lunedì 30 ottobre 2017

"54" (2002), WU MING:

« Non c'è nessun "dopoguerra". 
Gli stolti chiamavano "pace" il semplice allontanarsi del fronte. 
Gli stolti difendevano la pace sostenendo il braccio armato del denaro. 
Oltre la prima duna gli scontri proseguivano ». 
-Incipit-                        

Una gran bella sorpresa questo "54".
Un romanzo, scritto a cinque mani, tanto ampio, ricco, dettagliato e documentato, quanto sorprendentemente coeso e fluido.
E bravi i Wu Ming, ancora una volta hanno fatto centro.
Dietro questo curioso nome, un'espressione cinese che significa anonimo, c'è un gruppo di autori di romanzi collettivi e solisti a carattere storico, come l'epocale "Q", la loro prima fatica edita nel '99 firmata con lo pseudonimo di Luther Blissett, "L'invisibile ovunque" ed il qui trattato "54".
I Wu Ming sono scrittori dediti alla sabotaggio, si calano nelle maglie della storia ed, attraverso un'incredibile miscellanea tra reale e fiction, fanno emergere prospettive mai banali con al centro chi dalle vicende ne è uscito sconfitto (1).
Fatte le dovute presentazioni passiamo a questo "54", opera edita per Einaudi nel 2002.
Raccontare la trama è un opera improba.
Si susseguono una marea di luoghi: Bologna, Dubrovnik, Palm Springs, Napoli, Mosca, Indocina, Costa Azzurra, Trieste.
E con essi così tanti personaggi che sembra quasi di ritrovarci in un film di Altman.
Salvatore Lucania, noto ai più come Lucky Luciano, lasciati gli States è tornato in Italia a fare il piccolo imprenditore; a Napoli ha aperto un negozio di lavatrici e, tra una puntata e l'altra all'ippodromo di Agnano, si diletta a gestire il traffico dell'eroina proveniente dall'estremo oriente. Al suo fianco il fidato e spietato braccio destro, Steve «Cemento» Zollo, un attento calzolaio che confeziona scarpe in calcestruzzo su misura; se si vuol sapere qualcosa in più sul suo proposito, si vada a chiedere a quella mezza dozzina che si trova sul fondo della baia di Hudson, a New York.
C'è Cary Grant, il divo di Hollywood.
Disgustato dalla violenza della caccia alle streghe inaugurata dal Maccartismo, sfugge dalla routine quotidiana lanciandosi in una bizzarra attività di spionaggio al servizio di sua maestà che lo porterà ad incontrare un uomo non poi così diverso da lui: Tito.
Incontriamo poi un certo Robespierre Capponi, per tutti Pierre, il re della filuzzi, il miglior ballerino di Bologna dotato di un frullone incredibile, amante, fratello e figlio, un po' Telemaco ed un po' Ulisse, alla ricerca di qualcosa e qualcuno.
Ed infine di tanto in tanto, nell'alternarsi delle pagine, sbuca fuori un televisore americano prodotto dalla fantomatica MacGuffin (si chieda ad Alfred Hitchcock in tal proposito), spento, mezzo vuoto e non funzionante, eppure strumento/personaggio che osserva il mondo attorno a sé e dà sviluppo, a suo modo, alla trama; il caro televisore, che tanto fa disperare i suoi possessori, è qualcosa di più di un semplice oggetto inanimato e si erge a pieno titolo a ruolo di co-protagonista.
Tre le storie principali che si intrecciano e numerose sottotrame che vengono ad innestarsi su di esse.
In ordine sparso incrociamo Alfred Hitchcock, Grace Scally, lo scontro tra le correnti Dc in Italia e quelle interne ai comunisti Jugoslavi, quel giocatore compulsivo dell'imperatore indocinese Bao Dai, spie russe, FBI, contrabbandieri, Fausto Coppi che è più quello di una volta, i tipi da Bar, buffoni di corte, gli irredentisti ed un piccione viaggiatore che, forse per merito del magnetismo, riesce ad orientarsi anche a centinaia di chilometri da casa.
Alcuni potranno rimanere spiazzati all'inizio del romanzo.
Figuriamoci lo sono rimasto io nello scrivere il lungo elenco di protagonisti/comparse nel tentativo di riuscire a dare un'idea, seppur vaga, del plot.
"54" ci lancia addosso una gragnuola di personaggi, nomi, immagini e situazioni da conoscere ed inquadrare, un mondo infinito, ignoto e caotico. Siamo dinnanzi ad un racconto funambolico in cui il caos, solo apparente, va a converge in un ordine che si raggiunge freneticamente.
I Wu Ming trovano un equilibrio eccezionale.
Danno vita ad un romanzo corale e cinematografico, capace di dar libero sfogo all'immaginazione e farci vedere i volti, le case ed i paesaggi raccontati; aprono lo sguardo su un anno, il 1954, tanto poco considerato quanto ricco di eventi fondamentali per gli sviluppi futuri del secolo breve, un impianto contenutistico in grado di sottolineare con forza la differenza che intercorre tra la realtà e la sua rappresentazione.
Significativo per i contenuti quindi, ma anche avvincente grazie a quel tourbillon di emozioni che riesce a trasmettere. Ecco "54" è uno di quei romanzi che ti fa dannare, ti mette alla prova togliendo le ore di sonno e spinge alla ricerca di ritagli di tempo via via crescenti. Ed una volta giunti all'ultima pagina, consapevoli di non poter più rincontrare i nostri, ti lascia quella (piacevole) nostalgia.
Come spesso accade dopo aver chiuso una loro opera, mi ritrovo a girovagare sul web.
Scandaglio e rovisto tutto ciò che riesco a trovare.
Il fine? Capire il confine tra storia e fiction, scoprire quanto quest'ultima sia frutto della sola inventiva o possa avere analogie e verosimiglianze con una realtà dimenticata.
C'è poco da dire, "54" incanta ed i Wu Ming si mostrano per quel che sono, il miglior fenomeno letterario italiano degli ultimi 20 anni.

