che sia, a cui si aggiungono David Bowie (ammirato dal giovane Ian Curtis), Kraftwerk e Sex Pistols. Ma "Control" non è solo musica. Ed è questo il grande pregio.
Crorbijn opta per i silenzi, i punti morti, gli interni degli appartamenti in cui far risaltare scricchiolii e rumori di sottofondo; è grazie all'azzeccata ricostruzione di un ambiente intimo che lo spettatore entra in simbiosi con le sofferenze dell'animo umano.
Poi c'è Sam Riley, vero punto esclamativo del film; perfetto nell'interpretare il cantante mancuniano nelle movenze e le vocalità. E si, anche la seconda, visto che i brani dei Joy Division presenti nel film (escluse "Atmosphere" e "Love will tear us part") non sono le versioni originali bensì registrazioni eseguite direttamente dal cast del film durante le riprese. Scelta coraggiosa che ha dato grande credibilità alla scena.
Corbijn se la cava egregiamente in un campo dove sono scivolati registi con ben altra esperienza. Firma una pellicola che fuoriesce dalla fanbase della band, fugge dalla banalità del mito musicale, ed apre le sue braccia al cinema.

Habemus Judicium:

Ismail