lunedì 30 luglio 2018

DA "ROCKY II" (1979) A "BALBOA" (2006): ASCESA E DECLINO DEL PUGILE CHE CONQUISTO' MOSCA

Dopo quella prima indiscutibile perla che è "Rocky", del quale abbiamo abbondantemente parlato qui, il desiderio di sfruttare un character già leggendario porta la United Artist, 3 anni dopo (1979), a produrre un sequel scritto, interpretato ed addirittura girato da Sly. Con un budget risicato all'osso (7 milioni di dollari), il sequel incassa la bellezza di 200 milioni di dollari in tutto il mondo.
Non c'è che dire, la mossa è risultata tutt'altro che azzardata.
Spiace, magari, sul versante artistico dell'operazione; nonostante sia innegabile che "Rocky II" è un film ben costruito, non si può far a meno di sottolineare quanto sia un facsimile del primo. Ricalcandone pedissequamente la struttura narrativa, ci troviamo di fronte ad un semplice aggiornamento del match Rocky-Apollo.
Già dall'incipit si intravede la deriva ganza della serie, nella scena che vede i due pugili, costretti temporaneamente su una sedia a rotelle dopo il match, battibeccare e sfidarsi verbalmente.
Balboa si riprende, diventa un viso noto e si trova ad avere a che fare con una condizione a lui sconosciuta, quella della celebrità: gira spot pubblicitari e si trova nella piacevole, quanto inedita, situazione di poter gestire un bel gruzzolo di soldi. Ma Rocky è (ancora) un pugile dal cuore grande e dal cervello piccolo, non è portato per gestire e gestirsi.
Tra momenti drammatici (il coma di Adrianaaa) ed altri altamente retorici (su tutte la riproposizione dell'ascesa alla scalinata di Philadelphia, qui con i bambini che circondano e abbracciano Rocky, il tutto immortalato in un fermo immagine) si arriva all'agognato rematch: il verdetto è, finalmente, quello atteso da 3 anni.
Ma, allora, il sogno americano esiste!
Non solo avrai la tua opportunità, ma avrai anche la tua SECONDA opportunità di mostrare il tuo valore. "Rocky II" è un buon film da pasteggio che vive ancora di luce riflessa del capostipite; ma la riproduzione di uno spaccato di società e il tono malinconico del primo stanno lentamente lasciando il posto al vuoto più compiaciuto.
Altri 3 annetti e la voglia di big money si concretizza in "Rocky 3": forse che siamo di fronte ad una trilogia di cui questo terzo film ne è la chiusura ideale del cerchio? Ai posteri l'ardua sentenza; ma, essendo che i posteri siamo noi, sappiamo già che, in realtà, siamo già immersi nella marcia serializzazione.
Dunque, Rocky ha fatto il culo ad Apollo ma si è rammollito e passa più tempo a curare l'immagine e i rapporti con i media piuttosto che a sputare sangue sul ring. Fatto è che arriva il classico nero di quelli veramente incazzati; Clubber Lang è un mix tra Rocky e Apollo: proletario e rabbioso come il primo, spaccone come il secondo, ma molto più tamarro. Poi, siccome sono gli anni ottanta, non si poteva che farlo interpretare a quel fusto primordiale di Mr. T.
A distanza di decenni apprezziamo la memorabilità con occhio commosso.
Clubber fa il culo a un Rocky molle, questi subisce il contraccolpo e risveglia il proprio orgoglio. Mickey già era più di là che di qua nel secondo, perciò è ora di farlo schiattare.
E Apollo dove lo mettiamo? Ma all'angolo di Rocky, ovvio!
Perciò riscatto di Rocky che normalizza Mr T e grande amicizia virile da paccone sulla schiena con Apollo. Il tutto accompagnato da quel l'inno motivazionale, ormai leggendario, che è "Eye of the tiger" dei Survivor, richiesta espressamente da Sly come canzone di scorta, vista l'impossibilità di usare "Another one bites the dust" dei Queen. Direi che è andata bene così.
