giovedì 31 maggio 2018

"MATTATOIO N. 5 O LA CROCIATA DEI BAMBINI" DI KURT VONNEGUT

La città di Dresda dopo i bombardamenti
«Tra le cose che Billy Pilgrim non poteva cambiare c’erano il passato, il presente e il futuro»

Dresda non era un obiettivo. Di più, Dresda era percepita come città aperta.
La guerra aveva messo in ginocchio la sua cittadinanza, ma gli echi delle bombe erano rimasti relativamente distanti. Si poteva almeno provare a continuare la vita di tutti i giorni. Poi però il fronte orientale iniziava ad avvicinarsi. C'era il rischio che Berlino spostasse mezzo milione di militari nell'est del paese per bloccare l'avanzata russa. Gli alleati dovevano bloccare ogni mezzo di comunicazione e trasporto. Dresda diveniva un obiettivo. Tra il 13 ed il 15 febbraio del 1945, la cittadina tedesca venne sorvolata da centinaia di aerei della Raf, seguiti dai micidiali B-17 americani. Migliaia di bombe lasciarono una scia di macerie e morte.
E cosa centra tutto ciò con un romanzo sci-fi?
Centra perché Kurt Vonnegut era stato fatto prigioniero dall'esercito tedesco ed in quelle ore si trovava a Dresda; c'è di più, era in una grotta, ricavata sotto un mattatoio.
Centra perché la fantascienza, sostenuta dall'ironia e da un tratteggio folle, diviene uno specchio distorto e pulsante attraverso cui mostrare ciò che altrimenti sarebbe impossibile da raccontare. Perché, come ammette lo stesso Vonnegut, a volte fermarsi e guardare indietro verso la storia, può tramutarci in statue di sale.
"Mattatoio n. 5 o La crociata dei bambini" è una strana creatura, un libricino di neanche di 200 pagine in cui si nascondono contenuti e pensieri di una saggezza sottile che mira alla sopravvivenza.
E' lo stesso io di Vonnegut ad aprire il romanzo, una ricostruzione dei ricordi e delle ombre dei bombardamenti. Poi l'io narrante scompare, si scioglie nella fantasia e ci conduce verso il protagonista: Billy Pilgrim.
Billy è un uomo normale che gode di un benessere economico che mai avrebbe pensato da giovane. Ha una moglie, un po' corposetta e amante del cibo, due figli, ed una casa borghese.
Billy è stato una delle tante vittime della seconda guerra mondiale. Totalmente incapace a sopravvivere ad un conflitto, si è ritrovato sul fronte come assistente del cappellano; qui durante la campagna delle Ardenne, viene catturato dai tedeschi, fatto prigioniero e costretto al lavoro coatto a Dresda.
E' un uomo normale Billy, ma solo se ci limitiamo ad uno sguardo superficiale.
Egli ha il dono di viaggiare nel tempo, salta involontariamente da un momento all'altro della propria vita. In più ha fatto un incontro speciale. E' stato catturato da alcuni alieni che lo hanno fatto diventare la principale attrazione in uno zoo.
Ci ritroviamo smarriti tra continui salti temporali, un puzzle intricato che ricostruisce la vita del nostro non-eroe. E quella Dresda, primo motore della narrazione, si avvicina e si allontana come uno spettro.
"Mattatoio n. 5" è un apparente caos, una tentata fuga da un dramma che rimarrà sempre appiccicato addosso al narratore; e ciò incide lo stesso approccio di scrittura che intervalla fasi grottesche e più scanzonate, ad altre che si spingono verso un realismo più crudo.
Siamo dinnanzi ad un romanzo che, come il suo protagonista, è semplice solo in superficie.
Nella lettura emerge un fascio infinito di impulsi che aprono inevitabilmente a mutevoli prospettive interpretative. E non poteva essere altrimenti visto i temi affrontati; Dresda conduce a ragionamenti su morte, guerra, destino e tempo, forze ineluttabili che travolgono l'esistenza umana e non lasciano spazio ad alcuna spiegazione. In assenza di risposte non rimane che la resilienza, uno stoicismo che suggerisce l'accettazione dei drammi, che tanto sempre ci saranno, ed il saper vivere a pieno i momenti felici.
Finita la lettura rimangono input, pensieri, idee vaghe e distorte, stimoli di un libro complesso ed appagante.

