"Suicide Club", distribuito in Giappone con il titolo "Suicide Circle", è un film horror del 2002 di Sion Sono, il suo primo approccio commerciale. Fino ad allora il regista giapponese aveva confezionato solo pellicole sperimentali caratterizzate da poche e lunghissime sequenze, spesso quasi prive di dialoghi, e dall'uso di molteplici soluzioni stilistiche.
E' con "Suicide Club" che il nome di Sion Sono inizia a girare tra gli appassionati del cinema di genere; i suoi film vengono proiettati in rassegne e festival occidentali, il pubblico si estende sempre di più, anche qui da noi dove, ahimè, la sua filmografia è stata pressocché ignorata dalla distribuzione.
Prima sequenza: siamo a Tokyo nella stazione di Shinjuku.
La banchina, come da copione, è affollata di gente che attende il treno; dagli altoparlanti viene diffusa la classica voce che invita i presenti ad allontanarsi dalla linea gialla. Lungo la piattaforma ci sono 54 studentesse, una vicina all'altra. Si tengono per mano e sorridono, sono serene ed alzano un coretto. «Uno e due, uno e due».
Il treno è in arrivo.
«Uno, due... e tre».
Le 54 studentesse si lanciano sui binari ed il sangue sporca ogni cosa, la piattaforma, il treno, i passanti. Un borsone bianco, adagiato sulla banchina insanguinata, viene inquadrato dalla telecamera. Cambio di scena, un gruppo musicale di adolescenti, le Dessert, si esibisce con un pezzo dal ritornello odioso: "Mail Me".
"Suicide Club" inizia così, nel modo più crudo, scioccante e straniante possibile.
E' con "Suicide Club" che il nome di Sion Sono inizia a girare tra gli appassionati del cinema di genere; i suoi film vengono proiettati in rassegne e festival occidentali, il pubblico si estende sempre di più, anche qui da noi dove, ahimè, la sua filmografia è stata pressocché ignorata dalla distribuzione.
Prima sequenza: siamo a Tokyo nella stazione di Shinjuku.
La banchina, come da copione, è affollata di gente che attende il treno; dagli altoparlanti viene diffusa la classica voce che invita i presenti ad allontanarsi dalla linea gialla. Lungo la piattaforma ci sono 54 studentesse, una vicina all'altra. Si tengono per mano e sorridono, sono serene ed alzano un coretto. «Uno e due, uno e due».
Il treno è in arrivo.
«Uno, due... e tre».
Le 54 studentesse si lanciano sui binari ed il sangue sporca ogni cosa, la piattaforma, il treno, i passanti. Un borsone bianco, adagiato sulla banchina insanguinata, viene inquadrato dalla telecamera. Cambio di scena, un gruppo musicale di adolescenti, le Dessert, si esibisce con un pezzo dal ritornello odioso: "Mail Me".
"Suicide Club" inizia così, nel modo più crudo, scioccante e straniante possibile.
Ciò che accade in metropolitana è solo l'inizio.
Altri suicidi ed un borsone, sempre bianco, che compare sui luoghi delle morti.
Il suo contenuto? Qualcosa di rivoltante.
Per la polizia dietro ai suicidi si può celare una mente criminale. A suffragare l'idea alcune telefonate misteriose ed un sito internet in cui compaiono solo dei pallini.
In "Suicide Club" si innestato trame e sottotrame che spiazzano, creano tensione, costruiscono e sfilacciano continuamente la narrazione. Si rimane smarriti dinnanzi ad un numero talmente grande di personaggi da apparire, agli occhi dello spettatore, quasi anonimi.
E tutto ciò è funzionale all'indea di fondo, piccole tessere narrative che mirano a rappresentare la società giapponese; si parte da un Horror/Thriller dal quale ci si aspettano risposte quadrate e complete, ma ben presto ci si rende conto che il film va oltre e che di quadrato e solido ha ben poco. Sion Sono prende il genere, lo piega e lo trasforma in uno strumento con cui mettere in scena una personale analisi sull'alienazione. Parte dai schizzi di sangue e giunge all'autocoscienza (si pensi al dialogo teatrale), mostrando un uomo moderno appiattito su anonimato e routine, incapace a costruirsi una vita relazionale.
"Suicide Club" è, per lo spettatore occidentale, un'opera sfuggente e straniante in cui la diversità culturale e sociale c'è e si sente fortissima. E grazie a ciò cresce il fascino esercitato dalla pellicola, una di quelle capaci di far interrogare lo spettatore dopo i titoli di coda.
Altri suicidi ed un borsone, sempre bianco, che compare sui luoghi delle morti.
Il suo contenuto? Qualcosa di rivoltante.
Per la polizia dietro ai suicidi si può celare una mente criminale. A suffragare l'idea alcune telefonate misteriose ed un sito internet in cui compaiono solo dei pallini.
In "Suicide Club" si innestato trame e sottotrame che spiazzano, creano tensione, costruiscono e sfilacciano continuamente la narrazione. Si rimane smarriti dinnanzi ad un numero talmente grande di personaggi da apparire, agli occhi dello spettatore, quasi anonimi.
E tutto ciò è funzionale all'indea di fondo, piccole tessere narrative che mirano a rappresentare la società giapponese; si parte da un Horror/Thriller dal quale ci si aspettano risposte quadrate e complete, ma ben presto ci si rende conto che il film va oltre e che di quadrato e solido ha ben poco. Sion Sono prende il genere, lo piega e lo trasforma in uno strumento con cui mettere in scena una personale analisi sull'alienazione. Parte dai schizzi di sangue e giunge all'autocoscienza (si pensi al dialogo teatrale), mostrando un uomo moderno appiattito su anonimato e routine, incapace a costruirsi una vita relazionale.
"Suicide Club" è, per lo spettatore occidentale, un'opera sfuggente e straniante in cui la diversità culturale e sociale c'è e si sente fortissima. E grazie a ciò cresce il fascino esercitato dalla pellicola, una di quelle capaci di far interrogare lo spettatore dopo i titoli di coda.
Habemus Judicium:
S.V.
S.V.
Ismail
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