"Rocky 3" inizia ad aprire un grosso squarcio nel trash: un bel sentore lo abbiamo ad inizio film, quando Balboa viene fatto scontrare con nientepopodimeno che Hulk Hogan (memorabilia N.2). Commenti che aggiungano qualcosa ad una scena del genere ne abbiamo? No, impossibile.
Anche questo terzo capitolo diventa campione di incassi.
È un film, tutto sommato, ancora avvincente, che sa sparare discretamente bene quelle due o tre cartucce emotive.  In generale, però, è chiaro che è andata completamente in vacca l'idea iniziale di raccontare una fiaba urbana: lo stile è ormai in linea con l'America reaganiana dell'edonismo yuppie; Rocky non è più un looser nell'anima, è un ganzo da copertina sicuro di sé e insolitamente acuto. Il dramma ha definitivamente virato verso il (finto) biopic sportivo.
Impossibile concepire Rocky Balboa e Sylvester Stallone separati l'uno dall'altro, ma, con questo film, il personaggio allunga il passo e raggiunge l'ormai celebre attore, tornando a identificarsi e a coincidere con esso: un uomo ricco e assuefatto alla propria fama, privo di quella spinta iniziale che lo ha portato ad affermarsi.
Di 3 anni in 3 anni e si fa 4.
"Rocky 4" esce nelle sale in piena era Reagan e, sopratutto, nella fase di disgregazione dell'Unione sovietica, pochi anni prima del Tear down this wall.
Rocky non è più soltanto l'eroe proletario imborghesito, con questo film diventa un simbolo politico di riappacificazione. Data, però, la spiccata indole reazionaria del brand, più che altro si palesa qui per l'alfiere ideale di un America repubblicana costantemente impegnata a mostrare i bicipiti anche (e sopratutto) in territorio nemico. 
Il nuovo avversario di Balboa ha lo sguardo austero e glaciale di Dolph Lundgren; la minaccia alla fama del campione Italo-americano viene dalla Russia comunista e si chiama Ivan Drago.
La produzione decide di forzare la mano con un altro colpo di scena drammatico: per poter giustificare l'ennesima necessaria rivalsa di Rocky, si sceglie di immolare il personaggio di Apollo Creed.
In linea con il suo carattere arrogante, Creed decide di affrontare la new entry bolscevica, incurante della scarsa preparazione, dovuta all'inattività, e della ferocia distaccata del rivale. L'uscita di scena di Apollo avviene in una sequenza a dir poco grottesca e surreale, in cui si mischia il groove di James Brown e l'ostentazione dell'edonismo americano con il dramma della morte in diretta.
Scena epocale si, ma siamo proprio in alto mare rispetto al realismo degli inizi. 
Rocky è incazzato nero e decide di andare a stanare il nemico a casa sua: l'atteso match si svolgerà in Russia, in un clima di ostilità e antiamericanismo.
Il nostro eroe si rintana in una baita tra le steppe e si allena alla vecchia maniera: laddove Drago fa uso di mezzi ipertecnologici e finanche scorretti (qualche peretta di doping), Balboa trascina carretti, fa le trazioni sugli steccati e corre sulla neve (seminando persino le spie del rivale in macchina. Saranno spie del Kgb? Sarà una scena trash?). 
Si arriva al dunque. Rocky fa il culo a stelle e strisce a Drago (for sure) e si avventura in un discorso nella sua lingua madre, prontamente tradotto da un solerte presentatore in giacca e cravatta, che si articola in una lode stucchevole alla pace tra i popoli e al cambiamento di mentalità.
90 minuti di applausi e Rocky vola nello spazio. 
Questo film proprio non s'ha da digerire: tutti quei personaggi, che avevano decretato il successo dei predecessori, sono qui talmente esasperati nei loro tratti essenziali, da essere ridotti a macchiette (Paulie e Adrianaaaaa in primis). 