«Adesso era una casa. Qualcuno aveva davvero bisogno di lui, alla buon'ora»

Habemus Judicium:


Ismail




Note:

(1) Per chi volesse approfondire e saperne di più, consiglio di andare a spulciare il loro  Blog/comunità Giap [LINK].

giovedì 26 ottobre 2017

"VIRAL" (2016) DI HENRY JOOST & ARIEL SCHULMAN

"Viral" è l'ultimo parto del filone cinematografico, sempre in voga, con a tema il contagio e vi si inserisce quatto quatto, senza grossi schiamazzi o acuti. 
In effetti, forse, ha la particolarità di creare una sorta di ibrido tra lo zombie-movie (e derivati) e il classico film basato sull'invasione aliena. Questo ceppo virale, su cui è incentrato il film, trasforma le persone in sorta di zombie/infetti, con tutti gli annessi e connessi, ma introduce un'interessante aspetto: il parassita, che si insinua nell'organismo ospitante, ha la capacità di pilotarne la mente, creando una sorta di connessione con gli altri infetti; un aspetto che rimanda ad alien-movie come "Moon" e "L'invasione degli Ultracorpi" (o il recente remake "Invasion"). 
Detto ciò, siamo palesemente di fronte a un prodotto di serie B, che non ha davvero nulla da aggiungere al genere e non avrà gioco facile ad essere ricordato; perciò si parla di intrattenimento puro, approssimabile ad un usa e getta, senza infamia e senza lode. 
Ciò, essenzialmente, è dovuto a uno script di poca qualità e alla mancanza totale di regia. 
Partendo dal primo non si può non evidenziare la stupidità dei dialoghi. C'è veramente da rimanere perplessi nel sentire i personaggi dialogare tra di loro usando spesso espressioni senza senso o fuori luogo. Basti citare lo scambio di battute tra le due sorelle protagoniste: Emma vede Stacey con un nuovo ragazzo e, alla richiesta di delucidazioni, si sente rispondere: "Sto cercando di integrarmi, dovresti farlo anche tu!". 
Il problema fondamentale è che nel film non succede nulla
Si adotta lo schema canonico: a) situazione di normalità/primi segnali del disastro; b) esplosione del contagio/normalizzazione; ma, c'è un ma, dopo una prima parte in linea con gli espedienti tipici del genere, da metà in poi il film si arena completamente e si concentra sulla relazione di fratellanza tra le due protagoniste. Protagoniste che sono tratteggiate discretamente, leggermente stereotipate ma, per un film di genere senza eccessive pretese, funzionano. 
Non si può dire la stessa cosa dei personaggi di contorno, che sono praticamente delle comparse, costruiti senza spessore né funzionalità alla storia. Senza spessore risulta essere anche l'intreccio narrativo, i cui passaggi sono spesso solo accennati: se mantenere il mistero sull'origine, gli effetti e le caratteristiche del parassita si rivela essere una scelta azzeccata, appare approssimativa la messa in scena dell'intervento dell'esercito e della conseguente quarantena. 
Si pretende di creare un clima generale di allarme tramite due o tre sequenze buttate li a casaccio ed espedienti, a volte, dozzinali e contraddittori. 
Il costante imperativo hollywoodiano di inserire sempre e comunque un intreccio amoroso si traduce poi, in questo caso, in una rappresentazione superficiale e sbrigativa ed a ciò non aiuta la regia, che a volte si sofferma quando non dovrebbe, creando dei siparietti imbarazzanti (vedi la scena in cui Emma si spoglia) ed altre volte taglia repentinamente a metà il patos di una sequenza, smorzandone l'intensità. E non risultano molto ispirate neanche le sequenze di azione e di tensione: attestandosi sulla prevedibilità e sulla svogliata messa in scena, non riescono a ricreare, nello spettatore, il necessario senso di minaccia, angoscia e ansia che ci si aspetterebbe in un film del genere. 
In conclusione "Viral" risulta essere un discreto prodotto di serie B da fruizione immediata, propone qualche pregevole sequenza ad effetto, coadiuvata da un discreto impianto tecnico e da un paio di idee interessanti, ma alla lunga si scioglie in una trama piatta, scontata e diretta in modo poco incisivo. 
Non rimarrà certamente negli annali, ma garantisce un'ora e mezza di intrattenimento timidamente accettabile.

Habemus Judicium:

Bob Harris

lunedì 23 ottobre 2017

"PISTA NERA" DI ANTONIO MANZINI

«A Roma di questi tempi fa freddo, ma spesso c’è la tramontana che spazza via le nuvole. 
E allora c’è il sole. E fa freddo. La città è rossa e arancione, il cielo azzurro ed è bello camminare per le strade sui sampietrini. Escono fuori tutti i colori, quando c’è la tramontana. Come uno straccio che toglie la polvere accumulata su un quadro antico…»

