lunedì 30 luglio 2018

DA "ROCKY II" (1979) A "BALBOA" (2006): ASCESA E DECLINO DEL PUGILE CHE CONQUISTO' MOSCA

Dopo quella prima indiscutibile perla che è "Rocky", del quale abbiamo abbondantemente parlato qui, il desiderio di sfruttare un character già leggendario porta la United Artist, 3 anni dopo (1979), a produrre un sequel scritto, interpretato ed addirittura girato da Sly. Con un budget risicato all'osso (7 milioni di dollari), il sequel incassa la bellezza di 200 milioni di dollari in tutto il mondo.
Non c'è che dire, la mossa è risultata tutt'altro che azzardata.
Spiace, magari, sul versante artistico dell'operazione; nonostante sia innegabile che "Rocky II" è un film ben costruito, non si può far a meno di sottolineare quanto sia un facsimile del primo. Ricalcandone pedissequamente la struttura narrativa, ci troviamo di fronte ad un semplice aggiornamento del match Rocky-Apollo.
Già dall'incipit si intravede la deriva ganza della serie, nella scena che vede i due pugili, costretti temporaneamente su una sedia a rotelle dopo il match, battibeccare e sfidarsi verbalmente.
Balboa si riprende, diventa un viso noto e si trova ad avere a che fare con una condizione a lui sconosciuta, quella della celebrità: gira spot pubblicitari e si trova nella piacevole, quanto inedita, situazione di poter gestire un bel gruzzolo di soldi. Ma Rocky è (ancora) un pugile dal cuore grande e dal cervello piccolo, non è portato per gestire e gestirsi.
Tra momenti drammatici (il coma di Adrianaaa) ed altri altamente retorici (su tutte la riproposizione dell'ascesa alla scalinata di Philadelphia, qui con i bambini che circondano e abbracciano Rocky, il tutto immortalato in un fermo immagine) si arriva all'agognato rematch: il verdetto è, finalmente, quello atteso da 3 anni.
Ma, allora, il sogno americano esiste!
Non solo avrai la tua opportunità, ma avrai anche la tua SECONDA opportunità di mostrare il tuo valore. "Rocky II" è un buon film da pasteggio che vive ancora di luce riflessa del capostipite; ma la riproduzione di uno spaccato di società e il tono malinconico del primo stanno lentamente lasciando il posto al vuoto più compiaciuto.
Altri 3 annetti e la voglia di big money si concretizza in "Rocky 3": forse che siamo di fronte ad una trilogia di cui questo terzo film ne è la chiusura ideale del cerchio? Ai posteri l'ardua sentenza; ma, essendo che i posteri siamo noi, sappiamo già che, in realtà, siamo già immersi nella marcia serializzazione.
Dunque, Rocky ha fatto il culo ad Apollo ma si è rammollito e passa più tempo a curare l'immagine e i rapporti con i media piuttosto che a sputare sangue sul ring. Fatto è che arriva il classico nero di quelli veramente incazzati; Clubber Lang è un mix tra Rocky e Apollo: proletario e rabbioso come il primo, spaccone come il secondo, ma molto più tamarro. Poi, siccome sono gli anni ottanta, non si poteva che farlo interpretare a quel fusto primordiale di Mr. T.
A distanza di decenni apprezziamo la memorabilità con occhio commosso.
Clubber fa il culo a un Rocky molle, questi subisce il contraccolpo e risveglia il proprio orgoglio. Mickey già era più di là che di qua nel secondo, perciò è ora di farlo schiattare.
E Apollo dove lo mettiamo? Ma all'angolo di Rocky, ovvio!
Perciò riscatto di Rocky che normalizza Mr T e grande amicizia virile da paccone sulla schiena con Apollo. Il tutto accompagnato da quel l'inno motivazionale, ormai leggendario, che è "Eye of the tiger" dei Survivor, richiesta espressamente da Sly come canzone di scorta, vista l'impossibilità di usare "Another one bites the dust" dei Queen. Direi che è andata bene così.
"Rocky 3" inizia ad aprire un grosso squarcio nel trash: un bel sentore lo abbiamo ad inizio film, quando Balboa viene fatto scontrare con nientepopodimeno che Hulk Hogan (memorabilia N.2). Commenti che aggiungano qualcosa ad una scena del genere ne abbiamo? No, impossibile.
Anche questo terzo capitolo diventa campione di incassi.
È un film, tutto sommato, ancora avvincente, che sa sparare discretamente bene quelle due o tre cartucce emotive.  In generale, però, è chiaro che è andata completamente in vacca l'idea iniziale di raccontare una fiaba urbana: lo stile è ormai in linea con l'America reaganiana dell'edonismo yuppie; Rocky non è più un looser nell'anima, è un ganzo da copertina sicuro di sé e insolitamente acuto. Il dramma ha definitivamente virato verso il (finto) biopic sportivo.