Usare poi, in modo reiterato, l'espediente della morte, mostra tutta la forzatura e la pretestuosità che si cela dietro un'operazione meramente commerciale e propagandistica.
"Rocky 4" è un film di cui gli americani dovrebbero e avrebbero dovuto vergognarsi.
In parte è così e in parte no, dato che la forbice tra critica e pubblico, già pian piano allargatasi nei precedenti film, qui raggiunge il suo massimo divario: al botteghino il film sbanca per l'ennesima volta, ma viene bombardato di premi ai Razzie Awards.
"Rocky 5" si fa attendere di più.
Solo nel 1990 la storia ricomincia esattamente dove era terminata: Rocky ha appena battuto Ivan Drago ma non ha tempo di godersi la vittoria. I medici lo avvertono che, a causa dei numerosi colpi incassati nella sua vita, rischia di morire, qualora proseguisse la sua carriera agonistica. Per di più viene frodato dal suo commercialista che lo lascia sul lastrico e lo riporta sulla strada, nella periferia di Philadelphia.
Un giovane di belle speranze, Tommy Gunn, attira l'attenzione di Rocky, che decide di crescere un futuro campione, per poter indirettamente continuare a vivere la passione per il ring. Ma Tommy si farà presto abbagliare dalle luci della ribalta. 
Curiosamente nel cast figura il figlio di Stallone, Sage, nella parte del figlio del protagonista, e Tommy Morrison (nei panni di Tommy), che di li a poco sarebbe diventato realmente campione del mondo dei pesi massimi. 
Finalmente si torna alle origini, al pugile looser e stoicamente votato al sacrificio. I toni sono di nuovo sommessi e malinconici: ai temi cari della serie, si aggiunge un sentimento di nostalgia del vecchio pugile costretto ad appendere i guanti al chiodo.
Balboa non è spaesato dal fatto di aver perso la sua fortuna e neanche, principalmente, dal fatto di non poter più mostrare gli occhi della tigre sul ring. Egli si trova sperso in un mondo che viaggia troppo velocemente per lui (suo figlio è ormai grande e vuole dedicarsi allo studio) ed infarcito di squali.
La famosa perdita dei valori e dell'antico codice d'onore sono rispecchiati nella figura parricida di Tommy Gunn. La scena della scazzottata finale in mondovisione è eccessiva (come da copione) ma, finalmente, torna a darci qualcosa di umano e tangibile.
Gli anni '90 sono iniziati, la bolla di sapone del decennio sfrenato è già scoppiata, c'è incertezza sul futuro. Rocky è la reazione più naturale di chi, per paura di guardare avanti, tenta di rifugiarsi nel proprio passato. 
Anche stavolta Balboa vince la sua effimera battaglia, ma dentro di sé sa di aver perso: non è più tempo per lui di illuminare il ring e il suo cuore grande e puro non è in grado di redimere coloro la cui anima ha un prezzo ben preciso. 
Viceversa rispetto a quanto accadde per "Rocky 4", il film sarà un flop ai botteghini e riceverà il plauso della critica (che lo considererà il migliore subito dopo il primo).
Passano ben 16 anni e Stallone rimette mano al suo personaggio.
La moda di ripescare i brand più iconici e spremerli ulteriormente porta a "Rocky Balboa". 
In un continuum con il predecessore, il film accentua ulteriormente il clima nostalgico e dimesso, riproponendo la figura del pugile decadente e fallito.
Adesso è finito per davvero, è vecchio, patetico (passa le giornate a stordire gli avventori del suo ristorante con aneddoti del passato), ha perso la compagna di una vita (ancora un utilizzo smodato e pretestuoso della tematica morte, qui, per la verità, dovuto al rifiuto di Talia Shire di partecipare al progetto) e si trova sempre più fuori luogo rispetto ad un presente ipercinetico.
