venerdì 29 settembre 2017

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giovedì 28 settembre 2017

"ARRIVAL" (2016) DI DENIS VILLENEUVE

Dopo una serie di attacchi incrociati da alcuni oppositori golpisti, tra i quali alcuni insospettabili fedelissimi, per motivi che non vi devono interessare, sono costretto a scendere in prima linea e scrivere un piccolo contributo su l'unico film di Villeneuve che annovero tra le mie visioni.
"Arrival" è il trampolino di lancio del regista canadese nel mondo del mainstream hollywoodiano.
Un film di fantascienza dalla trama convenzionale che riprende l'interessante teoria di Sapir-Whorf riguardo la possibilità del linguaggio di modificare lo spazio/tempo. Questo linguaggio nel film è a noi sconosciuto e ce lo portano gli alieni venuti con l'astronave monolitica nera, parcheggiata ovviamente negli States.
La prima parte del film è ben costruita e crea un notevole mistero e curiosità sulla presenza aliena. L'approccio scientifico non viene mai meno ed anzi è posto al centro del film, dando enfasi alla narrazione nel concitato tentativo, espresso dalla protagonista, di giungere a una scoperta rivoluzionaria.
Le immagini di Villeneuve sono di rara bellezza, tante sequenze dal grande impatto visivo. Poi la fotografia satinata crea giochi di luce meravigliosi. Per riassumere non si può davvero dire nulla sul gusto estetico del regista.
Peccato che dalla seconda metà in poi il film perda ritmo, si contorce in ellissi temporali e conseguenti narrazioni fuori campo riassuntive e sbrigativi che spezzano la visione. 
Ma soprattutto butta alle ortiche il potenziale e prezioso approccio scientifico del film, creando un pippozzo infinito di scene stile new age, che sfociano nel melenso e nel dramma in modo abbastanza fastidioso. Alla fine si ha la sensazione che tutto ruoti attorno al canonico dramma hollywoodiano, parecchio insistito e con mano pesante nella sua rappresentazione.
La regia di Villeneuve esprime un grande talento, che, però, in questo film si rivela solo sul piano visivo, piegando invece gli interessanti risvolti scientifici a una trama dozzinale
Perciò il mappazzone sentimentale stile pubblicità della kodak rimanda a settembre l'esame di Villeneuve alla regia di un blockbuster.

Habemus Judicium:

Bob Harris

lunedì 25 settembre 2017

"POLYTECHNIQUE" (2009) DI DENIS VILLENEUVE

«Anche se i media mi etichetteranno come un tiratore pazzo assassino, io mi considero una persona erudita e razionale, che è stata costretta ad agire con gesti estremi per l'incombere della grande mietitrice. Perchè perseverare nell'esistere se serve solo a far piacere al governo?»
-L'assassino-