«La morte è una necessità invincibile e uguale per tutti: chi può lamentarsi di trovarsi in una condizione a cui nessuno può sottrarsi?»
-Seneca-

Habemus Judicium:
Ismail

lunedì 28 maggio 2018

"EX MACHINA" (2015) DI ALEX GARLAND

Alex Garland con "Ex Machina" era al suo debutto dietro la macchina da presa. Budget bassissimo, ma sufficiente per accaparrarsi Alicia Vikander e Oscar Isaac, allora (2015) già attori rodati ma non ancora mainstream. Spoilerando un attimo il riconoscimento popolare a posteriori del film, esso si accaparra un Oscar e una candidatura: rispettivamente effetti speciali e miglior sceneggiatura.
Che dire...Un bel paradosso sia la statuetta agli effetti speciali, per un film dal budget così basso, sia la candidatura alla  Miglior sceneggiatura considerando la staticità diegetica ed emotiva dell'opera.
La trama: Caleb (Gleeson Junior) brillante programmatore vince uno stage di una settimana nella residenza montana dell'amministratore delegato della sua società, Nathan Batman (Isaac). Tramite il Test di Touring entrerà a contatto con Ava (Vikander), un soggetto sintetico con il quale si instaurerà pian piano una certa affinità.
«Le intelligenze artificiali ci ricorderanno come scimmie erette destinate all'estinzione», leitmotiv, da sempre, delle proiezioni fantascientifiche dell'essere umano. Il dominio delle macchine e l'estinzione umana sono sempre argomento attualissimo e oggetto anche delle più recenti teorie scientifiche.
Ma se un film del genere ripropone un concetto trito e ritrito, senza buttare un po' di azione crassa o qualche sdolcinatezza alla A. I. di Spielberg... Ma che roba è?
Beh, chiaramente Alex Garland decide di puntare su altri elementi. Nella fattispecie non si può facilmente eludere il fascino ipnotico di una messa in scena che mischia la perfezione totalmente asettica delle forme, con il barocchismo di alcune soluzioni. Ava d'altronde non è un cyborg simmetrico: è un robot naked, cavi circuiti e bulloni all'aria, sul quale, a parvenza di umanità, è appiccicato il viso di Alicia Vikander, dallo sguardo vuoto ma che allo stesso tempo trasmette una innata dolcezza.
Barocco è anche il personaggio di Bateman, interpretato da un Isaac del quale ti puoi sempre fidare (a differenza del suo character): onestamente però, si fa fatica ad accettare che una mente tanto geniale sia custodita in una fisicità così straripante e si manifesti in un atteggiamento da College Party.
Già... si fa fatica, e, a pensarci bene, non lo si può mandare giù a tal punto da evitare una stonatura. Perciò, nada, niet: questo è falso barocchismo.
Il protagonista non è niente se non l'insulsità della mediocrità: il che va molto bene e si sposa in modo magistrale sia con il mood del film che con la filosofa che alberga dietro. Un po' meno (altro eufemismo) con il cambio di marcia finale, troppo forzato, poco plausibile nella sua rappresentazione sbrigativa e incoerente con se stessa.
Detto ciò il film è di una bellezza rara per gli occhi e per le orecchie. Oltre alle suggestive locations (norvegesi), il synthwave di sottofondo scandisce alla perfezione tutta una serie di inquadrature curate al dettaglio dal risultato molto evocativo, pur nella loro intuitività.
Insomma pare che con poco funzioni tutto e questa è un grande merito  del regista, il quale decide di dare un'impronta tra il glam e il decadente alla pellicola, mantenendo un tono sommesso e candido, non alzando mai le righe (quasi...la disco dance anni 70 parodiata? Tornare al discorso barocchismi) . Non è neanche questo gran snocciolare di teorie filosofiche/scientifiche/esistenziali. Ma il messaggio, ripetiamo, pur nella sua semplicità concettuale, arriva forte.
D'altronde si vuole semplicemente far capire che «non c'è niente di più umano della voglia di sopravvivere». Era già tutto lì nello slogan promozionale, ma il risultato sorprende positivamente. 
"Ex Machina" è un film che punta tutto sulla bellezza ed eleganza delle sue immagini, per veicolare, pochi ma centrati, concetti universali. Una visione per chi sa amare questa arte nella sua versione più pura, scevra da arrovellamenti e rimandi infiniti. Semplicemente il cinema, nella meraviglia della creazione visiva.

