lunedì 7 agosto 2017

"ARRESTATEMI": PICCOLA STORIA SULLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE

Una donna senza nome (interpretata da Sophie Marceau) si reca in tarda serata in un commissario di polizia. Sotto la luce dei neon incontra un'altra donna, il tenente Pontoise (Miou Miou), prossima a finire il suo turno di lavoro.
Il motivo è la morte del violento avvenuta quasi 10 anni prima. Un suicidio, un volo dall'ottavo piano, stando alla verità certificata allora dagli inquirenti che archiviarono il caso. In realtà un omicidio causato dalla spinta decisiva di una donna stanca di subire l'ennesima violenza. Da allora un crescente senso di colpa, oramai incontrollabile, che la porta ad autodenunciarsi prima che il reato cada in prescrizione.
"Arrestatemi" del regista francese Jean Paul Lilien è uno di quei film quasi invisibili. Uscito in patria nel 2013, è arrivato qui da noi nel 2016 per il solo mercato dell'home video. E' roba che si incrocia giusto per caso in qualche videoteca superstite o spulciando i canali minori del digitale terrestre.
Ci ritroviamo dinnanzi ad un thriller anomalo, tutto giocato sul serrato colloquio tra le due immerse nell'oscurità del commissariato, un braccio di ferro tra la vittima/carnefice ed il tenente, che più conosce il passato della donna e più giustifica il fatto intravedendo nell'omicidio un esercizio di legittima difesa. Ad estendere le percezioni dello spettatore ci sono numerosi flashback, quanto mai crudi e realistici, che ci calano in prima persona nei dolori fisici e psicologici subiti dalla donna.
"Arrestatemi" è uno dei pochi film che parla di violenza di genere e lo fa con una certa forza. Merito delle due attrici che sorreggono una messa in scena asciutta ed austera. Merito della narrazione che, attraverso un dialogo maieutico, apre la sguardo non tanto sull'atto subito quanto sulle conseguenze scaturite da esso.
Il cinema francese ci lascia uno sguardo amaro e disilluso sui rapporti di coppia, e lo fa mostrandoci un volto qualsiasi che veicola un messaggio universale.

Habemus Judicium:
Ismail

giovedì 3 agosto 2017

"BOWLING FOR COLUMBINE" (2002) DI MICHEAL MOORE

« Questo è un gran bel posto dove far crescere i figli, un gran bel posto...»

Un uomo panciuto, fresco correntista, esce dalla North American Bank tutto felice con in mano il grazioso omaggio per i nuovi clienti: un fucile.
Buoni medio-borghesi americani arringano la folla con invettive contro Marylin Manson, South Park e videogiochi, colpevoli di rendere gli U.S.A. il paese statisticamente più funestato dalle stragi da armi da fuoco.
Vedendo oggi "Bowling for Columbine" ci si capacità che, nonostante siano trascorsi ben 15 anni dalla sua uscita, mantiene ancora tristemente intatta la sua attualità.
Il punto da cui muove l'inchiesta del regista americano Micheal Moore è la strage della Columbia High School, una delle più sanguinose ed insensate che abbia colpito il gigante nordamericano. E' il 20 aprile del 1999 e due studenti, Harris e Kebold, si recano a scuola. Seguono il corso di Bowling. Non eccellono nel gioco, mandano quasi sempre le palle sui canali laterali della pista.
Arriva l'ora di pranzo e mettono in atto il loro progetto.
Hanno con sé due fucili a pompa calibro 12 e altre due armi da fuoco 9mm. Si recano nella mensa ed iniziano a sparare ad i loro compagni di scuola uccidendone tredici. Poi si suicidano. Le armi erano state comprate legalmente da una loro amica maggiorenne. I proiettili li avevano acquistati direttamente loro in una ferramenta della zona.
C'è qualcosa che non va negli americani?
Gli americani sono folli per le armi oppure sono folli e basta?
Moore risponde a queste domande con un caustico viaggio nell'America che si difende, un pungente alternarsi di interviste tra i sostenitori del II Emendamento e le associazioni che da decenni lottano per limitare la libera vendita di armi da fuoco. 
"Bowling for Columbine" è un documentario incisivo che gode di passaggi eccezionali.
Memorabile la sequenza che, sulle note di "What a wonderful world", ricorda le connivenze tra gli Stati Uniti e molti regimi dittatoriali; così il passaggio d'animazione che illustra la differenza tra canadesi e statunitensi; oppure l'intervista a Charlton Heston, presidente della NRA.
Un documentario robusto che approfondisce e tanto, spiattellando l'ampio ventaglio di elementi con cui spiegare del perchè di tanta violenza, ed intrattiene; e qui sta il grande merito di Moore, l'aver tolto quel manto polveroso che ricopriva il documentario, rendendolo appetibile al grande pubblico.

Habemus Judicium:

Ismail