Un mucchio di studenti davanti alle fotocopiatrici con libri e quaderni degli appunti in mano.
Dei colpi d'arma da fuoco che tagliano l'aria ed un silenzio ovattato a seguire.
Una ragazza dal volto insanguinato e terrorizzato viene seguita in soggettiva.
Dal fondo delle orecchie sale un sibilo.
Cambio di scena un ragazzo solo avvolto dal silenzio, seduto su un letto con un fucile piantato in fronte che spara a vuoto. Segue una lettera misogina, folle e terribilmente razionale.
Inizia così "Polytechnique", film del 2009 del regista canadese Denis Villeneuve.
Solo un'ora e un quarto di pellicola, girata in un freddo Bianco e nero, di un'intensità disarmante. Diciamocelo chiaro sin da subito, "Polytechnique" è un film bellissimo.
Presentato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, Villeneuve narra il lato oscuro del Quebec portando sugli schermi il drammatico 6 dicembre del 1989, quando, nel Politecnico di Montreal, lo studente Marc Lepine, un deviato misogino amante delle armi, mise in atto il suo piano: massacrare con il proprio fucile più studentesse possibili per punire il tanto odiato femminismo.
Il film si incentra su tre momenti: gli attimi precedenti al massacro, il durante e tutto quello che ne scaturirà; il montaggio spezza la narrazione, alterna i piani temporali e si spinge a mostraci la scena centrale sotto i diversi sguardi (davvero ben riuscito).
Villeneuve confeziona un film che rasenta la perfezione. I movimenti di macchina, che lasciano fuggir via gli studenti dagli occhi dello spettatore, e le riprese che ribaltano gli spazi, riescono a veicolare quel senso di smarrimento ed impotenza dinnanzi ad una violenza tanto barbara quanto incomprensibile. La morte arriva con discrezione, alle sue esplosioni si chiudono le porte, ci si ripara dietro un un paravento e le telecamere staccano; si fugge dalla spettacolarizzazione e le stesse urla disperate si mescolano con basi musicali che sembrano uscire dal profondo dell'animo.
L'intensità di "Polytechnique" non risiede solo nella ricostruzione del massacro ma anche nella riflessione di fondo che segue tutto quanto lo svolgersi della trama. Ad essere al centro del discorso è la figura della donna ed il suo ruolo nella società occidentale, costretta a subire e reagire ad una tensione prevaricatrice maschilista ancora ben radicata. E' un film sull'odio irrazionale verso chi noi non siamo, la manifestazione di un caos coercitivo ed irrazionale che si cala dall'alto e mira a schiacciare la parte che si vuole far diventare debole.
La sintesi perfetta di tutto ciò ce la mostra lo stesso Villeneuve: siamo nel pieno del massacro, e la telecamera indugia su una stampa della Guernica di Picasso.
"Polytechnique" è per questo (e per tanti altri aspetti su cui ho sorvolato) un commovente connubio tra l'arte cinematografica ed il dramma, a paletti il miglior lavoro del regista canadese.


«Se avrò un maschietto gli insegnerò  ad amare, se sarà una femminuccia che il mondo le appartiene»
 -Valerie-                               

Habemus Judicium:

Ismail

giovedì 21 settembre 2017

ASPETTANDO "BLADE RUNNER 2049"...

A breve al cinema uscirà "Blade Runner 2049", seguito del film culto del 1982, regia di Denis Villeneuve e supervisione di Ridley Scott.
Di "Blade Runner"[Link], parlai già anni fa nel blog perciò mi limito a ribadire che è un capolavoro, pietra miliare, film filosofico, ecc.
Diciamo pure che l'idea di fare un seguito non è molto rispettosa del film originale e del suo finale leggendario e autoconclusivo. In aggiunta  sembra chiaro che, nonostante (o forse proprio per) cast e troupe stellare, il seguito sembra concepito per sbancare i botteghini e riempire di verdoni i produttori.
E poi ovviamente si può solo sputtanare lo spirito e l'essenza del primo film, mandando tutto in caciara. Comunque tempo per demolirlo ne avrò quando uscirà al cinema e lo visionerò.
Per ora analizziamo la locandina di "Blade Runner 2049": partiamo dalla sfondo che sembra uscito dalla copertina di un videogioco fantasy di fascia bassa e non ha minimamente l'impatto di "Blade Runner". Poi abbiamo un Harrison Ford old fashioned man style, in t-shirt manco Giorgio Armani e in discreta forma fisica, il che, purtroppo, ci fa pensare che farà come con Han Solo ed Indiana Jones: se ne fregherà bellamente delle leggi di gravità, del physique du role e del ridicolo.
Di fianco a lui c'è Ryan Gosling, che si presenta come l'erede ideale di Harrison: sex symbol scapestrato e macho,  ironico e stiloso.
Una scelta quasi obbligata per aggiornare il personaggio del Blade Runner e di Deckard (e difatti è vestito identico a lui).
Andando avanti ad analizzare la locandina del film notiamo un'attrice che non so chi sia, ma so solo che, osservando la posa del poster, potresti tranquillamente inserirla, pari pari, nella copertina di un porno lesbo a doppia penetrazione.
Infine c'è il grande Jared Leto incazzatissimo, capello laccato e barba lunga, vestito da Jedi: sembra pronto a regalarci un cattivone che sembra avere ben poco di sintetico, anche solo nell'aspetto, e assomigliante più ad un santone megalomane, qualcosa di assolutamente inutile nell'universo di "Blade Runner". L'ultima parola spetta alla proiezione, ma per ora facitm u piacere va!