Anche stavolta Rocky troverà il suo avversario, ma mai come in questo caso risulta anonimo e sottotono. Lo Stallone Italiano ha sempre combattuto prima di tutto con l'idea posta alla base dei suoi rivali, portatori di un messaggio ben più ampio e sempre fortemente caratterizzati.
In Rocky Balboa il nemico quasi non ha volto, è completamente depersonalizzato: non è Mason Dixon il suo vero avversario, ma la rassegnazione
Per la prima volta, dopo il primo film, esce sconfitto.
Anche qui perde ai punti, in un'ideale, e stavolta, definitiva chiusura del cerchio. Ancora una volta ha dimostrato prima a se stesso che agli altri e, ancora una volta, il sogno di un pugile di periferia prende forma sul ring. 
Con questo capitolo autoreferenziale ma discretamente riuscito suona ufficialmente l'ultimo gong della saga di Rocky, che prosegue per vie traverse con lo spin-off sul figlio di Creed. Ma dei tentativi di spremere dollari e (ri)lanciare un marchio ormai languido non è questa la sede adatta per parlare, ammesso che ce ne sia una. 
Chiudiamo con una frase che riassume magnificamente la figura di Rocky Balboa e la sua importanza:

«Be', ecco, a dire la verità, sai certe volte un po' di paura ce l'ho è vero; quando sono sul ring e le prendo, e le braccia mi fanno tanto male che non riesco più ad alzarle. Sì allora penso: "Dio quanto vorrei che mi beccasse sul mento così non sentirei più niente!" Però poi c'è un'altra parte di me che viene fuori e non ha tanta paura... c'è un'altra parte di me che non vuole mollare, che vuol fare un altro round. Perché fare un altro round quando pensi di non farcela, è una cosa che può cambiare tutta la tua vita. Capisci quello che voglio dire?»

Bob Harris

lunedì 23 luglio 2018

"LA NOTTE DEL GIUDIZIO-ELECTION YEAR" (2016) DI JAMES DEMONACO

"The Purge: Election Year" chiude il cerchio di un brand di successo, ormai in procinto di svilupparsi attraverso la piattaforma televisiva.
L'idea alla base de "La notte del giudizio" è, come spesso capita per le idee, qualcosa di tanto intuitivo quanto geniale allo stesso tempo.
Il capostipite con questa intuizione, di una società capace di negare sé stessa una dozzina di ore l'anno per poter riaffermarsi con più forza, ci campava completamente, vivendone di rendita. Perciò aveva gioco facile a sfamare una curiosità di un certo peso: vedere la trasformazione dell'essere umano di fronte non solo alla possibilità di svincolarsi dalle regole sociali, per dar sfogo ai suoi istinti più primitivi, ma anche di reinserirsi, con disinvoltura e in brevissimo tempo, in quella stessa società, in modo del tutto naturale.
È in questo che risiede l'elemento distopico del film. Non tanto in una comunità che dispieghi momentaneamente meccanismi brutali per sopravvivere (questa è la realtà di tutti i giorni), quanto nell'ottica straniante di una passiva (o attiva) accettazione di questo concertato rituale sacrificale. Qui non c'è mistificazione, non c'è manipolazione terroristica dei media, non si gioca sulla paura, ma si accetta e si accoglie tale soluzione alla pari di un dogma religioso. Difatti, dopo un buon secondo capitolo che spinge sul lato action, abbandonando le venature horror del primo, questo terzo episodio gioca molto sul binomio stato/religione.
Ma vediamo di cosa parla questo "Election Year".
Nell'anno 2022, in concomitanza con le vicende narrate nel primo film, durante lo sfogo annuale un sadico sta torturando una giovane donna di nome Charlie Roan e la sua famiglia. Finirà con lo sterminarla, lasciando solamente lei in vita. 