Impossibile concepire Rocky Balboa e Sylvester Stallone separati l'uno dall'altro, ma, con questo film, il personaggio allunga il passo e raggiunge l'ormai celebre attore, tornando a identificarsi e a coincidere con esso: un uomo ricco e assuefatto alla propria fama, privo di quella spinta iniziale che lo ha portato ad affermarsi.
Di 3 anni in 3 anni e si fa 4.
"Rocky 4" esce nelle sale in piena era Reagan e, sopratutto, nella fase di disgregazione dell'Unione sovietica, pochi anni prima del Tear down this wall.
Rocky non è più soltanto l'eroe proletario imborghesito, con questo film diventa un simbolo politico di riappacificazione. Data, però, la spiccata indole reazionaria del brand, più che altro si palesa qui per l'alfiere ideale di un America repubblicana costantemente impegnata a mostrare i bicipiti anche (e sopratutto) in territorio nemico. 
Il nuovo avversario di Balboa ha lo sguardo austero e glaciale di Dolph Lundgren; la minaccia alla fama del campione Italo-americano viene dalla Russia comunista e si chiama Ivan Drago.
La produzione decide di forzare la mano con un altro colpo di scena drammatico: per poter giustificare l'ennesima necessaria rivalsa di Rocky, si sceglie di immolare il personaggio di Apollo Creed.
In linea con il suo carattere arrogante, Creed decide di affrontare la new entry bolscevica, incurante della scarsa preparazione, dovuta all'inattività, e della ferocia distaccata del rivale. L'uscita di scena di Apollo avviene in una sequenza a dir poco grottesca e surreale, in cui si mischia il groove di James Brown e l'ostentazione dell'edonismo americano con il dramma della morte in diretta.
Scena epocale si, ma siamo proprio in alto mare rispetto al realismo degli inizi. 
Rocky è incazzato nero e decide di andare a stanare il nemico a casa sua: l'atteso match si svolgerà in Russia, in un clima di ostilità e antiamericanismo.
Il nostro eroe si rintana in una baita tra le steppe e si allena alla vecchia maniera: laddove Drago fa uso di mezzi ipertecnologici e finanche scorretti (qualche peretta di doping), Balboa trascina carretti, fa le trazioni sugli steccati e corre sulla neve (seminando persino le spie del rivale in macchina. Saranno spie del Kgb? Sarà una scena trash?). 
Si arriva al dunque. Rocky fa il culo a stelle e strisce a Drago (for sure) e si avventura in un discorso nella sua lingua madre, prontamente tradotto da un solerte presentatore in giacca e cravatta, che si articola in una lode stucchevole alla pace tra i popoli e al cambiamento di mentalità.
90 minuti di applausi e Rocky vola nello spazio. 
Questo film proprio non s'ha da digerire: tutti quei personaggi, che avevano decretato il successo dei predecessori, sono qui talmente esasperati nei loro tratti essenziali, da essere ridotti a macchiette (Paulie e Adrianaaaaa in primis). 
Usare poi, in modo reiterato, l'espediente della morte, mostra tutta la forzatura e la pretestuosità che si cela dietro un'operazione meramente commerciale e propagandistica.
"Rocky 4" è un film di cui gli americani dovrebbero e avrebbero dovuto vergognarsi.
In parte è così e in parte no, dato che la forbice tra critica e pubblico, già pian piano allargatasi nei precedenti film, qui raggiunge il suo massimo divario: al botteghino il film sbanca per l'ennesima volta, ma viene bombardato di premi ai Razzie Awards.
"Rocky 5" si fa attendere di più.
Solo nel 1990 la storia ricomincia esattamente dove era terminata: Rocky ha appena battuto Ivan Drago ma non ha tempo di godersi la vittoria. I medici lo avvertono che, a causa dei numerosi colpi incassati nella sua vita, rischia di morire, qualora proseguisse la sua carriera agonistica. Per di più viene frodato dal suo commercialista che lo lascia sul lastrico e lo riporta sulla strada, nella periferia di Philadelphia.
Un giovane di belle speranze, Tommy Gunn, attira l'attenzione di Rocky, che decide di crescere un futuro campione, per poter indirettamente continuare a vivere la passione per il ring. Ma Tommy si farà presto abbagliare dalle luci della ribalta. 