Bob Harris

lunedì 18 settembre 2017

"IL PARADISO DEGLI ORCHI" E ALTRE STORIE: LA TRIBU' DI PENNAC

«L'epilessia è una malattia comune, benigna, che colpisce persone come si deve, guarda Dostoevskij...» 
-Benjamin Malaussène-

Neanche tre righe e Pennac ci presenta subito l'eroe (?) del romanzo, tale Benjamin Malaussène, di mestiere capo espiatorio dei Grandi Magazzini: è l'addetto alle strigliate del capo dinnanzi ai clienti che si lamentano per il malfunzionamento dei articoli venduti. Il fine della sua mansione? Muoverli a compassione e spingerli a ritirare il reclamo. Manco a dirlo il mestiere gli rimarrà attaccato alle calcagna.
Si girano poche pagine, 4 o 5, ed un suono sordo percuote i nostri timpani: l'esplosione di una bomba risveglia le coscienze del popolo in preda al delirio da shopping pre-natalizio. Un delitto, il primo di una serie, che condurrà alla scoperta degli orrori di un misterioso Tempio del benessere
"Il paradiso degli orchi" è un giallo intricato, ricco di ironia e colpi di scena, una robetta così paracula e ben scritta che è impossibile togliergli gli occhi di dosso.
Benjamin è tutto ciò che non è l'eroe, fa un lavoro da schifo ed è pure modesto, spesso si mette da una parte per lasciare spazio ad un coro di voci sorprendente. Questo perché dietro, attorno e davanti a Ben, c'è una famiglia che raccoglie le stranezze e le doti più incredibili che si possano trovare. Una vagonata di giovinotti/e senza padri e con una madre che fugge continuamente di casa con il nuovo amore della vita, e ritornare, ogni volta, con un nuovo fratellino.
Aggiungiamoci degli arabi affettuosi, una misteriosa guardia notturna serba, un gruppo di poliziotti usciti diretti da qualche serial televisivo degli anni '70, una Zia sensuale che manco Charlize Theron ed un cane puzzolente che ricorda tanto Dostoevskij.
Il risultato è la Tribù Malaussène, un gruppo chiassoso e divertente, in perenne espansione come il socialismo nell'Emilia degli anni '70, che aiuterà il nostro Ben a capirci qualcosa su quello che sta succedendo ai Grandi Magazzini.
Per noi lettori Il Paradiso è freschezza pura con cui sbellicarsi di risate, un contenuto irresistibile scritto con uno stile folle quasi quanto i suoi personaggi, un garbuglio di pensieri e dialoghi che non stancano mai. 
"Il paradiso degli Orchi", seppur sia conclusivo e non lasci nulla aperto, aprirà ad una sequela di copertine coloratissime con personaggi sbilenchi e titoli stralunati: "La Fata Carabina", "La Prosivendola", "Signor Malausséne", più lo spin-off "La passione secondo Thérèse" incentrato su una delle sorelle di Ben.
E negli epigoni il professor Pennac non sfigura mica, a differenza di tanti suoi colleghi che si infognano in cicli di romanzi con schemi via via sempre più ripetitivi e noiosi, inventa e rigenera ciò che c'era, trovando ogni volta il perfetto connubio ironia/suspense.
Il ciclo di Belleville me lo mangiai e provai tanta nostalgia quando finii la serie. Questo pomeriggio sono uscito dalla libreria, felice come un bambino che pregusta di scartare un gioco tanto desiderato ed appena comprato. Ora sulla mia scrivania, mentre scrivo questa recensione, c'è la nuova fatica sulla Tribù, "Il caso Malaussène: mi hanno mentito", uscito pochi mesi fa. 
Visto che fremo di scoprire cosa sia successo negli ultimi 15/20 anni vi lascio, speranzoso che la fantasia di Pennac abbia dato alla luce qualcosa in grado di stupire nuovamente.