Un corpo viene ritrovato semisepolto dalla neve su una pista da sci a Champoluc, sopra Aosta, dopo esser stato schiacciato da un battipista, un bestione con i cingoli da più di dieci tonnellate. 
Sul luogo pochissimi indizi: un po' di tabacco, residui organici, frammenti di indumenti ed un elemento inquietante che lascia immaginare che dietro quel corpo ci possa essere un omicidio. 
Per chi indaga «questa è una rottura di coglioni livello 10 cum laude». 
Inizia così "Pista nera", romanzo edito dalla Sellerio nel 2013, firmato dall'esordiente Antonio Manzini. E' il primo capitolo della fortunata serie di Rocco Giallini, personaggio di recente assurto al grande pubblico grazie all'omonima fiction con protagonista Marco Giallini.
Rocco è un vice-questore, ma non incarna il poliziotto tutto d'un pezzo. Odia profondamente il suo lavoro, è saccente, infedele, caustico e cattivo. Sopratutto è un corrotto che arrotonda il suo esiguo stipendio con qualche lavoretto extra al fine di raggiungere un più consono pensionamento, un ritiro dorato in un villa isolata nella campagna della Provenza, lontana dalla tediosa umanità. 
Da quattro mesi però, a causa del suo passato non troppo limpido, si trova imbrigliato in uno dei suoi peggiori incubi: allontanato da Mamma Roma, gli tocca lavorare nella fredda, plumbea e nevosa Aosta.
Nonostante tutto, Rocco Schiavone ha un particolare talento per il quale acquista la dignità di essere raccontato in un romanzo giallo: mettere insieme i pezzi e risolvere i casi più intricati.
"Pista nera" è una piacevole scoperta. 
L'indagine che si apre è tutto tranne che scontata. Un ricco puzzle che si arricchisce pagina dopo pagina, fa crescere la giusta tensione e spinge ad una lettura a ritmi forzati per sapere come andrà a finire. 
Apprezzabile lo stile, una penna in grado di proiettare il lettore in panorami montani mai esplorati (e qui parlo da cittadino che la neve neanche vuole vederla in cartolina), capace di caratterizzare adeguatamente con poche pennellate i personaggi che appaiono nel corso della storia (belli i brevi passaggi sulla figura della moglie del vicequestore).
Abbiamo un romanzo di genere incentrato su personaggio più antipatico del solito, sporco e cattivo del solito, capace, nonostante qualche strizzata d'occhio di troppo al lettore, di allontanarsi da un certo buonismo che serpeggia nell'attuale panorama giallistico italiano e ravvivarlo attraverso una formula che coniuga felicemente il disimpegno con un pizzico di venatura neorealista.
Insomma cari lettori, se siete alla ricerca di un romanzo da leggere in ogni occasione, da un viaggio in metropolitana alle infinite code alle poste, scorrevole ed intrigante "Pista nera" fa per voi, non ve ne pentirete!

Habemus Judicium:
Ismail

giovedì 19 ottobre 2017

"BONE TOMAHAWK" (2015) DI S. CRAIG ZAHLER

« Il dolore è il modo in cui ti parla il corpo. Faresti bene ad ascoltarlo »
-Sceriffo Franklin Hunt-

Allora allora...Ultimamente mi è capitato di incrociare diverse volte il titolo di un film western abbastanza recente e di cui si parlava discretamente (bene): "Bone Tomahawk". Ho voluto dargli un'occhiata e mi sono avventurato nelle sue 2 ore e 15 minuti circa, un po' timoroso della durata.
Parto col giudizio proprio dalla durata del film, che non è poi così eccessiva e tutto sommato ha uno scorrimento fluido. Ciò è possibile perché, nonostante per più di un'ora non succeda nulla di eclatante sullo schermo, si viene immersi pienamente in una realtà storica e nelle sue dinamiche in modo piuttosto realistico ed intuitivo.
Il western quale genere cinematografico stilizzato per eccellenza, assunto a mitologia, negli ultimi anni ha vissuto una piccola rinascita improntata al realismo tipico del cinema più recente, Tarantino escluso ovviamente. E "Bone Tomahawk" si inscrive in questa tendenza, almeno in parte.
Già, perché alla fin fine stiamo parlando di un film horror o a tinte horror, che richiama alla memoria i cannibal movies italiani (un esempio su tutti "Cannibal Holocaust" [LINK] di Deodato) o il più recente "The Green Inferno". Difettando, per ovvie ragioni di collocazione storica, la critica al postmodernismo, rispetto a questi modelli, riprende il tema del cannibalismo e della violenza tribale/ rituale, cruda ed asciutta nelle sue forme, verosimile nel suo scenario.
Ma "Bone Tomahawk" non indugia sul sensazionalismo, le scene più splatter sono sempre mostrate da un angolatura parziale, mai troppo esposte allo sguardo diretto dello spettatore.
La sobrietà nella messa in scena non fa che aumentare la crudezza delle sequenze, per il semplice e collaudato principio del vedo e non vedo, quel gap di svolgimento occultato coperto dalla fantasia dello spettatore, la quale ha l'effetto di amplificare l'orrore a cui si assiste. Concetto che, ad esempio, risulta totalmente estraneo al cinema gore sopracitato, improntato sulla piena exploitation, che, specie negli ultimi anni, ha portato ad un suo totale inflazionamento.
Si diceva della trama statica e dei personaggi lineari. Pur volendo ammettere che non ce ne può fregare più di tanto della ricostruzione puntuale di un'epoca storica, partiamo sempre dal presupposto che stiamo assistendo ad un Western e nei Western i personaggi cavalcano nelle immense praterie, chiacchierano, stanno in silenzio e mangiano attorno ad un fuoco, raccontandosi aneddoti di storia vissuta. Il binomio spazi dilatati/tempi dilatati si ripropone anche qui.
"Bone Tomahawk" rinuncia a nutrire lo spettatore di pane e azione e tesse lentamente la sua tela: ma proprio per questo le esplosioni improvvise di violenza hanno un forte impatto, pur nella loro (già ricordata) rappresentazione asciutta. Mentre dal terzo atto in poi il film assume ritmi serrati e incalzanti, in un climax crescente verso un finale degno di essere ricordato.
E questo è un grandissimo risultato per un Western 3.0.