Habemus Judicium:
Bob Harris

lunedì 21 maggio 2018

"A SERBIAN FILM" (2010) DI SRDAN SPASOJEVIC

Doveva rimanere un piccolo prodotto indipendente per il solo mercato interno.
Poi però giunse un festival di cinema e musica degli States, il South by Southwest, e successivamente la ben più prestigiosa proiezione al Festival di Cannes. E le eccessività di scene e narrazione non potevano che far divenire "A Serbian Film" un caso mediatico. L'impressione fu di trovarsi dinnanzi ad una di quelle pellicole che ambiscono a spostare in avanti il confine tra ciò che è eticamente accettabile e ciò che non lo è.
Il risultato? Il film è stato bandito, censurato e tagliuzzato in molto paesi, ed in patria ha portato all'apertura di un'inchiesta ufficiale per valutare la presenza di reati contro la morale pubblica.
Ma cos'è questo "A Serbian film"? Una macelleria eccessiva, furba ed eticamente inaccettabile? Oppure, come ha tenuto a dire il regista Spasojevic, una riflessione allegorica sulle angherie che la politica serba ha perpetrato sul suo popolo prima e dopo la disgregazione jugoslava?
Il protagonista, Milos, è un ex divo del cinema porno; ha lasciato il set per garantire una vita serena e normale alla moglie ed al figlioletto. Giunge però una proposta che non si può rifiutare. Vukmir, un bizzarro regista hard, gli propone un ultimo ritorno alle scene, promettendo una quantità di denaro inimmaginabile, una di quelle cifre che può far vivere il resto dell'esistenza tranquillamente. C'è solo un particolare, il pornostar non può sapere nulla della sceneggiatura; in scena deve essere sé stesso, il film mira alla realtà. Ben presto Milos si renderà conto di trovarsi dinnanzi ad un'organizzazione spietata ed assetata di violenza, e lui si vedrà costretto a prendere parte ad uno snuff-movie.
Poco più di un'ora e mezza di film che ti stendono. Spasojevic ci martella la testa sfondando i tabù sessuali della nostra società. In ogni scena si crede di aver raggiunto l'apice, poi però giunge una nuova inquadratura che fa crollare ogni speranza. Si è assaliti da un profondo disagio, datoci da immagini che più crude non si può, e dal piano psicologico della narrazione che ci propone una sete di un potere della quale si rimane inesorabilmente vittime. E' l'esercizio dell'anarchia del potere, un dominio che prende pieno possesso dei corpi e fa di essi ciò che vuole; ed in questa anarchia la sessualità maschile deflagra in una furia sui corpi dei più deboli, un patriarcato/maschilismo portato alle estreme conseguenze e massificato nella pornografia.
Il film funziona per alcuni tratti. La regia pulita dalla veste glam, i buoni effetti speciali, la fotografia mutevole e la colonna sonora minimale, incorniciano degnamente gli squilibri narrativi e contribuiscono alla resa dell'inquietudine. Così come azzeccato il gioco sui piani temporali.
Che poi "A Serbian Film" sia realmente un film con cui mostrare l'introiezione della violenza della guerra civile e di un esercizio del potere abominevole sulle parti deboli della società, viene più di qualche dubbio; a parte qualche pseudo divisa attorno al set o un discorso programmatico di Vukmir, non ci sono altri riferimenti. E questa sensazione sembra essere suffragata dall'inserimento di trovate narrative decisamente sopra le righe, che spezzano il necessario minimalismo e danno la sensazione di star lì più per destare scandalo e clamore.  E se questo risultato sia figlio di ciò o dei demeriti di un regista non in grado di maneggiare cosi tanta carne sul fuoco, non lo sapremo mai.
"A Serbian Film" è un'opera sconcertante, istintivamente repulsiva e schifosa. Può aprire a valutazioni più meditate grazie ad alcuni spunti intelligenti (chissà poi quanto realmente voluti) in buona parte annacquati, imbrigliati ed indeboliti da una eccessiva voglia di mostrare tanto per; non sono pochi i passaggi che si potevano tranquillamente evitare.
Un consiglio per i ragazzuoli/e che abbiano voglia di avventurarsi in questa visione: presentatevi davanti allo schermo a stomaco vuoto, perché questa visione può risultare indigesta.

