lunedì 23 luglio 2018

"LA NOTTE DEL GIUDIZIO-ELECTION YEAR" (2016) DI JAMES DEMONACO

"The Purge: Election Year" chiude il cerchio di un brand di successo, ormai in procinto di svilupparsi attraverso la piattaforma televisiva.
L'idea alla base de "La notte del giudizio" è, come spesso capita per le idee, qualcosa di tanto intuitivo quanto geniale allo stesso tempo.
Il capostipite con questa intuizione, di una società capace di negare sé stessa una dozzina di ore l'anno per poter riaffermarsi con più forza, ci campava completamente, vivendone di rendita. Perciò aveva gioco facile a sfamare una curiosità di un certo peso: vedere la trasformazione dell'essere umano di fronte non solo alla possibilità di svincolarsi dalle regole sociali, per dar sfogo ai suoi istinti più primitivi, ma anche di reinserirsi, con disinvoltura e in brevissimo tempo, in quella stessa società, in modo del tutto naturale.
È in questo che risiede l'elemento distopico del film. Non tanto in una comunità che dispieghi momentaneamente meccanismi brutali per sopravvivere (questa è la realtà di tutti i giorni), quanto nell'ottica straniante di una passiva (o attiva) accettazione di questo concertato rituale sacrificale. Qui non c'è mistificazione, non c'è manipolazione terroristica dei media, non si gioca sulla paura, ma si accetta e si accoglie tale soluzione alla pari di un dogma religioso. Difatti, dopo un buon secondo capitolo che spinge sul lato action, abbandonando le venature horror del primo, questo terzo episodio gioca molto sul binomio stato/religione.
Ma vediamo di cosa parla questo "Election Year".
Nell'anno 2022, in concomitanza con le vicende narrate nel primo film, durante lo sfogo annuale un sadico sta torturando una giovane donna di nome Charlie Roan e la sua famiglia. Finirà con lo sterminarla, lasciando solamente lei in vita. 
Diciotto anni dopo, due giorni prima dello Sfogo annuale, una serie di rivoltosi protestano a Washington D.C., dopo la notizia giunta da alcuni rapporti secondo cui i Nuovi Padri Fondatori (NFFA) stiano usando lo Sfogo per beneficiare la loro agenda economica. Ciò sta avendo una grande ripercussione anche sulle imminenti elezioni presidenziali. Infatti Charlie Roan, divenuta ora senatrice, sta guadagnando terreno a discapito del candidato proposto dalla NFFA, il ministro Edwidge Owens. La NFFA, guidata da Caleb Warrens, inizia a vedere Roan come una minaccia al loro regime e prevede quindi di utilizzare l'imminente Sfogo per farla fuori. 
Il terzo capitolo sposta l'asse sulle tematiche politiche e sociali. Da questo punto di vista, si può condividere la scelta di virare su una diversa prospettiva per poter salvaguardare quella qualità (ri)innovativa che aveva contraddistinto il secondo capitolo.
Inutile pretendere da questo tipo di prodotti un'eccessivo approfondimento di suddette tematiche. Stiamo parlando di riempitivi funzionali a intermezzare una scena d'azione e l'altra. 
Il fatto è che il film perde inevitabilmente di mordente rispetto ai predecessori: laddove il primo giocava egregiamente con il thriller; il secondo costruiva una costante atmosfera di pathos, mantenendo un certo ritmo sostenuto per tutta la sua durata e beneficiando, per la verità, dell'effetto propulsivo impresso dal primo film. Qui, invece, i buoni propositi si scontrano con la banalità della messa in scena di quella idea iniziale, ormai lontana dallo stupire.
È l'ingrata eredità che pesa su questo terzo episodio.
Certamente, c'è sempre dietro una buona manifattura nel costruire le scene d'azione, che poi è la ciccia del film. Per il resto non può che apparire completamente metabolizzato il meccanismo di esibizione compiaciuta della follia umana; ad esempio risulta particolarmente fastidioso e scadente il personaggio di Kimmy, una teppistella trasgressiva dallo sguardo ferino che dovrebbe dare continuità al leitmotiv della saga: la violenza irrazionale che ingenera un senso di minaccia a tutto campo.
Ma di preciso cosa vuole aggiungere Election Year?
Sicuramente l'elemento rivoluzionario vuole porre l'accento sulla condizione delle classi meno abbienti, costanti vittime delle politiche governative più conservatrici e reazionarie, mirate a garantire il trastullo di una certa classe borghese agiata, ed a lucrare, per l'ennesima volta, sfruttando il business che la violenza ingenera.
Critica alla politica bellica di Trump?
Dito puntato contro la National Rifle Association (che poi l'ei fu Charlton Henston sarebbe stato un perfetto main character del film, ironia della sorte)?
Chissene, tanto ad Hollywood si muovono sempre allo scopo di mettere in scena un po' di cagnara acchiappa-biglietti ingozzata di effetti speciali, perciò non sembra il caso di allargarsi su eccessive interpretazioni e rimandi al quotidiano.
Ah, ci sarebbe anche una critica al sistema assicurativo americano, incarnata nel personaggio di Joe, ma è talmente accennata e pretestuosa da non meritare anch'essa ulteriori approfondimenti. 
Perciò sotto con la revolution e la devolution, si torni ad una situazione pre-sfogo. Poi tanta tanta azione che, come ribadito, non manca di essere incalzante. 
Ma di certo non ci si può appassionare alle vicende di personaggi costruiti in modo dozzinale, che, oltre ad essere altamente stereotipati, risultano più o meno buffi.
Su tutti il personaggio di  Bishop, volutamente inserito nella mischia con lo scopo di rappresentare un black guy che, farneticando sulla necessità di un'azione armata, richiama la figura di Malcolm X. In realtà risulta così poco approfondito che finisce per scimmiottarlo malamente (e non è un gioco di parole razzista). 
Che dire, poi, dei due senatori rivali?
La senatrice Roan è in principio rappresentata così cazzuta ed emancipata da provocare poi, nell'evolversi della trama, una grossa delusione nello spettatore, messo di fronte a un semplice aggiornamento del tema classico della donzella in pericolo da salvare. 
Mentre la figura del senatore Owens, inizialmente emblema del repubblicano più medio che altro, scivola lentamente nella macchietta del predicatore invasato: l'apoteosi è tutta nel finale e nella sequenza in cui Owens celebra una messa apparecchiato da santone (con tanto di scagnozzi chierichetti) di fronte alla creme de la creme della società di Washington D.C. (tra l'altro notare come si sia risparmiato sui figuranti visti i continui primi piani sulla stessa coppia di attori maschio/femmina in prima fila). 
Poi alla fine ok, facciamo il film amerigheno progressista e ci mettiamo la preponderanza dell'elemento multirazziale, ma, tanto, se qualcuno deve stirare le zampe state certi che, anche stavolta, sarà il nero di turno.
"The Purge: Election Year" è un action serrato con un buon crescendo di tensione, che prova ad aggiungere qualcosa all'universo de "La notte del giudizio", ma niet, nisba, nada. Chiude idealmente il cerchio mettendo un punto (ci crediamo?), ma mostra ormai tutta la stanchezza e la scontatezza di un brand che pare aver esaurito i conigli dal cilindro.
La serializzazione targata Netflix potrebbe giovare rivitalizzando il marchio, se non altro per la diversa impostazione del formato serial che porterebbe ad un restyling.
Ma per ora, a posto così.

Habemus Judicium:
Bob Harris

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