Curiosamente nel cast figura il figlio di Stallone, Sage, nella parte del figlio del protagonista, e Tommy Morrison (nei panni di Tommy), che di li a poco sarebbe diventato realmente campione del mondo dei pesi massimi. 
Finalmente si torna alle origini, al pugile looser e stoicamente votato al sacrificio. I toni sono di nuovo sommessi e malinconici: ai temi cari della serie, si aggiunge un sentimento di nostalgia del vecchio pugile costretto ad appendere i guanti al chiodo.
Balboa non è spaesato dal fatto di aver perso la sua fortuna e neanche, principalmente, dal fatto di non poter più mostrare gli occhi della tigre sul ring. Egli si trova sperso in un mondo che viaggia troppo velocemente per lui (suo figlio è ormai grande e vuole dedicarsi allo studio) ed infarcito di squali.
La famosa perdita dei valori e dell'antico codice d'onore sono rispecchiati nella figura parricida di Tommy Gunn. La scena della scazzottata finale in mondovisione è eccessiva (come da copione) ma, finalmente, torna a darci qualcosa di umano e tangibile.
Gli anni '90 sono iniziati, la bolla di sapone del decennio sfrenato è già scoppiata, c'è incertezza sul futuro. Rocky è la reazione più naturale di chi, per paura di guardare avanti, tenta di rifugiarsi nel proprio passato. 
Anche stavolta Balboa vince la sua effimera battaglia, ma dentro di sé sa di aver perso: non è più tempo per lui di illuminare il ring e il suo cuore grande e puro non è in grado di redimere coloro la cui anima ha un prezzo ben preciso. 
Viceversa rispetto a quanto accadde per "Rocky 4", il film sarà un flop ai botteghini e riceverà il plauso della critica (che lo considererà il migliore subito dopo il primo).
Passano ben 16 anni e Stallone rimette mano al suo personaggio.
La moda di ripescare i brand più iconici e spremerli ulteriormente porta a "Rocky Balboa". 
In un continuum con il predecessore, il film accentua ulteriormente il clima nostalgico e dimesso, riproponendo la figura del pugile decadente e fallito.
Adesso è finito per davvero, è vecchio, patetico (passa le giornate a stordire gli avventori del suo ristorante con aneddoti del passato), ha perso la compagna di una vita (ancora un utilizzo smodato e pretestuoso della tematica morte, qui, per la verità, dovuto al rifiuto di Talia Shire di partecipare al progetto) e si trova sempre più fuori luogo rispetto ad un presente ipercinetico.
Anche stavolta Rocky troverà il suo avversario, ma mai come in questo caso risulta anonimo e sottotono. Lo Stallone Italiano ha sempre combattuto prima di tutto con l'idea posta alla base dei suoi rivali, portatori di un messaggio ben più ampio e sempre fortemente caratterizzati.
In Rocky Balboa il nemico quasi non ha volto, è completamente depersonalizzato: non è Mason Dixon il suo vero avversario, ma la rassegnazione
Per la prima volta, dopo il primo film, esce sconfitto.
Anche qui perde ai punti, in un'ideale, e stavolta, definitiva chiusura del cerchio. Ancora una volta ha dimostrato prima a se stesso che agli altri e, ancora una volta, il sogno di un pugile di periferia prende forma sul ring. 
Con questo capitolo autoreferenziale ma discretamente riuscito suona ufficialmente l'ultimo gong della saga di Rocky, che prosegue per vie traverse con lo spin-off sul figlio di Creed. Ma dei tentativi di spremere dollari e (ri)lanciare un marchio ormai languido non è questa la sede adatta per parlare, ammesso che ce ne sia una. 
Chiudiamo con una frase che riassume magnificamente la figura di Rocky Balboa e la sua importanza:

«Be', ecco, a dire la verità, sai certe volte un po' di paura ce l'ho è vero; quando sono sul ring e le prendo, e le braccia mi fanno tanto male che non riesco più ad alzarle. Sì allora penso: "Dio quanto vorrei che mi beccasse sul mento così non sentirei più niente!" Però poi c'è un'altra parte di me che viene fuori e non ha tanta paura... c'è un'altra parte di me che non vuole mollare, che vuol fare un altro round. Perché fare un altro round quando pensi di non farcela, è una cosa che può cambiare tutta la tua vita. Capisci quello che voglio dire?»

Bob Harris

1 commento:

  1. Bella retrospettiva.un solo appunto:i tipi che Rocky semina sulla neve in rocky IV non sono spie,ma delle guardie del corpo assegnatogli durante la sua permanenza.

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