Habemus Judicium:
Ismail

lunedì 14 maggio 2018

"IL CONDOMINIO DEI CUORI INFRANTI" (2015) DI SAMUEL BENCHETRIT

«Che cos'è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d'esecuzione» diceva qualcuno. E per quale ragione relegarlo nella mera traduzione dei titoli dei film stranieri quando ci si può sbizzarrire liberamente?
A volte va discretamente bene. Pensiamo a "The Texas Chainsaw Massacre" che da noi diventò "Non aprite quella porta". Altre volte è un mezzo disastro. Il caro Truffaut, che sicuramente fece qualcosa di molto brutto al titolista italiano, si vide trasformare il suo "Domicile Conjugal" in "Non Drammatizziamo...è solo questione di corna", manco fosse 'na commedia con Ubalde e Pippi Franchi.
E non è andata neanche bene a Benchetrit. Il suo "Asphalte" è stato distribuito come "Il condominio dei cuori infranti", con tanto di O stilizzata a forma di cuore sulle locandine. Un bluff ai danni dello spettatore, da un titolo così ci si può solo aspettare una commedia mielosa.
La realtà che si incontra sin dai primi minuti è ben altra. 
Una cifra stilistica austera, fatta di silenzi e lunghi piani sequenza che toccano note di surreale. Ed a fare da scenografia i palazzoni grigi ed amorfi delle banlieue, luoghi tenuti separati da quei centri immortalati nelle cartoline. Si entra in uno dei condomini. Pareti imbrattate, un ascensore che non ne vuole sapere di funzionare e dietro le porte un' umanità fatta di cadute e solitudini.
Benchetrit ci propone tre storie.
Quella di Stemkowitz, un uomo insignificante ed asociale che, dopo essersi rifiutato di pagare la sua quota per l'ascensore, si ritrova sulla sedia a rotelle per uno sforzo eccessivo su una cyclette. Inizia una vita notturna, lontano da occhi indiscreti pronti a giudicarlo, che lo porteranno a conoscere un'infermiera.
Poi c'è Hamida, dolce madre algerina con il figlio in carcere, che apre la sua porta di casa a John McKenzie, un astronauta americano uscito fuori dai radar della Nasa e sbarcato per errore sul terrazzo dell'edificio.
Infine Charly, un adolescente con una madre fantasma, che fa la conoscenza della nuova dirimpettaia, Jeanne, un'attrice famosa negli anni '80, oggi depressa e con il vizio del bere.
Tre storie quindi, che si muovono parallelamente e si incontrano solo idealmente in quel senso di sconfitta e rinascita.
Il Condominio colpisce nel suo minimalismo. Pochi dialoghi e qualche sguardo bastano per calarci nelle pieghe dell'animo dei protagonisti, un tratteggio libero dai facili sentimentalismi (sempre dietro l'angolo in script come questi) e carico di un'ironia che si burla delle paure dei nostri tempi e dei piccoli egoismi umani.
Non siamo dinnanzi a niente di così nuovo ed originale è vero; e questo difetto lo si avverte sopratutto nell'incontro tra l'adolescente e l'attrice matura, dove si segue un canovaccio che sa di già visto. Alcuni potranno tacciare Benchetrit di estremo buonismo nel lasciarsi alle spalle, e celare, i conflitti sociali francesi. Eppure non si può non apprezzare questo sgangherato "Condominio" che attraverso i suoi caduti, apre le porte ad una dolce umanità che resiste agli alveari abitativi, ci distoglie dai timori quotidiani e ci dona una incosciente e fiabesca serenità. E ritrovarsi così fa sempre bene all'animo.