Habemus Judicium:

Ismail

giovedì 14 settembre 2017

"ATOMICA BIONDA" (2017) DI DAVID LEITCH

Il nuovo film calci e schiaffi di Charlize Theron ha decisamente un suo perché. 
Dopo l'esperimento da scarico otturato di "Aeon Flux", che già dalla pronuncia del titolo prometteva male, la biondona con lo sguardo da bimba perfida (che tutti vorrebbero sculacciare) torna a menare le mani in una spy story dalla classica ambientazione cold war.
L'attrice sudafricana figura come produttore esecutivo del film e, difatti, neanche per un istante viene data la possibilità di dubitare che sarà lei la protagonista assoluta e indiscussa del film.
Il suo personaggio riprende sicuramente il cliché della donna bionica invincibile, che tanto va di moda nel cinema contemporaneo, ma gli aggiunge più di un tocco di originalità. Se non bastasse lo sguardo magnetico ed intenso della Theron, aggiungiamo il fatto che la nostra atomica è una cinica ma passionale bisex col vizietto del doppio, triplo, quadruplo gioco. Tutto il resto è stile.
Lo stile di Charlize, che, perennemente in posa, sfila maestosamente per tutto il film, addobbata di un completo super-chic diverso ad  ogni cambio di scena; lo stile complessivo del film, che si presenta in una confezione accattivante. 
Riprendendo il consueto revival anni '80 che, ultimamente, impazza un po' dappertutto, la pellicola è un tripudio di musiche della generazione sinth, dai New Order ai 99 palloncini, passando per David Bowie, sempre in mezzo al cazzo (scusa David ma stanno proprio esagerando).
La fotografia riprende invece i cromatismi suggestivi degli ambienti interni tipici del cinema di Refn, contrapposti a freddi e grigi esterni in linea con l'ambientazione berlinese del periodo muro.
Mettendo assieme il pacchetto suono e immagine ci si trova di fronte a un'estetica dalle forme seducenti, che però non vorrebbe confinare in secondo piano la trama.
La narrazione è bella sostenuta fin dall'inizio, le scene di azione davvero ben girate e qua e là sbucano anche dei piani sequenza. 
Ma fondamentalmente sembra che la sceneggiatura stessa si renda conto di essere un pretesto per ribadirci quant'è bella e quant'è brava Charlize e dopo averci guidato verso la conclusione del film senza troppi mal di testa, all'improvviso si ricorda che questa è, teoricamente, una spy story e quindi è necessario che qualcuno debba fregare qualcun altro, il quale deve fregare qualcun altro ancora e così via. Perciò si cimenta in un triplice salto carpiato che, effettivamente mischia le carte in tavola, ma senza alcun motivo strettamente necessario alla trama.
Perciò non siamo sicuramente di fronte a una perla del cinema di spionaggio, ma a un tripudio per gli occhi e per le orecchie, questo si. E, se aggiungiamo personaggi ben caratterizzati, il tutto assieme funziona abbastanza da elevare il blockbuster ad intrattenimento di qualità.

Habemus Juducium:

Bob Harris

lunedì 11 settembre 2017

L'ANGOLO DEL CULT #2: "NIGHTMARE 3: I GUERRIERI DEL SOGNO" (1987)