Habemus Judicium:

Bob Harris

lunedì 16 ottobre 2017

"SIGNORE E SIGNORI" (1966) DI PIETRO GERMI

« E che resti tra noi! »

I protagonisti, un gruppo di uomini, sono riuniti attorno i tavoli di un bar che dà sulla piazza principale di una cittadina veneta. Bevono caffè, leggono il giornale, fumano, e si dilettano nell'attività che più li aggrada: osservare il teatro della vita, apostrofando qua e là chi passi di lì e colga un po' la loro attenzione...toh guarda un pò là, che "vita stretta e fianchi larghi"...
Sono i protagonisti di "Signore e signori", film diretto da Pietro Germi, una delle massime espressioni della commedia all'italiana. Palma d'oro al Festival di Cannes del 1966, nonostante abbia superato il mezzo secolo è una pellicola che mantiene inalterata la sua portata.
Al centro ci sono tre storie.
Quella del Don Giovanni Toni Gasparini (Alberto Lionello) che confessa all'amico e medico Castellan (Gigi Ballista) un problema imbarazzante: l'impotenza; pettegolezzi, risate e sguardi divertiti accompagneranno ogni suo movimento.
Poi c'è Osvaldo Bisigato (Gastone Moschin), impiegato di banca che si innamora di una bella e giovane cassiera, Milena (interpretata da Virna Lisi). Peccato però che il buon Osvaldo sia già sposato con un'altra donna; ed anche i suoi amici, il meglio della società cattolica e borghese, gli voltano le spalle. Osvaldo merita solo la riprovazione sociale. 
E poi troviamo il commerciante Lino Benedetti (Franco Fabrizi) che adocchia una bellissima ragazza  "bianca come el late e dura come el marmo"; assieme al branco, approfitterà della sua disponibilità. Peccato che la giovane sia una contadina ancora minorenne e per gli smargiassi del Veneto bene la strada sembri oramai segnata: lo scandalo, il processo e l'inevitabile carcere.
Pietro Germi, anche grazie ai consigli dello scrittore Ennio Flaiano, strutturò il film come un romanzo corale evitando così quella struttura ad episodi tanto in voga in quegli anni; una scelta vincente che dà al narrato un'omogeneità ed una forza altrimenti non raggiungibile. Ed alla fine di ogni percorso narrativo i protagonisti li troviamo sempre lì, a sorseggiare il caffè al tavolino del bar, tutti che conoscono i segreti degli altri, tutti pronti a trasformarsi in predatori che danno caccia alla donna che più le aggrada.
Germi ci mostra una società isterica, immorale e putrida, che si diletta nel giudicare il prossimo, un mondo che si finge viveur ed à la page, ma irrimediabilmente chiuso in provinciali dinamiche del branco.
L'unico scopo che sembra muovere le loro povere vite è l'accoppiamento; il sesso non ha mai a che fare con l'amore, non ha alcuna forza vitale, è ridotto ad un gioco con cui sfuggire da noia o dal senso di prevaricazione sociale. E nel gioco tutto è lecito.
Si può insidiare una donna di un amico. Si può indurre alla prostituzione, con qualche piccolo regalino, una minorenne. C'è solo un altissimo e borghese limite: non fare scandalo, non abbandonare mai e poi mai il tetto coniugale, non dare fiato ai pettegolezzi.
"Signore e signori" è un'opera di satira feroce che, nonostante i suoi 50 anni suonati, inquadra molti dei vizi dell'Italia di oggi. Lo fa con un'incisività che le nostre attuali commedie non possono neanche immaginare.

Habemus Judicium:

Ismail

giovedì 12 ottobre 2017

"A VOLTE RITORNO" DI JOHN NIVEN

« Dio si avvicina, appoggia il caffè su una cassa da imballaggio e prende un dossier a caso. 
C'è scritto 'XVIII SECOLO: TRATTA DEGLI SCHIAVI'. Schiavismo: questo Dio lo conosceva bene, purtroppo. Quei bastardi dei faraoni ne andavano matti. Ma la tratta degli schiavi? - Che cazzo è la 'tratta degli schiavi'? - domanda Dio mentre apre il dossier corrucciato ».

Operosi animaletti questi umani.
Questo il pensiero di Dio quando decise di prendersi 7 giorni di vacanza (circa 5 secoli terrestri) per andarsene a pesca di trote. Dio aveva lasciato il suo ufficio in pieno Rinascimento con Galileo che infilava il suo naso tra i satelliti di Giove e nei teatri vittoriani veniva rappresentato i Re Lear.
Una pacchia!
Torna e trova tanti faldoni, alcuni su carta, altri su una serie di nuovi supporti appena inventati come Dvd ed Hard Disk.
Non c'è che dire sono davvero ingegnosi quegli animaletti.
Poi però la doccia fredda, un mix di incazzatura e depressione per il buon Dio.
La tratta degli schiavi, genocidi, preti che incitano l'assassinio dei medici abortisti, il pianeta ridotto uno schifo con un subcontinente di materiali plastici nel Pacifico ed in più dei mentecatti che in suo nome godono nel lapidare omosessuali, adulteri ed infedeli.
C'è solo una soluzione rimandare suo figlio Gesù, un fattone rockettaro, tra gli uomini, a New York, e da qui veicolare l'unico vero comandamento: Fate i Bravi.
Un'idea di fondo intrigante, ricca di spunti divertenti e da cui poter far sviluppare riflessioni tutt'altro che scontate. "A volte ritorno" è un libro ironico che traspone Cristo nella modernità attraverso un racconto che vive di analogie con il Vangelo: Egli si circonda di persone ai margini della società (diseredati ed ex-tossici), incontra una nuova Maddalena e vive gli attriti più forti con chi si fa portatore della vera fede.
Niven, per ampi tratti del romanzo, trova le giuste alchimie.
Ci si gode una gustosa e dissacrante umanizzazione di Dio, Gesù, Santi e Profeti, alle prese con una complessa riunione di emergenza da cui far uscire la soluzione per risolvere i problemi della Terra.
Poi però appaiono delle crepe.
Lo scrittore scozzese fa un uso smodato, e spesso gratuito, del turpiloquio, che, se inizialmente spiazza e diverte, alla lunga, mancando una precisa contestualizzazione, appare un po' ripetitivo; caro Niven mettere continuamente in bocca all'angelo/divinità di turno parole come negro, cazzo, frocio non è sempre e necessariamente divertente.
Sono 380 pagine di alti e bassi, conditi da monologhi poco incisivi e da uno stile non così eccelso.
La sensazione peggiore leggendo è che ad un certo punto sembra quasi che ci si sia dilungati troppo nella scrittura. Viene il dubbio di trovarsi dinnanzi ad un'idea di partenza (o ad uno scrittore) più indicata ad un racconto piuttosto che ad un romanzo e che lo sviluppo di quasi 400 pagine sia giunto più su logiche economiche della casa editrice.
Verso la fine giunge una nuova impennata, "A volte ritorno" prende la via del thriller, la lettura trova nuova linfa ed anche lo stile e contenuti giovano della virata; quando si finisce l'ultima pagina si prova anche un discreto piacere.
Cosa si può dire in sintesi di "A volte ritorno"?
Che è un romanzo non a fuoco, di una furbizia fastidiosa che svilisce irrimediabilmente la carica dissacrante, che in più riprese si lascia posare in qualche anfratto casalingo a prendere polvere.
E dello scrittore?
Che è rimandato a settembre!