Habemus Judicium:
Ismail

giovedì 10 maggio 2018

CLAUDIO CALIGARI, L'OUTSIDER DEL CINEMA ITALIANO (PARTE III):"NON ESSERE CATTIVO" (2015)



«Una storia degli anni novanta. Quando finisce il mondo pasoliniano »
-Claudio Caligari-

Forse era inevitabile che si dovesse tornare lì da dove tutto è partito.
Ostia col suo pontile ancora una volta l'ideale scenografia per l'inizio di un suo film. E lì due amici, Vittorio (Alessandro Borghi) ed un nuovo Cesare (Luca Marinelli), che si incontrano. Al centro della pellicola delle vite marginali e le droghe, non più da iniettare ma da deglutire o sniffare.
Ma prima di giungere a "Non Essere Cattivo" erano state battute anche altre strade. Un tentativo di opzione, poi fallito, assieme a Valerio Mastrandrea per il "Romanzo Criminale" di Giancarlo De Cataldo. Una sconfitta su tutti i fronti. Mastrandrea non entra nel cast, Caligari viene proposto per regia ma la produzione alla fine gli preferisce Michele Placido; il risultato è una prova scialba che di li a poco sarà oscurata da una più degna serie tv firmata da Sollima
Poi, siamo tra il 2004 ed il 2005, tutto sembra pronto per "Anni Rapaci", un lungo racconto che muove dalla metà degli anni '70 e giunge al presente; è la storia dell'ascesa dei clan dei calabresi a Milano. Si compone il cast, tra i quali figurano Marco Giallini e l'amico Mastrandrea. Poi però i produttori chiudono il portafoglio e tutto si ferma. Per loro era impensabile girare un film su personaggi così tanto negativi. 
Tante sconfitte, è vero, eppure la pellicola ricomincia a girare. "Non Essere Cattivo" non lo vedrà montato, Caligari morirà poco prima. Seguirà il Festival di Venezia, che gli aprirà idealmente le porte per l'ultima volta. Poi il film sarà scelto come il titolo italiano da proporre per gli Oscar. Il nostro cinema si ripuliva la coscienza dopo averlo tenuto alla larga. Ma evitiamo le polemiche, che a nulla servono, e torniamo a quel pontile ed ai due amici che abbiamo incontrato poco fa.
"Non essere cattivo" è un film doloroso.
Lo è per la storia; al centro abbiamo due non-eroi destinati alla sconfitta, che tirano a campare spacciando qualche pasticca e un po' di coca, e di tanto in tanto vanno a sballarsi con gli amici. Una vita che si trascina senza senso ed immersa in una realtà che non lascia speranze. L'inerzia viene rotta da un violento trip che sconvolge Vittorio. Trova un lavoro, una compagna con cui costruire una vita e cerca di salvare quell'amico-fratello che di cambiare non ha poi tanta voglia. 
"Non essere cattivo" è la storia di due reclusi, confinati in una borgata dalla quale sembra impossibile uscire e che lascia senza respiro; dove la roba da vendere diventa necessaria ed il lavoro, fatto di cantieri in cui lavorare in nero, è un disvalore; e quel maledetto mare che si staglia lì davanti a loro, è una barriera che è meglio non guardare perché fa salire i pensieri.
Ed il dolore non è solamente nella storia messa in scena. Sta anche nel vedere un regista, che, con eccezionale bravura, tira su un film così semplice ed allo stesso tempo carico di significati.
E' difficile trovare tanto equilibrio nel parlare della società di ieri ed oggi. Così come incrociare dialoghi asciutti, secchi e carichi di tensione, cosi ben scritti; scavalcano ogni finzione scenica e sembrano uscire direttamente dal quotidiano.
E quella attinenza con il reale, che Caligari ha sempre ricercato, viene incorniciata magnificamente con una fotografia che immortala notti tenebrose illuminate dai neon dei bar (come ne "L'odore della notte"), e da un sole pallido e rarefatto che si specchia nella sabbia di Ostia. Così come notevole il casting, vero punto di forza di tutta la filmografia del regista di Arona, con un Luca Marinelli che porta allo scoperto la profondità delle sue interpretazioni ed un sommesso Borghi, qui perfetto compagno di set. Lo stesso si dica per gli attori minori, volti perfetti di personaggi ottimamente calibrati.
Si chiude un cerchio ideale e lo si fa nel migliore dei modi, attraverso una non-epopea intessuta di una tragica ironia, un viaggio tra le emozioni che ci porterà dinnanzi ad una serenità solo effimera;, perché alla fine, si sa, le cose non bastano mai.