Diciotto anni dopo, due giorni prima dello Sfogo annuale, una serie di rivoltosi protestano a Washington D.C., dopo la notizia giunta da alcuni rapporti secondo cui i Nuovi Padri Fondatori (NFFA) stiano usando lo Sfogo per beneficiare la loro agenda economica. Ciò sta avendo una grande ripercussione anche sulle imminenti elezioni presidenziali. Infatti Charlie Roan, divenuta ora senatrice, sta guadagnando terreno a discapito del candidato proposto dalla NFFA, il ministro Edwidge Owens. La NFFA, guidata da Caleb Warrens, inizia a vedere Roan come una minaccia al loro regime e prevede quindi di utilizzare l'imminente Sfogo per farla fuori. 
Il terzo capitolo sposta l'asse sulle tematiche politiche e sociali. Da questo punto di vista, si può condividere la scelta di virare su una diversa prospettiva per poter salvaguardare quella qualità (ri)innovativa che aveva contraddistinto il secondo capitolo.
Inutile pretendere da questo tipo di prodotti un'eccessivo approfondimento di suddette tematiche. Stiamo parlando di riempitivi funzionali a intermezzare una scena d'azione e l'altra. 
Il fatto è che il film perde inevitabilmente di mordente rispetto ai predecessori: laddove il primo giocava egregiamente con il thriller; il secondo costruiva una costante atmosfera di pathos, mantenendo un certo ritmo sostenuto per tutta la sua durata e beneficiando, per la verità, dell'effetto propulsivo impresso dal primo film. Qui, invece, i buoni propositi si scontrano con la banalità della messa in scena di quella idea iniziale, ormai lontana dallo stupire.
È l'ingrata eredità che pesa su questo terzo episodio.
Certamente, c'è sempre dietro una buona manifattura nel costruire le scene d'azione, che poi è la ciccia del film. Per il resto non può che apparire completamente metabolizzato il meccanismo di esibizione compiaciuta della follia umana; ad esempio risulta particolarmente fastidioso e scadente il personaggio di Kimmy, una teppistella trasgressiva dallo sguardo ferino che dovrebbe dare continuità al leitmotiv della saga: la violenza irrazionale che ingenera un senso di minaccia a tutto campo.
Ma di preciso cosa vuole aggiungere Election Year?
Sicuramente l'elemento rivoluzionario vuole porre l'accento sulla condizione delle classi meno abbienti, costanti vittime delle politiche governative più conservatrici e reazionarie, mirate a garantire il trastullo di una certa classe borghese agiata, ed a lucrare, per l'ennesima volta, sfruttando il business che la violenza ingenera.
Critica alla politica bellica di Trump?
Dito puntato contro la National Rifle Association (che poi l'ei fu Charlton Henston sarebbe stato un perfetto main character del film, ironia della sorte)?
Chissene, tanto ad Hollywood si muovono sempre allo scopo di mettere in scena un po' di cagnara acchiappa-biglietti ingozzata di effetti speciali, perciò non sembra il caso di allargarsi su eccessive interpretazioni e rimandi al quotidiano.
Ah, ci sarebbe anche una critica al sistema assicurativo americano, incarnata nel personaggio di Joe, ma è talmente accennata e pretestuosa da non meritare anch'essa ulteriori approfondimenti. 
Perciò sotto con la revolution e la devolution, si torni ad una situazione pre-sfogo. Poi tanta tanta azione che, come ribadito, non manca di essere incalzante. 
Ma di certo non ci si può appassionare alle vicende di personaggi costruiti in modo dozzinale, che, oltre ad essere altamente stereotipati, risultano più o meno buffi.
Su tutti il personaggio di  Bishop, volutamente inserito nella mischia con lo scopo di rappresentare un black guy che, farneticando sulla necessità di un'azione armata, richiama la figura di Malcolm X. In realtà risulta così poco approfondito che finisce per scimmiottarlo malamente (e non è un gioco di parole razzista). 
Che dire, poi, dei due senatori rivali?