Habemus Judicium:
Ismail

martedì 10 ottobre 2017

"BLADE RUNNER 2049" (2017) DI DENIS VILLENEUVE

«Rick Deckard: Una volta facevo il tuo lavoro. Ero bravo. 
Agente K: Era più semplice allora. »

Capolavoro! 
Allora si può fare un film all'altezza del primo, anzi superiore! 
Se prima pensavamo non si potesse concepire un seguito di "Blade Runner"[LINK], adesso non possiamo immaginare un "Blade Runner" senza il suo seguito! 
Tutte queste altisonanti dichiarazioni, da parte di chi, per mestiere, guarda i film e li giudica per gli spettatori, hanno creato un'ulteriore attesa per 2049. Certo, puzzava un po' di bruciato il fatto che venissero sparate sul trailer del film o sulle mille pagine promozionale presenti nei social. 
Si aveva quasi quasi l'impressione fossero state create ad arte per pompare il film, aumentando l'hype in modo spasmodico. Quasi a insinuare il dubbio che tali recensioni siano il frutto di gente prezzolata, cosa impensabile in un paese come il nostro, in cui siamo immuni, per fortuna, ai marchettari e ai trasformisti. 
Ma, comunque, era cosa buona e giusta astenersi da giudizi sommari e, a parte il post di alcune settimane fa [LINK] in cui giocavamo a "recensire" il poster del film, rimandare il tutto a dopo la visione. Perciò, finalmente, possiamo analizzare nel dettaglio il film. 
Trama: siamo nel 2049 sempre a Los Angeles e la Tyrrell Corporation è stata rilevata da un replicante (o forse no, non si capisce mica) di nome Wallace. L'Agente K, interpretato da Ryan Gosling, è un Blade Runner della LAPD ed anche un replicante di nuova generazione, di quelli fedeli agli umani;il suo lavoro è cacciare gli ultimi modelli di Nexus 8 rimasti. 
Mentre sta sbrigando uno dei suoi casi, viene a conoscenza di una prova che rimanda a frammenti del suo passato. Un passato che potrebbe celare delle rivelazioni importanti per l'umanità e sulle quali Wallace ed altri hanno intenzione di mettere le mani ad ogni costo. 
Finalmente questo "Blade Runner 2049" risponde all'interrogativo che da anni tormenta i fan di "Blade Runner": è giusto che il capolavoro di Ridley Scott abbia un seguito?
La risposta è NO. 
Il guaio è che parte dei motivi era ampiamente prevedibile ma, ciononostante, dopo la visione, se ne aggiungono altri. 
Di Denis Villeneuve abbiamo già parlato e ribadiamo quanto detto: regista dalla potenza visiva illimitata, un costruttore di immagini e geometrie protese alla perfezione e l'Eletto della fantascienza blockbuster di inizio terzo millennio. Perciò non ci si poteva certo aspettare un film deludente dal punto di vista visivo; anzi, si può tranquillamente affermare che la visione di Villeneuve amplifica l'universo di Blade Runner, ne allarga e migliora la prospettiva, non si limita al compitino di restituire quella grandezza, ma la eleva al quadrato avvalendosi anche di scenografie titaniche e squadrate e di una resa fotografica policromica e satura, dall'effetto ipnotico e allucinante (sempre Lynch e Refn alla base). Da questo punto di vista, "2049" è indiscutibilmente un valore aggiunto. 
Per concludere il discorso sulla confezione esterna del film, bisogna dire che, invece, la colonna sonora, pur contando sull'apporto di Hans Zimmer, è molto scolastica nella sua professione di fedeltà alla linea ed aderenza completa al capostipite, di cui riproduce praticamente in toto il sound, senza minimamente toccare le vette di poesia ed il mood di Vangelis; rinuncia ad osare e a suscitare sensazioni diverse allo spettatore. 
Diversamente, la polpa del film vorrebbe avere un gusto familiare e allo stesso tempo più fresco ed originale. Ma sulla resa complessiva pesa la spada di Damocle auto-sguainata dall'ambizione e dall'avidità di una produzione, che ha voluto forzare la mano nel riprendere un film che, proprio dalla sua autarchia e dalla sua incompiutezza compiuta (scusate il gioco di parole) traeva la sua grandezza. Il tutto per un pugno di dollari, o, forse, per qualche dollaro in più. 
A giudicare "Blade Runner 2049" come un qualsiasi film di fantascienza ne uscirebbe un giudizio positivo. Vivrebbe di rendita del comparto estetico d'eccellenza e delle prove di talenti old (Ford e Robin Wright) e new school (Leto e Gosling). 