Uno, due, tre Freddy viene da te...puttana! 
Oggi vi parlo del classicone horror, iconone anni '80 Nightmare 3: I guerrieri del sogno
Facciamo subito i seri e vi dichiaro apertamente che questo è il miglior capitolo della saga. Certo, la lotta con il primo film capostipite è stata discretamente combattuta, ma poi alla fine qui ci troviamo di fronte al compendio ufficiale del cinema horror slasher anni 80' nella sua forma più goduriosa. 
"Nightmare I: Dal profondo della notte" è un film immensamente suggestivo, fa abbastanza paura ed ha elementi di tendenza, certamente. Freddy è seriosetto e risoluto, ma intravedi qualcosa del suo repertorio sarcastico. Regia e atmosfere sono divinamente horror e vintage (ho ripetuto già due volte finora anni 80 e ahimè potrei farlo di nuovo più avanti! Sono ripetitivo? Sisi e dipende da mie personali carenze lessicali!). 
Dopo un secondo esilarante capitolo che ci costringe a mandare giù scene come quella in cui Freddy insegue in piscina un party di liceali per affettarli alla luce del sole, ci regala voragini di sceneggiatura, incongruenze, pestilenze e prove attoriali da Nightmare (eheheh), Craven torna a prendere le redini e si vede tantissimo. La sua mano si nota in tanti aspetti: prove attoriali, montaggio, sceneggiatura, fotografia. La recitazione convince molto, cosa affatto scontata in un horror. Su questo versante appaiono diverse vecchie conoscenze del cinema per cui lascio a voi profani di scoprirle vedendo il film (non barate con Wikipedia stronzetti), e a voi cinefili di rispondere al mio ammiccamento. 
Il montaggio qui fa davvero tutto: stiamo parlando di un film che tratta il tema delle alterazioni percettive della nostra mente e la regia di Craven rappresenta magnificamente e, senza soluzione di continuità, il passaggio dal piano reale al piano onirico, cifra stilistica per eccellenza della serie. 
Oltretutto alcune sequenze sono entrate di diritto nella storia del cinema horror: per citarne un paio direi il Freddy burattinaio, stagliato orrendamenre maestoso sullo sfondo del convento/ospedale psichiatrico, e la sua vorace versione serpentesca. 
La sceneggiatura tiene incollati al divano, questo sicuramente: colpi di scena e rivelazioni portano acqua al mulino della saga e il merito va specialmente a questo capitolo che li dosa e li inserisce nel tessuto di una trama dai ritmi serrati; inoltre ci attrae verso un'argomento dalla sicura fascinazione come il sonno, già nella tagline definito evocativamente (quanto mi piacciono gli avverbi, slurp!) come squarcio di morte.
Quanto dovremmo aspettare per vedere una nuova icona del cinema horror all'altezza di Freddy?
Qui si parla di un villain cool ed affascinante, che di personalità ne ha da vendere: istrionico infestatore di sogni altrui, ironico guascone delle nostre risate più compiaciute ("Contenta Jennifer? I tuoi sogni stanno per realizzarsi! non volevi entrare in televisione?!"; anche se in originale suonava diversamente: "welcome to primetime, bitch!") e boogeyman dalla presenza totalizzante.
Ma principalmente Freddy Kruger, oltre che carnefice delle nuove generazioni, diventa il veicolo per permettere loro di esprimere la propria personalità: vediamo disadattati sociali, giovani menomati nel fisico e nella mente, emergere colorati della propria fantasia, l'arma più potente per combattere un nemico forgiato dalla malsana società degli adulti.
La gioventù, espressione e vittima dell'era postmoderna, è chiamata a riscattare le colpe dei padri in un tentativo tragicamente eroico. I giovani rappresentano quei guerrieri che lotteranno per garantire il nostro domani: in fondo questa leggendaria saga cinematografica ha sempre cercato di spiegarcelo.

Habemus Judicium:


Bob Harris

lunedì 4 settembre 2017

"LOST IN TRANSLATION - L'AMORE TRADOTTO" (2003) DI SOFIA COPPOLA

Quello che andrò a recensire oggi è IL film.
Stilare classifiche ed ordini di preferenza, in generale quantificare il valore di un'opera artistica, credo sia sempre e comunque un'operazione riduttiva. Chi scrive di cinema a livello professionale è costretto a farlo per esigenze di audience. D'altronde viviamo in una società che dà un valore numerico ad ogni cosa, perciò è abbastanza naturale che il lettore medio si aspetti di avere un responso chiaro e un giudizio che salti immediatamente all'occhio. Ma ciò non toglie che qualsiasi opera andrebbe valutata tenendo presente una molteplicità di elementi ed aspetti che necessitano valutazioni ben più analitiche. 
Dopo questa palloso excursus sulla critica al consumo vi spiego perché "Lost In Translation" è, per me, IL film e perché si pone in cima ad una mia ipotetica lista di film preferiti: semplicemente rappresenta tutto ciò che desidero vedere in una pellicola. 
Cosa molto soggettiva. Così come è soggettiva la pelle d'oca che mi provoca la visione.
Mi rendo conto che, senza dubbio, la presente è un'esposizione molto intima. Ma, a ben vedere, l'unico elemento che potrebbe condizionare la mia valutazione, rispetto a quella di un qualsiasi altro spettatore, è la mia sconfinata passione per la terra del Sol Levante. Ma anche chi è indifferente al gusto orientale si troverebbe di fronte a una perla del cinema contemporaneo.  
A Tokyo si incontrano, per caso, due anime perse nel loro cammino personale di (non) vita. Charlotte e Bob vivono due esistenze all'apparenza invidiabili, realizzate nell'essere scandite dal raggiungimento di traguardi ambiti dalla società: lei giovane moglie al seguito del marito fotografo, lui attore consumato di fama mondiale, in città per girare lo spot di un noto whiskey giapponese. 
Quando vidi per la prima volta questo film non ero mai stato in Giappone, ma esso riuscì comunque a trasmettermi quel senso di spaesamento che solo chi ha potuto vivere un'esperienza da quelle parti può provare.
La sensazione quasi indescrivibile di essere in un luogo così familiare e allo stesso tempo distante da noi: l'esasperazione dell'occidentalità innestata su una cultura totalmente estranea alla nostra, criptica ed escludente. Si viene catturati della sua maestosità, pervasi dalla sua vitalità e affascinati dalle mille manifestazioni della sua tradizione, ma anche della sua modernità. Eppure si rimane sempre e comunque gaikokujin.
Queste sono le sensazioni che provano i due protagonisti, che sperimentano un doppio livello di solitudine: essere stranieri catapultati a Tokyo ed inchiodati a passare gran parte del tempo in un gigantesco hotel. 
"Lost In Translation" non è solo una favola sulla speranza di trovare qualcuno che comprenda appieno la nostra personalità, senza che essa necessiti di essere spiegata, tradotta; ma è soprattutto la sensazione immensamente dolce e terribilmente amara di essere al posto giusto nel momento giusto.
Già perché questo è un film fatto di momenti: momenti che si insinuano lentamente e, lentamente, si spingono verso l'ineluttabile svanire. Perché, anche se il momento è quello giusto, sono i tempi che non coincidono e non coincideranno mai; perché nella vita reale non c' è spazio per amori impossibili e non c'è possibilità di dare un colpo di spugna alle proprie scelte passate: i primi piani di Sofia Coppola sui visi dei due protagonisti (completamente assorbiti nei loro personaggi) esaltano questa consapevolezza, espressa nei loro sguardi complici e malinconici.
La poesia di questa immensa metafora della vita sta tutta in questo senso di incompiutezza e di sottile inquietudine che ci portiamo appresso anche e, soprattutto, nei momenti di passeggera felicità; "non voglio partire...", "E allora non partire, resta qui con me..." : questa, signori, è una delle più struggenti dichiarazioni d'amore della storia del cinema, riassunta in un breve scambio di battute.
Ma "Lost In Translation" è pur sempre una commedia e non mancano i momenti di geniale e raffinata ironia, personaggi e situazioni buffe, giocate sulle differenze e sulle bizzarrie culturali e che contornano una pellicola scandita sui ritmi della leggerezza, anche quando si tratta di fare sarcasmo sul (mai abbastanza) vessato trend hollywoodiano. 
Ma, visto che questa pellicola non si fa mancare nulla, la raffinatezza della colonna sonora innestata su immagini di una bellezza contemplativa tanto nella forma quanto nel suo oggetto, regalano una visione che appaga delicatamente i sensi. 
E poi c'è quella scena finale, un'accelerata improvvisa in un percorso emotivo costruito in modo lento e costante. Le parole sussurrate da Bob a Charlotte ci sono negate, come è giusto che sia. Ormai il rapporto che si è instaurato tra i due è così intimo da avere la necessità di estromettere, finalmente, anche lo spettatore. Il resto è "Just Like Honey" dei Jesus and Mary Chain. 
Bob e Charlotte, che lo vogliate o meno, siamo noi e, d'altronde, io sono sempre stato Bob Harris. 

Habemus Judicium:


Bob Harris