La senatrice Roan è in principio rappresentata così cazzuta ed emancipata da provocare poi, nell'evolversi della trama, una grossa delusione nello spettatore, messo di fronte a un semplice aggiornamento del tema classico della donzella in pericolo da salvare. 
Mentre la figura del senatore Owens, inizialmente emblema del repubblicano più medio che altro, scivola lentamente nella macchietta del predicatore invasato: l'apoteosi è tutta nel finale e nella sequenza in cui Owens celebra una messa apparecchiato da santone (con tanto di scagnozzi chierichetti) di fronte alla creme de la creme della società di Washington D.C. (tra l'altro notare come si sia risparmiato sui figuranti visti i continui primi piani sulla stessa coppia di attori maschio/femmina in prima fila). 
Poi alla fine ok, facciamo il film amerigheno progressista e ci mettiamo la preponderanza dell'elemento multirazziale, ma, tanto, se qualcuno deve stirare le zampe state certi che, anche stavolta, sarà il nero di turno.
"The Purge: Election Year" è un action serrato con un buon crescendo di tensione, che prova ad aggiungere qualcosa all'universo de "La notte del giudizio", ma niet, nisba, nada. Chiude idealmente il cerchio mettendo un punto (ci crediamo?), ma mostra ormai tutta la stanchezza e la scontatezza di un brand che pare aver esaurito i conigli dal cilindro.
La serializzazione targata Netflix potrebbe giovare rivitalizzando il marchio, se non altro per la diversa impostazione del formato serial che porterebbe ad un restyling.
Ma per ora, a posto così.

Habemus Judicium:
Bob Harris

martedì 17 luglio 2018

L'ANGOLO DEL CULT #11: "ROCKY" (1976), LA QUINTESSENZA DEL SOGNO AMERICANO

«In fondo chi se ne frega se perdo questo incontro, non mi frega niente neanche se mi spacca la testa, perché l'unica cosa che voglio è resistere»
-Rocky-

Che poi prima di "Rocky" c'è un incontro vero.
Muhammad "The Greatest" Ali viene sfidato dal bianco Chuck "il Sanguinante di Bayonne" Wepner, uno di quelli che nella vita ha sempre incassato e tanto, conquistandosi il truculento soprannome per via di due arcate sopraccigliari quanto mai fragili.
E' la notte del 24 marzo del 1975 ed Ali è già Leggenda. Pochi mesi prima, a Kinshasa, nell'incontro del secolo, ha sfinito con i suoi veloci colpi "Big" George Foreman laureandosi campione del mondo dei pesi massimi. 
Ma Chuck Sanguinante Wepner non ha paura. Cinque anni prima il suo volto si era trasformato in una maschera di sangue dove solo il bianco degli occhi era riconoscibile. Era passato sotto le mani di Sonny Liston, il Minaccioso Orso Nero. Un combattimento furioso, il più cruento della storia della nobile arte. Wepner veniva sconfitto per KO tecnico, nulla aveva potuto contro il più rabbioso dei pugili. 
Il Sanguinante è sempre stato così, ogni volta che è salito sul ring ci ha messo il cuore.
Incassa, barcolla, sanguina, rincula, resiste, non molla mai e riparte all'assalto. 
Ma torniamo a quell'incontro con Alì.
Wepner mostra il meglio di sé, incassa e colpisce.
Al 9° round è ad un passo dalla storia. Sfodera un gancio sinistro formidabile che butta a terra Il Più Grande. Alì rischia di divenire semplicemente uno dei.
L'arbitro inizia a contare.
1, 2, 3...
Davanti agli occhi del Sanguinante di Bayonne passa tutta la sua vita.
Il quadrato, gli allenamenti, le troppe botte prese e l'assenza di un padre con cui condividere tutta questa avventura. Alì è a terra ed il titolo mondiale si avvicina. Potrebbe divenire qualcosa di più di un buon incassatore buono giusto per fare lo sparring partner.