Ma, spingiamoci anche oltre: funzionerebbe molto bene anche con questo stesso titolo, cioè decidendo di ambientarlo nello stesso universo di Blade Runner, ma seguendo una storia parallela a quella di Deckard e Rachel. E invece no, si vuole a tutti i costi creare epopee su epopee, Star Wars su Star Wars, incastrare e mischiare personaggi e trame vecchie e nuove. 
Il risultato è un prodotto insipidopesante da digerire: ingiustificato nella sua durata chilometrica, piena di passaggi a vuoto per aggiungere quantità all'entertaining; nei suoi risvolti narrativi, forzati, poco convincenti, di una banalità disarmante e, in alcuni casi, involontariamente comici. Per non parlare del fatto che il personaggio di Ana De Armas (Joy), un software dalla fattezze femminili innamorato dell'agente K, suo proprietario, è scopiazzato da "Her" di Spike Jonze, sia concettualmente sia nella scena erotica/lesbo/sentimentale in cui sono presenti la stessa Joy, l'agente K e una prostituta (che nel film manco è solo una prostituta, purtroppo): ne esce fuori una trashata da sganascioni sonori, nonostante fino ad allora Villeneuve aveva cercato pazientemente di costruire un'atmosfera credibile in stile "Blade Runner".
Il fatto è che Ridley Scott, approcciandosi alla sessualità, proponeva una messa in scena austera: dipingeva un'umanità fatiscente anche nella sua incapacità di riprodursi, mentre, dall'altro lato, i replicanti esprimevano una sessualità meccanica e straniante. Perciò la storia d'amore tra Deckard e Rachel, intrisa di sofferenza e vitalità, rappresentava un lampo nel buio e risaltava con un significato e uno spessore ben diverso. Villeneuve, invece, piazza lì un siparietto erotico fine a se stesso, intride di melenso stonato la storia tra K e Joy e, ancora una volta dopo "Arrival"[LINK], dimostra di non andarci per il sottile.
Ad ogni modo di scene buffe ce ne sono altre: un esempio è quella in cui la replicante della Tyrrell gioca a battaglia navale con dei barboni usando un satellite a distanza, tramite un visore facciale, mentre si fa fare comodamente la manicure svaccata sulla poltrona dell'ufficio. 
Se l'invincibile Ryan Gosling sarà sempre una freccia d'oro nella faretra di una produzione cinematografica e qui regge con disinvoltura, sulle sue spalle, la prima parte della narrazione, il buon Ford continua a non voler accettare il meritato pensionamento e si fa infilare anche in questo caso, nella sceneggiatura, la scenetta d'azione, ma non ce la fa più e si vede. Basta Harrison è finita, siediti là.
Jared Leto, che interpreta Wallace, fa il possibile, ma onestamente il suo personaggio, un santone magniloquente e megalomane, è completamente inutile come villain. 
Poi ovviamente un po' di fan service che diamine: la gente ha pagato per vedere "Blade Runner" e allora non basta riesumare Deckard, sparpagliare dei rimandi qua e là al primo capitolo all'inizio, per poi finire appiccicando a forza i due film. Eh no! 
Che ne pensate di una digitalizzazione di una versione giovane di Sean Young per mostrare, per una manciata di secondi, una Rachel nuova di pacca? Pippette per tutti.
Per concludere non si può che scuotere la testa di fronte a questa operazione commerciale, che annacqua l'immaginario di un capolavoro come "Blade Runner", replicandone i temi in modo più sempliciotto, introducendone altri di una certa banalità e scontatezza, smorzandone in parte le atmosfere e nella totale incapacità di riprodurre quella poetica sull'esistenzialismo e quello stile da noir anni 30'; ma, soprattutto, si dimostra non all'altezza di restituirne quell'immaginario fantascientifico decadente e straniante, non solo nella forma, ma soprattutto nei contenuti. 
Cose che voi umani non potete immaginare.

Habemus Judicium:

Bob Harris

lunedì 9 ottobre 2017

"JACKIE BROWN" (1997) DI QUENTIN TARANTINO

«Se oggi come oggi, senza un'occupazione, avessi la possibilità di scappare con mezzo milione di dollari, l'afferreresti?» 
-Jackie Brown-