Titoli di coda:
In 30 anni di carriera ci ha lasciato poco se guardiamo le filmografie da un punto di vista meramente quantitativo, tanto se vediamo il significato di questa preziosa eredità. Il suo è stato un cinema resistente, portatore di un sguardo alternativo rispetto alle narrazioni dominanti.
Il cinema popolare italiano, a partire dagli anni '80, ha iniziato un processo involutivo. I generi sono spariti, così come si è persa traccia delle zone grigie della società. Si è preferito un approccio edulcorato, senza conflitti, in grado coccolare lo spettatore. Roma, Napoli e Milano sono stati ridotti ridotti a gerghi, dei non-luoghi in cui non c'è nulla che possa minare una posticcia serenità di fondo e costringa lo spettatore ad una presa di coscienza, anche involontaria.
Caligari con ostinazione,  inseguendo il solco pasoliniano, è sceso dalla sua Arona e si è fermato a Roma. Ha conosciuto quei luoghi marginali che il cinema italiano ha per lo più dimenticato, e con umiltà, rigore ed ironia, ci ha mostrato queste realtà; lo ha fatto con una lucidità impressionante, senza mai ergersi a giudice dei personaggi portati in scena.

«Per Claudio 'ideologia' non è mai stata una brutta parola. Lo ha spinto a non fare mai un passo indietro e gli ha permesso di difendere quello che faceva con una forza che non ho mai visto in vita mia. E gli ha consentito anche di lottare con il male costringendolo ai supplementari più di una volta. Claudio ha perso ai rigori, che si sappia questo. E ai rigori non è mai una sconfitta reale. A tutti noi che lo abbiamo accompagnato nell'ultimo sogno realizzato è bastato questo. Onorarlo nel lavoro che più ha amato, maledicendo la sua ostinazione, ammirandone la tenacia, il coraggio e la passione. Ridendo alle sue battute crudeli. Commossi davanti alla sua commozione dell'aver iniziato e finito il suo nuovo e ultimo film» (dal Tumblr di Valerio Mastrandrea).