4, 5, 6 ed Alì si rialza.
Non ha più pietà del suo avversario, i suoi colpi diventano macigni.
Wepner deve sfoggiare specialità di casa: resistere, non cadere a terra e tentare una reazione. E ci riesce fino al 15° ed ultimo round. Oramai è imbambolato, è un bersaglio fin troppo facile per Il Più Grande. Wepner non molla fino a 19" dalla fine. L'ultima gragnola di colpi tingono il suo volto di rosso. Cade a terra, è knockout.
Alì mantiene intatto il suo buon nome.
Ecco cari lettori la vita a volte disegna traiettorie strane.
Tra il pubblico televisivo c'è un semisconosciuto, un trentenne affamato e con una leggera paresi al lato sinistro del volto; il tipo è un mezzo fallito che, con ostinazione, mira a divenire un grande attore nonostante sia circondato da gente ben più talentuosa.
Wepner lo ha ispirato. Si chiude in casa per tre giorni e butta giù 90 pagine di sceneggiatura, l'embrione di "Rocky".
Va detto che la prima stesura redatta da Stallone è assai diversa da quella che di lì a poco avrebbe sbancato i botteghini di mezzo mondo. Inizialmente l' Italian Stallion è un antieroe cupo e violento circondato da pezzi di merda; primo fra tutti il vecchio allenatore Mickey che veste i panni del razzista più che del vecchio saggio quasi adorabile. C'è di più, Rocky non fa neanche il suo combattimento, decide di abbandonare l'incontro ed uscire definitivamente da quel mondo.
E si, se ben costruito, la mancanza di riscatto avrebbe dato al film un tono che faceva tanta Nuova Hollywood; "Rocky" sarebbe potuto essere un'opera autoriale, (forse) degna di molti grandi lavori dell'epoca. Poi però la moglie convince Stallone a cambiare le carte in tavola, ed il risultato lo conosciamo tutti.
Gonfio di entusiasmo Sylvester fa il giro dei produttori. Ad Hollywood sono anni intensi quelli. Si sperimenta e si investe in tanti nomi nuovi, ed il nostro Silvestrone riesce a strappare un bel milioncino per mettere in piedi il suo film. Poco, ma tanto basta.
"Rocky" è un miracolo, in soli 28 giorni viene portato a compimento.
Nel mezzo tante scene improvvisate. Lo sono quelle in cui Stallone/Rocky si allena correndo; oppure la scena della locandina con i colori sbagliati, un errore della produzione che per una cassa oramai quasi vuota non permette correzioni di altro tipo.
La storia del film?
Beh quella la conoscono anche i muri. 
Siamo a Filadelfia nel 1975. Qui vive Rocky Balboa, un pugile fallito che non è riuscito a sfondare. L'ultimo a voltargli le spalle è il suo allenatore Mickey che lo umilia sequestrandogli l'armadietto. Il motivo? Balboa non sarà mai un campione e non merita nulla. La sua vita è squallida, vive in un monolocale fatiscente e fa l'esattore per un gangster italo-americano di Filadelfia.
Non ha alcuna prospettiva, Rocky è un perdente circondato da perdenti. 
Il suo miglior amico? E' un certo Paulie, un mezzo alcolizzato e depresso che lavora in un mattatoio, un personaggio in cui, lo Stallone scrittore, riversa gran parte dei toni cupi del film. Il grande pregio dell'amico? La sorella Adriana, una ragazza troppo timida, per la quale il pugile/esattore brocco perderà la testa.
Nel frattempo, il campione del mondo dei pesi massimi, Apollo Creed, decide di sfidare un pugile a caso a Filadelfia, e tra tutti quelli presenti la scelta cade su Balboa.
Il vecchio allenatore, Michey, dopo aver umiliato Rocky, si trasforma in suo adulatore e si reca dal suo pugile. E quest'ultimo, che alla fine è un simpatico e bonaccione incapace, si rimette sotto la sua ala protettrice perché solo con lui ce la può fare.