Il genio deve appagare trasversalmente. 
Le sue opere tendono ad essere apprezzate un po' da tutti e Tarantino è un esempio di ciò. 
Lo spettatore medio si gusta "Pulp Fiction" tanto quanto il critico dei critici, certamente a livelli di lettura diversi e cogliendo sfumature diverse.
Ma, nel marasma di elogi a Quentin, c'è un chiaro elemento per discernere l'occhio più esperto da quello meno avvezzo: "Jackie Brown". 
Tante volte leggo sul web commenti entusiasti rispetto al cinema di Tarantino, ma raramente sono rivolti a quella pietra miliare che è "Jackie Brown". Anzi, spesso questi commenti denotano una totale ignoranza dell'esistenza stessa del film. E scusate, non si può davvero apprezzare Tarantino se non si hanno stampate ben in mente le sequenze, indimenticabili, di quest'opera.
Questo accade perché "Jackie Brown" rappresenta un unicum nella filmografia del regista: il film più film da lui girato e il meno tarantiniano allo stesso tempo.
Vediamo il perché.
Jackie Brown (Pam Grier) è una hostess che arrotonda il suo esiguo stipendio contrabbandando del denaro per Ordell Robbie (Samuel L. Jackson). Questi è un mercante d'armi tanto stralunato quanto poco affidabile. Un giorno, Ordell riceve una chiamata dalla prigione da parte di Beaumont, uno dei suoi scagnozzi: egli gli chiede di liberarlo e pagare la sua cauzione...il resto prendetelo da Wikipedia...come ho fatto io.
Per una volta Tarantino decide di mettere la macchina da presa totalmente al servizio del film. 
Pochi sghiribizzi, montaggio lineare, musiche meno protagoniste e una regia molto pulita. Ovviamente siamo sempre nel mondo di Tarantino per cui ci vorrebbero altri mille mila film per ogni personaggio, tanto è geniale nel tratteggiare i caratteri.
Partiamo da Pam Grier ennesimo vernissage, compiuto dal regista, su un attore decaduto. Star del cinema black exploitation anni 70', rinasce ad eroina sui generis: vestita da hostess, imbolsita, compassata nei modi e perennemente sotto attacco. Ma tutta la passione e la nostalgia di Tarantino, per quella piccola fetta della storia cine/televisiva di serie B e per la sua icona, esplode in un elogio sincero e incondizionato, elemento tutt'altro che stilistico attorno al quale si costruisce l'intera trama. Trama che risulta essere classicamente tarantiniana per i suoi molteplici dipanamenti, per le sue sterzate e i suoi innumerevoli focolai narrativi. Ma, come già accennato, impoverita di certi virtuosismi abituali al regista (ma il piano sequenza nell'incontro con Beaument non lo si può dimenticare) quali il montaggio disordinato e le sequenze ad effetto, iperrealistiche (più o meno) e fini a sé stesse, fattori genetici del linguaggio epistolare del regista.
L'effetto è una narrazione piuttosto lineare, austera e priva di distrazioni.
Poi, ovviamente, lo stile è un marchio di fabbrica perciò non mancano i consueti dialoghi ultra-pop, la canonica dose di violenza, il sarcasmo e la gigioneria.
Un film dalla trama avvincente e realistica, un Tarantino insolito e trattenuto ma, proprio per questo, illuminato. I suoi film e il suo stile sono un patrimonio per l'umanità, ma Tarantino ci insegna che, quando vuole, può dare lezioni a chiunque anche e, soprattutto, sottraendo a se stesso. 
Less is better, baby!

Habemus Judicium:

Bob Harris

giovedì 5 ottobre 2017

"LA CURA DEL BENESSERE" (2016) DI GORE VERBINSKY

Il cinema va approcciato in un certo modo. 
Si può guardare un film in modo distratto mentre si svolgono altre attività, buttando l'occhio di tanto in tanto. 
Si può masticare un film dopo l'altro, nel bulimico tentativo di aggiungere una tacca in più alla propria collezione, un gettone di presenza da sfoggiare in una discussione. 
Ci si può concentrare per immergersi nella trama oppure guardarlo svogliatamente.
Poi ci sono quei film che ricambiano quel minino sufficiente di attenzione da parte dello spettatore con un biglietto di sola andata verso mondi immaginari meravigliosi o spaventosamente meravigliosi, prendendolo per mano e conducendolo, incantato, fino alla apoteosi conclusiva. 
"La Cura del Benessere" è uno di questi film. Il giovane broker di successo di una grossa compagnia finanziaria americana, Lockhart, viene convocato dai soci per una delicata missione: deve recarsi in una spa svizzera per riportare in America Roland Pembroke, il CEO dell'azienda, che non ha alcuna intenzione di tornare. Lockhart presto capirà che uscire dalla misteriosa clinica del dottor Volmer non è facile quanto entrarvi.
Fin da subito il film immerge lentamente lo spettatore nel profondo abisso del mistero. Dipinge i personaggi della storia riempendone di mille sfumature alcuni o, viceversa, appiattendone altri al limite della caricatura (vedi ad esempio i colleghi brokers), ed entrambe le costruzioni si rivelano azzeccate ed efficaci.
Tutto intorno si è lentamente pervasi da un'atmosfera fatata e sinistra. Questo per chiarire una volta per tutte che non sono necessari inutili espedienti tecnici pseudo innovativi (3D) per permettere allo spettatore di calarsi completamente nel film: è necessario creare la magia dell'esperienza visiva.
"La Cura del Benessere" ricrea questa magia e lo fa con una eleganza, un minimalismo e una raffinatezza formale degna della migliore tradizione cinematografica orientale. 
La bellezza di certe inquadrature, di una fotografia vivida e candida e dei paesaggi incantevoli (dalle montagne austriache allo sfarzoso castello vittoriano) provocano più di una stropicciata di occhi. Pensare che il regista sia quel Gore Verbinski dei vari "Pippati dei Caraibi", "Lone Ranger" e quello schifo di "The Mexican", fa uno strano effetto. Ma poi bisogna ricordarsi anche dell'ottimo remake di "Ringu" e allora, forse, lo si può davvero considerare regista versatile e quadrato (all'occorrenza).
Il film ruota attorno ai tre personaggi ben interpretati da Dane Dehaan, Jason Isaacs e Mia Goth (quest'ultima, già vista in "Nynphomaniac", sembra dotata di un innato un fascino magnetico da strega): lo yuppie, lo scienziato oscuro e la lolita. Attorno ad essi una miriade di caratteri notevoli, piccoli pezzi incastonati a formare un mosaico, in cui ognuno recita la sua parte prestabilita nel dipanamento dell'intreccio.
È davvero notevole come il candore e la purezza stilistica della quieta superficie del film rivestono efficacemente una rappresentazione tanto torbida e sudicia delle passioni e delle aberrazioni dell'animo umano.
Si potrebbe passare ore a discutere sui difettucci/difettoni di questo film che, certamente, non brilla per originalità di soluzioni e che non riesce fino in fondo ad accettare il peso di assurgere a capolavoro e, forse, è anche giusto non considerarlo tale. Ma nella videoteca di ogni cinefilo "La Cura del Benessere" non dovrebbe mai mancare, andrebbe, anzi, messo lì in bella vista. 
Questo è cinema dall'essenza wabi sabi.