Ismail

lunedì 7 maggio 2018

A TUTTO CORTO #3: "KUNG FURY" (2015) DI DAVID SANDBERG

«Con gli anni '80 avete rotto il cazzo/che poi hanno rotto il cazzo già dagli anni '80» canta Giancane nella sua "Limone"; e noialtri, che quotidianamente tocca sorbirci un ritorno stucchevole del peggior plasticume di quegli anni, non possiamo che stare dalla sua parte. Un male che non conosce confini, parte dalla musica che scimmiotta Stadio ed affini, passa per mode inguardabili e giunge nel cinema, dove, anche il padre-padrone di Hollywood, Steven Spielberg, si spinge a donare mal di testa agli spettatori con condensati nostalgici pensati per tutti i fans/nerd del globo terracqueo (ogni riferimento a "Ready Player One"[LINK]è puramente casuale).
Poi però in mezzo ad un mare di narrazioni tossiche e melmose sbuca fuori un progetto curioso tutto votato a quegli anni, un piccolo riquadro di tempo della durata di 31 minuti, in cui si condensa un delirio puro, frivolo ed intelligente, che gode di un'estetica esagerata, della musica sinthwave e della voce di David Hasselhoff.
Tutto comincia nel lontano 2013, attraverso una campagna di crowdfunding sulla piattaforma Kickstarter. Viene pubblicato un trailer e nel giro di neanche 24 ore si raggiunge l'obiettivo dei 200000 mila dollari. Passa un mese e si arriva a 630000 $, cifra di tutto rispetto per chi si vuole divertire in uno studiolo armato di green screen. Dietro a tutto ciò c'è una sola persona (più una manciata di attori), David Sandberg, che assume nello stesso tempo le vesti di scrittore, regista e, udite udite, protagonista. Due anni di duro lavoro, in cui far quadrare i conti e dar vita ad un prodotto di buona fattura.
La storia? Una sconclusionata magnificenza della quale meno si parla è meglio è; si rovinerebbero gli esilaranti spunti creativi disseminati in lungo e largo da Sandberg.
Miami, 1985. Un detective viene colpito da un fulmine e morso da un cobra, ha un trip da arti marziali e scopre di essere il prescelto; diviene l'abominevole uomo del kung fu, un concentrato di poteri sovrannaturali che userà per contrastare i criminali della città. Nel frattempo un malvagio baffuto del quale quasi più nessuno ricorda le gesta (Hitler), grazie ad un viaggio nel tempo, giunge nel presente e fa stragi di persone. Al prescelto non resta che viaggiare a sua volta nel tempo, andare nel passato e fermare il temibile Fuhrer.
Pochi dialoghi e tutti azzeccati, cadenzati da battute rapide e taglienti (pensiamo ai due nazisti tarantinati), e tanta, tantissima azione.
"Kung Fury" è una mezz'ora di pieno spasso in cui si frullano gli stereotipi dell'action movie e dello sci-fi anni '80 e primi '90; il protagonista è il perfetto cliché dell'eroe: una voce bassa alla Stallone, un taciturno dalla battuta pronta che si lancia in continue mosse marziali esaltate dagli effetti speciali; dominano le ambientazioni notturne e tenebrose pervasa da bande colorate e sui generis; la resa grafica da Vhs, quei maledetti nastri magnetici che si rovinavano inesorabilmente; ed ancora inserti simil-spot pubblicitario made in U.S.A. E' puro citazionismo maledettamente ironico, un'omaggio ad un periodo dominato da un'estetica inconsistente, un viaggio (equilibrato) nel nonsense e nel patinato con cui prendere in giro la riscoperta di quegli anni.
In breve tempo il mediometraggio è diventato virale, una vagonata di visualizzazioni guadagnate in uno schiocco di dita; tutte meritatissime, va detto. Ed al successo di pubblico si è aggiunta una prestigiosa proiezione al Festival di Cannes.
In queste settimane è in lavorazione una versione cinematografica, una grande produzione che godrà dei nome di Micheal Fassbender, Arnold Schwarzenegger (nei panni del Presidente degli Stati Uniti) e del solito Hasselhoff. E' difficile immaginare come potrà essere. La speranza è che si riuscirà nell'ardua impresa di mantenere lo spirito anarchico e fuori di testa incontrato qui.

Habemus Judicium:
Ismail

giovedì 3 maggio 2018

CLAUDIO CALIGARI, L'OUTSIDER DEL CINEMA ITALIANO (PARTE II):"L'ODORE DELLA NOTTE" (1998)

⟸Parte 1                         Parte 3⇒

«La periferia che dà l'assalto al centro, questa era la cosa che mi interessava. Aveva una valenza politica che, tra virgolette, potevo condividere» 
-Claudio Caligari- 