La pellicola, con la conciliazione tra l'allenatore e Balboa, esce definitivamente dal solco più cupo ed autoriale. Da dietro l'angolo fa capoccella il riscatto.
"Rocky" puzza di sogno a stelle a strisce, quell'odiosa visione che fa della terra della libertà il luogo perfetto per chiunque abbia coraggio e forza di volontà; qui il successo è sempre a portata di mano.
Ed il grande sogno americano lo si respira anche fuori dal plot.
Per Stallone la pellicola sul pugile sbruffone rappresenta la tanto sperata svolta.
La sua vita sino ad allora era stata tutt'altro che agevole. Un'infanzia con una madre alcolizzata ed un padre troppo severo. Quella paresi al volto ed un fisico emaciato che lo hanno fatto soffrire da giovane. Gli studi di Arte Drammatica all'università pagati con mille lavori. La carriera d'attore che non decolla. I soldi che non bastano mai, l'indigenza e la parentesi da clochard.
Il nostro Stallone nel 1970, per tirar su qualche dollaro, si ritrova costretto a girare una terribile pellicola soft-porn: "Porno proibito". Di quell'esperienza avrebbe detto anni dopo: «O facevo quel film o derubavo qualcuno, perché ero alla fine - veramente alla fine - della mia capacità di resistenza. Invece di fare qualcosa di disperato, lavorai due giorni per 200 dollari, levandomi dalle stazioni degli autobus».
Ecco Stallone deve essere un tipo cocciuto, ostinato ed incosciente.
Basti pensare che quando presenta ai produttori il suo "Rocky", questi gli propongono il solo acquisto dello script; per il ruolo di Balboa vogliono un'altro attore, uno più capace. Ma Stallone non accetta, o tutto o niente. Con il conto in rosso ed una moglie incinta, molti avrebbero mollato da tempo.
"Rocky" deve essere la svolta.
"Rocky" è la svolta, un milioncino di budget ed un incasso da capogiro: 225 milioni di dollari.
Va bene okkay, il sogno si compie; e questo, come per la trama, è cosa nota a tutt*.
A questo punto la domanda da porci è solo una: ma cos'è questo film?
E' essenzialmente un'opera retorica.
Lo è nel suo messaggio, nelle corse sulle scale, nella tromba della colonna sonora, nella redenzione collettiva degli emarginati che giunge grazie ad un pugile campione del mondo in vena di scherzi.
"Rocky" è retorico eppure memorabile.
Lo è nella capacità di dialogare con il suo pubblico: lo prende per le viscere, lo emoziona e lo cala direttamente sul ring, facendogli vivere le sofferenze e la speranza di una vittoria impossibile. E' un film onesto e limpido, una storia che gode della dolcezza e di quel magnifico stupido entusiasmo che ha mosso Stallone nelle ore immediatamente successive all'incontro tra Ali e Wepner.
Durante la visione si è irrimediabilmente dalla parte di un incapace che ce la fa.
Tifiamo per Balboa; per la timida Adriana che alla fine si dimostra più forte e capace di quanto si potesse anche solo immaginare; per il vecchio allenatore che, con uno schiocco di dita, da stronzo opportunista si trasforma in un datato e saggio maestro da seguire. Non si può che essere dalla parte dei falliti di Filadelfia, che poi, alla fine, tutto 'sto destino segnato non ce l'hanno. E questa irrefrenabile onestà evita odiose virate (troppo) reazionarie e dona alla pellicola un eccezionale pathos.
"Rocky", a più di quarant'anni dalla sua uscita, mantiene intatta la sua carica, una favoletta irresistibile che conduce lo spettatore al successo. Mai e poi mai i sempre più furbi seguiti potranno scalfire la sua bellezza, "Rocky" è e rimarrà  Leggenda.

Habemus Judicium:
Ismail