Habemus Judicium:

Bob Harris

lunedì 2 ottobre 2017

"SONG 'E NAPULE" (2013) DEI MANETTI BROS.

«Questa è la polizia di Stato! E cosa fa l’Assessore Puglisi? Mi manda un incapace! Un pianista! Che facciamo, la serenata ai delinquenti?»
-Questore Vitali-

E dire che in Italia il cinema di genere lo sapevamo fare.
FulciBavaArgento o Di Leo, giusto per fare qualche nome, ne sono la dimostrazione.
Poi il nulla, o quasi. Caligari, tra mille difficoltà, con "L'Odore della Notte" [LINK] nel '98 riuscì a portare un (grandissimo) noir a Venezia. Salvatores, che spazi e voglia di libertà l'ha manifestata negli anni, ci ha provato con i discreti "Nirvana" ed "Il ragazzo invisibile".
In mezzo ad un piattume quasi generale emergono anche due soggetti non meglio identificati: i Manetti Bros. Autori di pellicole indipendenti a basso budget, i due fratelli romani sono tra i pochi registi dello stivale che si divertono (anche con una certa capacità) a sperimentare nel cinema di genere. Ed a partire da quel Dracula che calavano a Roma, da clandestino qualsiasi, e lo trascinavano tra i centri sociali e la musica rap, di strada ne hanno fatta.
Sono passati per il thriller con "Piano 17", si sono lanciati nello splatter di "Paura 3D" ed approdati nella fantascienza con il riuscitissimo "L'arrivo di Wang". Non tutti lavori impeccabili per carità, ma sempre connotati da libertà e voglia di mettersi in gioco. Due tipetti per cui nutrire tutta la nostra stima e simpatia.
E con "Song' e Napule" arriva il momento del poliziesco.
Prima ancora che si aprano i titoli di testa si ride di gusto con un bizzarro colloquio di lavoro.
Da un lato della scrivania c'è Vitali (Carlo Buccirosso), Questore di Napoli prossimo ad una crisi di nervi. Dall'altro Paco (Alessandro Roja), talentuoso musicista diplomato al conservatorio, disoccupato e con in tasca la spintarella dell'Assessore Puglisi.
Sono cinque minuti eccezionali in cui Buccirosso si mostra per quel che è, uno dei migliori caratteristi italiani; peccato vederlo così spesso utilizzato male nella stantia commedia italiana. Titoli di testa e ci ritroviamo due anni dopo quell'incontro.
Paco non ha la minima capacità di fare il poliziotto di strada; i superiori lo sanno e lo sapeva anche il Questore Vitali. Non poteva che ritrovarsi posteggiato all'interno del deposito merci sequestrate. Qui viene scoperto dal Commissario dell'anticrimine Cammarota (Paolo Sassanelli), uomo d'azione particolarmente risoluto, mentre suona un pianoforte.
Senza che Paco possa dire la sua, si ritrova all'interno della squadra anticrimine. Il suo compito sarà quello di infiltrasi nella band di Lollo Love (Giampaolo Morelli) esponente, che più trash non si può, della musica neomelodica napoletana.
La ragione?
Lollo Love è stato chiamato per allietare gli invitati del matrimonio della figlia del camorrista Scornaienco (Franco Ricciardi); tra gli invitati ci sarà un Keyser Söze partenopeo: Ciro Serracane (interpretato da Peppe Servillo) detto O' Fantasma, uomo senza volto da sempre primo desiderio dell'anticrimine.
Una trama semplice ma condotta magistralmente.
I fratelli Manetti rigenerano il poliziesco italiano, lo caricano di ironia, ed, attraverso un montaggio frenetico e movimentate telecamere a mano, lo catapultano in una Napoli lontana dalle banali visioni da cartolina ed ancor di più dai luoghi comuni con cui la si attacca solitamente.
Lavorano su due registri.
Da un lato quello comico, una serie di situazioni legate alla convivenza tra Paco e Lollo Love. Si ride e di gusto. Dall'altro la suspense: cresce con il giusto climax, e, come i migliori thriller, lascia lo spettatore incollato allo schermo in attesa di vedere cosa succederà.
A fare da collante tra questi due poli contrapposti c'è quello schifo di musica neomelodica (ah, le canzoni sono scritte dallo stesso Peppe Servillo): crea una bislacca alchimia in grado di stemperare i toni più esasperati e donare omogeneità al tutto. Uno schifo di canzoni, va riconosciuto, però così appiccicose che, con un certo imbarazzo, ci si ritrova a canticchiare sotto la doccia.
"Song 'e Napule" fa bene al nostro cinema è un calderone di caratteri pregno di ironia ed intelligenza, un autentico film popolare che mira a strappare più biglietti possibili al botteghino.
Il 5 ottobre uscirà l'ultima fatica dei fratelli, un gangster movie/musicale, intitolato "Amore e malavita", che sembra aver incuriosito e divertito i più che hanno assistito alla proiezione al Festival di Venezia.
Per ammazzare l'attesa andate a fare un giro RaiPlay e gustatevi questa avventura napoletana con uno streaming gratuito ed in HD. Grazie Mamma Rai!

Habemus Judicium:

Ismail