Tranquillo Claudio, dopo "Amore Tossico"[LINK] puoi fare quello che ti pare, quando ti pare. O almeno così gli dissero dopo i successi al Lido e di critica. Dovettero trascorrere 15 anni prima di ritrovare un suo film al cinema.
Nel mentre tante sceneggiatura scritte ma nessuna che va in porto. E' il caso di "Dio non c'è alla sanità", script, commissionato dalla Rai, e poi scartato, incentrato sulla figura di un prete anti-camorra. Nei primi anni '90 è la volta di "Effetto Elisa", la storia di una Dark Lady che si innamora di uno spacciatore, ruolo affidato ad un certo Harvey Keitel. Il progetto si arena sul più bello, un attimo prima prima dell'apertura del set, a causa del ritiro della casa di produzione.Il motivo? Non si può finanziare un film così, è troppo poco rassicurante e così distante dalla linea editoriale.
Il regista di Arona non demorde. Negli anni dell'amore tossico, tra il 1978 ed il 1983, la Roma bene viene sconvolta da oltre 700 rapine commesse da una banda di periferia. Un fatto che passa via senza cogliere la sua attenzione. Poi Caligari si ritrova tra le mani un romanzo del giornalista Dido Sacchettoni, "Le notti dell'arancia meccanica", che ne racconta le gesta. Si innamora della storia, è quella giusta per un nuovo film.
Si mette a lavoro. Scrive il soggetto, la sceneggiatura, e racimola, con molte difficoltà, i fondi necessari per girare il film. Arriviamo al 1998 e Caligari, accompagnato da Valerio Mastrandrea e da due attori allora semi-sconosciuti (Marco Giallini e Giorgio Tirabassi), sbarca a Venezia per presentare fuori concorso il suo secondo lungometraggio:"L'odore della Notte".
Il protagonista di questa storia è Remo Guerra (Mastrandrea), uno che la sconfitta ce l'ha scritta in faccia; di giorno è un poliziotto della mobile, di notte è il capo di una banda di rapinatori che terrorizza l'alta borghesia. E nell'oscurità si segue sempre lo stesso copione: si cercano le vittime adatte, si inseguono e, quando il momento diviene propizio, giunge l'aggressione. L'obiettivo è il bottino certo, ma questo non è tutto. L'attività di Remo è una personale ed autodistruttiva lotta di classe.
"L'odore della notte" è un film controcorrente.
Lo si percepisce già guardando la sola copertina e leggendosi due righe di trama; è il ritorno al genere, una ventata d'aria fresca per il nostro imbolsito panorama cinematografico.
Lo si capisce dall'intro brechtiano.
Vediamo Remo in scena, seduto sul sedile passeggeri di un auto, e la sua voce off, pomposa, retorica ed incolta, ci introduce nella storia. Nel mentre, in una breve inquadratura su sfondo nero, compare Giallini che si esprime con un laconico «se rischia». Si ritorna in auto e Giallini con Tirabassi prendono le distanze dai loro personaggi, si limitano a raccontarli, guardano in macchina e squarciano il velo della finzione scenica. Tra i più affascinanti e stranianti incipit del nostro cinema, l'annuncio di un noir fuori dagli schemi che gioca ottimamente sull'equilibrio tra azione e riflessione.
Nel corso della visione si sente fortissima l'influenza del Bresson di "Diario di un ladro" (Titolo originale: "Pickpocket"). Così come l'autore francese, Caligari predilige uno sguardo asciutto e libero da moralismi, dove il delitto e la violenza diventano una dipendenza, un modo di essere attraverso cui colmare un'emarginazione sociale e psicologica. E le influenze si percepiscono anche nella voce narrante, un dubbioso e straniante interrogarsi che accompagna tutta la visione ed assurge a ruolo di protagonista. Ed oltre a Bresson, c'è il "Taxi Driver" di Scorzese, più volte omaggiato e citato.
Ma non pensate di trovarvi dinnanzi ad un prodotto derivativo che scimmiotta pellicole d'oltre confine e strizza l'occhio allo spettatore. Remo non recita una parte, mostra le sue debolezze ed è immerso in un contesto proprio ed autentico. E nel corso d'opera Caligari non si risparmia nell'inquadrare perfidamente il perbenismo della classe dominante, uno sguardo che troverà il suo apice nel sotto-finale politico della rapina a casa dell'onorevole democristiano.
"L'odore della notte" è un film brutale e tagliente che oscilla tra fiction e realtà, un'opera capace di coniugare una visione pop e divertita (si pensi alla scena di Little Tony) a sequenze quanto mai intense (la pistola puntata sulla tv dei varietà, il ferimento di Remo ed il finale), un percorso vorticoso che interiorizza la tensione e ci conduce, con sapienza, alla deflagrazione definitiva [Continua...].

Ismail